Merito! Eccellenza! Valutazione! Contro l’università “in scatola”
Cari lettori e lettrici, la redazione di LN si prende una pausa estiva per tutto il mese di agosto. Durante questo mese, ripubblicheremo alcuni articoli già usciti nel corso dell’anno. Ci rivediamo a settembre.
Una versione più lunga di questa recensione è stata pubblicata sul n. 75 di Allegoria
Universitaly. La cultura in scatola (Laterza, 2016) di Federico Bertoni ci consente uno sguardo critico sugli assetti attuali dell’Università italiana: è dunque un libro prezioso e da discutere. Il volume, dedicato «ai miei tre figli, piccoli maestri», è aperto da avvertenze (Questo libro) che ne precisano il genere, il metodo e gli intenti («al tempo stesso un racconto, un saggio di critica culturale e un testardo gesto d’amore per il sapere, l’insegnamento e un’istituzione che ha accompagnato il progetto della modernità occidentale», p. VII). Il titolo rinvia al pullulare merceologico degli acronimi anglofili nel marketing accademico. La struttura è tripartita: il primo capitolo (Esperienza) è dedito a misurare nella prassi quotidiana (dettagli, relazioni, gesti della «giornata d’un professore») l’impatto delle trasformazioni imposte agli adempimenti burocratici, all’insegnamento, all’organizzazione dei corsi e all’identità stessa di un docente universitario a partire dalla riforma Berlinguer in poi; il secondo capitolo (Narrazione) racconta con intento demistificante (con Flaubert) i luoghi comuni della bêtise e della master fiction egemone sull’Università e le sue parole magiche (Merito, Eccellenza, Valutazione); il terzo e ultimo capitolo (dal titolo Politica) è diagnostico e terapeutico: cerca di spiegare come sia potuto accadere che l’università da luogo di elaborazione della conoscenza sia diventata un «concentrato di stupidità” e cerca di suggerire alcune minime pratiche di resistenza.
Va detto che la scelta di un taglio demistificante da parte di un docente “strutturato” (e di uno studioso e critico di valore) come Bertoni, è assai coraggiosa. La «bonifica semantica» (p. 62) che permette di decostruire le parole egemoni svelando l’ideologia, è oggi indispensabile. Il metodo della testimonianza sul campo è altresì efficace e condivisibile: dà un’idea problematica e al contempo divulgativa, a un pubblico potenzialmente ampio, di cosa sia oggi l’Università.
Esemplare è il rilievo dato da Bertoni all’incompatibilità della forma saggistica (tipica del pensiero critico novecentesco) entro gli standard degli abstract e dei papers oggi in vigore, e intesi come pseudo-dimostrazione della “produzione” scientifica e di teoremi pseudo-matematici:
E ti dici che in questo mondo uno come Lukács è ormai un marziano, quando descriveva la forma del saggio come un percorso di esplorazione e di scoperta, una tensione verso una meta non ricercata, perché “il saggio tende alla verità, esattamente, ma come Saul, il quale era partito per cercare le asine di suo padre e trovò un regno. (p. 7)
La debolezza di Universitaly risiede tuttavia, a mio avviso, nei concetti-chiave dell’interpretazione, riconducibili a Foucault, evidenti fin dal titolo del paragrafo Microfisica della bêtise (p. 36):
La governamentalità dell’attuale mondo accademico (e forse del mondo occidentale tout court) si basa infatti su un sistema di potere miniaturizzato e diffuso, tanto stupido quanto efficace, non riconducibile a singole teste pensanti (?) ma disseminato in una microfisica di pratiche quotidiane di cui siamo al tempo stesso attori, vittime e complici (p. 37)
Bertoni, insomma, svela benissimo come «la giornata d’ un professore» cominci ad assomigliare a quella di un operatore di «una consumer oriented corporation, soggetta a forme di valutazione e di accreditamento molto più simili a quelle delle agenzie di rating che a quelle di una comunità scientifica», fino al predominio del “termine-ombrello eccellenza, segno vuoto senza referente» (p. 24). Ciò che questo simulacro linguistico copre, tuttavia, non credo sia afferrabile con l’armamentario concettuale della French Theory, vale a dire con il rilievo del nesso molecolare fra potere e linguaggio, spesso tautologico e comunque egemone in campo teorico dagli anni ottanta. L’allarme appassionato e generoso riguardo alla repentina assimilazione del sistema universitario alla logica neoliberale d’altra parte, rimanendo culturalista, ossia esterno ai rapporti di forza materiali, è sempre passibile di essere deriso e depotenziato dall’obiezione di muovere dalla separatezza della cultura, ossia dalla conservazione nostalgica di una privilegiata università perduta e inefficiente (quella degli sprechi e dei “baroni”).
Per prevenire il ritornello sui tagli come rimedio contro l’inefficienza parassitaria e il malaffare accademico (che pur ci sono, naturalmente), bisogna riuscire a spiegare a tutti, e in primo luogo a noi stessi, di quali rapporti di forza consista oggi il lavoro di un docente di discipline umanistiche. Bisognerebbe insomma, analizzando i processi che dal 3+2 di Berlinguer arrivano alla creazione dell’Anvur, mettere al centro del discorso lavoro e capitale, anziché bêtise e “governamentalità”.
Tutte le riforme che nell’ultimo quarto di secolo hanno investito la formazione italiana hanno cercato di assimilare l’università all’impresa: la legge Ruberti, la legge Berlinguer-Zecchino, la legge Moratti e la legge Gelmini. Questo impianto non è solo terminologico (il lemma “prodotto” usato per la prima volta in senso universitario) ma risponde a un’ideologia e a rapporti di forza tipicamente confindustriali (i modelli sono le “libere” università private, come la LUISS).
Il 3+2, fondato sulla laurea triennale professionalizzante e sull’“approfondimento magistrale”, ha dato veste istituzionale al processo di scissione fra ricerca e didattica: la “professionalizzazione” è un inganno per servi e, se la ricerca è «il cuore professionale stesso di tutte le professioni intellettuali” (Mordenti in Bertoni, p. 16), per il campo umanistico e letterario, il processo interdialogico e l’interrogazione comunitaria, a partire dai testi, sui nessi tra questi e il mondo, e tra il passato e il presente costituiscono, a ogni livello e diversamente dal campo delle scienze applicate, la vera ragione e il senso del nostro lavoro.
Grandi assenti, a mio parere, nel libro di Bertoni sono, dunque, un ragionamento politico-culturale sui diversi criteri necessari nel giudizio di valore per i “prodotti” delle discipline umanistiche e, soprattutto, un’analisi politica del nesso ricerca-didattica.
Mentre la ricerca è diventata vettore di un affannoso reperimento di fondi, con la necessità di dimostrare, nei documenti di dipartimento, di essere in linea con i parametri della valutazione, la didattica è abbandonata, in un processo sempre più estremo di divisione del lavoro, alle chiacchiere tecnocratiche dei pedagogisti. La scissione fra chi fa e chi pensa, è dunque concretamente evidente, appiattendo la funzione intellettuale sul ruolo accademico-aziendale: a esempio, nella divaricazione fra lavoro didattico (di nessun rilievo valutativo) e scrittura di papers su riviste in fascia A (al vertice della classifica valutativa). Se la domanda perché, per chi e come si scrive ha costituito nel secolo scorso il progetto implicito delle migliori riviste di cultura, oggi la risposta (si scrive per aumentare ogni anno i propri “prodotti della ricerca” da inserire nella VQR e ottenere meno tagli, con una lingua standard coincidente con un inglese basico) la dice lunga su cosa sia cambiato (in termini di capitale e di lavoro) e come sia stata rimossa la presenza di visioni complessive e conflittuali del mondo quale motore stesso della ricerca umanistica. Oggi le riviste non costituiscono un progetto culturale ma un piccolo business, dato che per pagare gli abbonamenti e le banche dati bibliometriche, le università spendono ogni anno circa cento milioni di euro. E sono soprattutto meri strumenti di carriera accademica e concorsuale: senza più alcun pubblico. Dunque, la scissione tra ricerca e didattica, tra parole e cose è completa: il sistema di valutazione lascia la didattica (cioè la prassi lavorativa viva, il valore d’uso) in mano ai pedagogisti e dà massima rilevanza alle riviste di fascia A (intese come prodotti morti, senza pubblico e riconducibili a mero valore di scambio).
Del resto, passando dal campo del lavoro a quello del capitale, va detto a chiare lettere come i processi di valutazione servano per legittimare, in modo solo apparentemente oggettivo, i tagli: nel mondo aziendale e in quello dei rapporti finanziari internazionali tutti i manager coinvolti mostrano di saperlo perfettamente, sia pure in forme dissimulate, mentre nel mondo della formazione molti sembrano pensare ancora che possa trattarsi di una inevitabile razionalizzazione contro sprechi e baronie. Analogamente, le diverse figure del precariato docente (contrattisti, assegnisti, dottori di ricerca) sono paurosamente divise al loro interno e in lotta fra di loro. I docenti strutturati sono a loro volta collettivamente inerti non solo per le ragioni intrapsichiche bene esposte da Bertoni (appartenenza alla “zona grigia”, abitudine inveterata all’individualismo e alla competizione, pp. 102-3) ma anche perché hanno rinunciato alla verifica della non neutralità dei propri saperi e perché non vogliono fare la fine degli “atenei del Sud”, che stanno al sistema universitario come la Grecia sta al sistema Europa.
Il libro di Bertoni può costituire, insomma, una coraggiosa base di partenza per un discorso radicalmente critico sull’Università, a patto di avviare una vera discussione delle sue stesse contraddizioni. Bertoni mostra di saperlo soprattutto nelle parti meno “comiche” e più “tragiche” del suo libro.
Il capitolo conclusivo di Universitaly, dal titolo Politica, comprende un decalogo di piccoli gesti resistenti a uso del docente. Il professore che tra le macerie dell’università neoliberista voglia continuare a far bene il proprio lavoro, argomenta con passione Bertoni, deve soprattutto studiare e insegnare: rallentare, smascherare, giocare al rialzo, non trattare gli studenti come clienti, insegnare loro il dissenso. Ma questa prassi quotidiana non si esaurisce nella suggestione poetica del professor Keating in L’ attimo fuggente che apre il libro (p. 9) e trascina inevitabilmente con sé la memoria dei dodici professori che rifiutarono di giurare fedeltà al fascismo e quella della Resistenza, che lo chiude (p. 104). L’ultimo paragrafo s’intitola infatti I piccoli maestri e si connette alla dedica iniziale ai figli, chiamati tali, oltre che naturalmente al capolavoro di Gigi Meneghello. La decostruzione della retorica governamentale lascia spazio insomma, in chiusura, alla ricostruzione antiretorica della coscienza politica antifascista e alla memoria della guerra partigiana nell’Altopiano di Asiago. È il punto più alto del libro, e insieme l’attestazione dell’onestà del suo autore: qui non sono più di scena i barlumi residuali dell’amore personale per l’istituzione accademica ma la scelta «chiara e difficile» della parte migliore di una generazione.
Se la vera sintesi, programmatica e reattiva, condivisibile di Universitaly è «strappare l’insegnamento a una logica di mera fornitura di servizi dietro compenso per restituirlo alla sua natura conflittuale» (p. 121), questa sintesi impone di prefigurare una prassi collettiva conflittuale oggi assente e di rimemorare i Rosselli, Salvemini e Gramsci, (p. 127), gli intellettuali di opposizione con cui il libro si chiude, perché «ridisegnare la scena educativa» (Readings), non può che incrinare la postura resistente solitaria e implicare un’alternativa all’ordine di cose che impone «l’equazione subdola» tra responsabilità (accountability) e contabilità (accounting) intuita più di vent’anni fa da Bill Readings (p. 98).
Del resto, dopo l’esperienza di subordinazione fascista dell’Università, i padri costituenti hanno pensato all’autonomia didattica e culturale degli atenei garantita dalla Costituzione, non certo a quella finanziaria: perché solo il finanziamento pubblico è garanzia di libertà. L’autonomia contabile è invece omologa al pareggio di bilancio introdotto nella Costituzione nel 2012, che ne ha sfregiato la natura democratica legittimando il sistema dei tagli, in nome dell’ideologia che impone politiche monetarie e divieto per lo Stato di qualsivoglia intervento in deficit spending sull’economia, illegalizzando in sostanza stato sociale e keynesismo.
L’università odierna, quella del mantra dell’eccellenza e della valutazione, svela insomma l’egemonia antidemocratica del monetarismo e della super-contabilità. Se il libro di Bertoni sarà letto solo come l’allergia di un umanista-passatista all’invasione degli adempimenti burocratico-informatici cui sono soggetti i docenti, non si sarà colta la sua dissimulata tensione radicale, tutta ancora da organizzare e da adempiere.
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