
Le parole di Gramsci sui nostri tempi
Questo scritto risale al 2004, quando uscì Le parole di Gramsci, a cura di F. Frosini e G. Liguori, Carocci. Per completezza va ricordato che sempre Carocci ha pubblicato nel 2009 un ponderoso Dizionario gramsciano, a cura di G. Liguori e P. Voza. Oggi ripubblichiamo questo scritto perchè per la lettura della nostra attualità storico-politica ci sembrano ancora molto utili le categorie concettuali gramsciane.
Il brescianesimo
Nei periodi di crisi, quando la forza espansiva delle classi dominanti si ripiega su se stessa e l’intera società attraversa un declino di civiltà, in letteratura si affermano “i nipotini di padri Bresciani”. La “letteratura alla padre Bresciani”, o brescianesimo, era espressione, originariamente, delle tendenze reazionarie e gesuitiche volte a propagandare, negli anni del Risorgimento, una posizione antigiacobina, austriacante e filoborbonica e un perbenismo angustamente cattolico e conservatore; poi diventa, nella terminologia gramsciana, una etichetta intesa a definire un atteggiamento letterario autocelebrativo, meschino e superficiale, incapace di confrontarsi con la realtà viva della storia. Anzi – spiega Marina Musitelli Paladini che tratta la voce “brescianesimo” nel libro di vari autori “Le parole di Gramsci” a cura di F. Frosini e G. Liguori (Carocci editore) – il “brescianesimo” si trasforma per Gramsci in una “categoria teorico-metodologica” che serve a cogliere una tendenza profonda all’insincerità, all’evasione e al disimpegno, sempre presente nella letteratura italiana di ogni secolo, ma particolarmente attiva in quella contemporanea.
Quando vengono a mancare il sentimento della “storicità” e il bisogno di “socialità”, non resta che l’individualismo aggressivo e convulso. E infatti i “nipotini di padre Bresciani” si diffondono nei periodi di crisi, quando, scrive Gramsci, “la libertà creatrice è sparita” e “rimane l’astio, lo spirito di vendetta, l’accecamento balordo”: allora “tutto diventa pratico, inconsciamente, tutto è propaganda e polemica, è negazione, ma in forma meschina, ristretta, gesuitica appunto”. Un ritratto dello scittore italiano, come si vede, quanto mai attuale.
L’egemonia
D’altronde anche altri lemmi qui considerati, come “egemonia”, “americanismo e fordismo”, “ideologia”, “rivoluzione passiva”, redatti rispettivamente da Giuseppe Cospito, Giorgio Baratta, Guido Liguori e Pasquale Voza, rivelano categorie in grado di essere applicate con successo alla comprensione critica del mondo attuale. Il concetto di egemonia, per esempio, considerato su scala mondiale, spiega l’affermazione dell’americanismo e i processi di rivoluzione passiva e anche di mondializzazione o globalizzazione che esso induce. Il potere si affida sempre più, oltre che alla forza e alla coercizione, all’egemonia ideologica e culturale.
Lo studio del potere si configura nel pensiero gramsciano come analisi di una egemonia che passa attraverso il linguaggio, la cultura, la scuola, le biblioteche, l’editoria, le immagini, l’architettura, la toponomastica cittadina, nonché, potremmo aggiungere oggi, attraverso i messaggi multimediali, televisivi, pubblicitari ecc. Pur essendo vissuto in un’età assai diversa dalla nostra, Gramsci è stato il primo ad avvicinarsi a una verità che ormai è sotto gli occhi di tutti: fra potere del linguaggio e linguaggio del potere oggi non c’è più differenza. In un mondo in cui l’informazione, la moda, l’intrattenimento, lo spettacolo, la pubblicità sono sempre più pervasivi, il linguaggio è immediatamente potere e il potere si presenta come linguaggio, il pensiero di Gramsci appare come uno strumento indispensabile di conoscenza.
La filologia viva
Di qui la fortuna attuale di Gramsci negli Stati Uniti, dove la sua lezione – seppure ibridata e magari confusa con quella di Foucault e persino di Nietzsche – si presta in modo particolare allo studio della grammatica del potere, considerata nella ideologia letteraria o nell’attrito fra culture colonizzatrici e culture dei popoli subalterni (sulla fortuna di Gramsci oggi si possono leggere i capitoli finali di un altro libro edito ancora da Carocci: Le rose e i quaderni di Giorgio Baratta). Attraverso i cultural studies, il decostruzionismo e il “new historicism” Gramsci conosce in Nordamerica una fortuna inaspettata, mentre nella sua patria d’origine, in Italia, risulta del tutto dimenticato, o trattato come un fossile inservibile. Ma, si sa, gli americanizzati sono assai peggiori degli americani, e i parvenu e i provinciali sono più zelanti dei signori che decidono le regole di comportamento nel cuore dell’impero. ”Le parole di Gramsci” è un libro utile e ben congegnato.
Avanzerei però una riserva. La preoccupazione di non “sollecitare i testi”, espressa nella Premessa del libro, è sacrosanta e coerente con lo spirito di Gramsci (contrario a ogni dilettantismo e pronto,infatti, a polemizzare con il “lorianismo”). Tuttavia Gramsci si batte per una “filologia viva”: lo scrupolo e il rigore devono esprimere una tensione politica attuale ed essere finalizzati a una conoscenza critica non solo del passato ma del presente. Guai se l’alternativa al silenzio è una riserva indiana di dotti che si limitano a postillare i testi gramsciani praticando una “filologia morta”: senza calarli, cioè, nella realtà di oggi. Avrei desiderato, insomma, che non ci si accontentasse di “rileggere il testo con rigore filologico e con gli strumenti più sofisticati” e che si mostrasse la validità della rete concettuale gramsciana applicandola alla storia dei nostri tempi.
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NOTA
Questa recensione, priva della parte introduttiva, è apparsa su L’Unità.
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