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Psicoanalisi della valutazione

 Frustrazione e politica

La questione “valutazione” mi mette a disagio. Mi turba la convinzione che le classifiche di atenei e facoltà che ogni santo luglio ci vengono propinate da Repubblica, Sole 24ore, ecc. utilizzano parametri che chi fa l’università mai eleggerebbe a indicatori di qualità. Mi angoscia la consapevolezza che l’operazione di mistificazione che la retorica del merito mette in atto resta immune ad ogni tentativo di “controinformazione”. La lettura di documenti come quello dell’ANVUR, dedicato a «Criteri e parametri di valutazione dei candidati e dei commissari dell’abilitazione scientifica nazionale», così pieno di competizione, internazionalizzazione, capacità di attrarre fondi esterni – concetti vuoti, manipolabili, ovvero del tutto estranei all’idea di ricerca che in molti condividiamo, crea in me un senso di profondo disorientamento.

Andando oltre la mia personale frustrazione, vorrei recuperare il senso collettivo di questa vicenda. Mi parrebbe, cioè, importante capire in che modo il discorso del merito è diventato senso comune in riferimento a università, scuola e ricerca, perché la retorica della valutazione ha guadagnato subito un’adesione quasi fideistica e perché il nuovo conformismo accademico che ad essa si ispira tanto presto e tanto facilmente ha avuto la meglio sul bisogno di comprenderne il significato politico. Non sarei in grado di fornire una lettura psicoanalitica di tutto questo, pur riconoscendo il successo che da ultimo la psicanalisi ha guadagnato nell’interpretazione del contesto politico e delle dinamiche sociali. Registro però dei comportamenti che nel complesso rappresentano dati interessanti.

 Merito e feticismo

Dalla storica assemblea di Milano del 29 aprile 2010 , in cui è stata fondata la Rete 29 Aprile , passando per le assemblee di ateneo che si sono susseguite nell’ultimo anno, ho registrato reazioni via via più animose alle riserve che esprimevo verso le virtù salvifiche della valutazione della ricerca. In un’occasione recente – un’assemblea di ateneo di Perugia dedicata alla redazione del nuovo statuto – avendo spiegato perché non ritengo la valutazione una cosa seria, sono stata fatta segno della vibrante dissociazione da parte di un collega, seguita dallo scrosciante applauso dell’assemblea. Esprimere l’idea che la valutazione fa capo ad un’operazione di mistificazione equivale ormai ad affermare l’assurdo, a proferire una bestemmia. Dalle reazioni di molti colleghi emerge una vera e propria feticizzazione del merito, l’identificazione della ricerca stessa con la sua valutazione, tale che non si dà ricerca se essa non può essere misurata nella sua qualità, nel merito appunto.

Valutazione e falsa coscienza

C’è in questo atteggiamento sicuramente l’ombra di una specifica questione morale; cattiva coscienza e cattiva reputazione che alimentano il desiderio di redenzione, ma cercano risposta nell’ipocrisia di un sistema manicheo che assegna la patente di buono e cattivo senza sfiorare neppure la questione della serietà e della preparazione vere di chi fa ricerca. C’è però anche e soprattutto, come accennavo, una buona dose di falsa coscienza, prodotta da un sistema che in poco tempo è riuscito a modificare la percezione delle cose, cosicché valutazione e competizione nella ricerca sono diventate valori in sé e guai a metterne in dubbio l’intrinseca bontà. Fra i più strenui sostenitori del merito mi pare vi siano gli economisti e questo è buffo se si considera che la loro disciplina in questi ultimi due anni è stata accusata a livello globale di essere viziata da conformismo a tal punto da rivelarsi incapace di produrre un’analisi seria dei prodromi della crisi capitalistica in corso. Ecco un frutto della falsa coscienza: la valutazione è assunta incondizionatamente come un must; d’altra parte l’obbedienza al pensiero dominante non è indice di buona ricerca, ma ci sono parametri obiettivi di VQR (Valutazione quinquennale della ricerca) in grado di individuarla e misurarla? E c’è qualche fautore del merito disposto a preoccuparsene?

Valutazione e scienze umane

Un’altra stortura cui questo sistema sta portando nell’accademia italiana è forse circoscritta alle scienze umane, finora impact factorfree. La necessità di mettere insieme in fretta e furia degli indici obiettivi di valutazione ha portato le varie associazioni di studiosi – e qui mi riferisco ai giuristi – a candidarsi alla individuazione degli stessi, in competizione fra loro e in assenza, in alcuni casi almeno, di una riconosciuta legittimazione all’interno della disciplina di riferimento. Importa poco che qualche singolo si sia impegnato nella costruzione del sistema nella speranza di essere nominato componente dell’Agenzia di Valutazione; più rilevante il fatto che anche chi in passato ha gestito i concorsi in modo non impeccabile, essendosi autoassolto, aderisca ora alla retorica del merito impegnandosi in prima linea nell’impresa della valutazione, la quale evidentemente si prospetta come un’occasione residua di gestione del potere accademico.

Valutazione e finanziamenti

Ed allora, abbandonando la dimensione psicoanalitica o, più propriamente, etologica della questione, è opportuno metterne a fuoco il significato politico. Il quale è tutto, ovviamente, nel rapporto fra valutazione e tagli al finanziamento degli atenei. In questo quadro la valutazione della ricerca si presenta per ciò che è: il sistema prescelto per ridurre drasticamente la spesa pubblica in un settore – l’educazione – non ritenuto strategico per l’azienda Italia. La retorica del merito rappresenta infatti uno degli ingredienti principali della dieta di mantenimento messa a punto dalla legge Gelmini e dai suoi decreti attuativi a seguito dei tagli draconiani attuati con le ultime manovre finanziarie. Il nuovo sistema si avvale in realtà di due strumenti strettamente connessi fra loro: la radicale compressione degli strumenti di democrazia nel governo degli atenei, da una parte, e la valutazione della didattica e della ricerca, dall’altra. L’accentramento del potere nelle mani dei rettori e dei CdA consente di controllare e destinare le poche risorse di cui gli atenei dispongono ai settori della ricerca di volta in volta ritenuti produttivi in un dato contesto di mercato, in base ad una valutazione che sarà agevolata dalla presenza nei CdA stessi di soggetti esterni, privati imprenditori o politici locali,che ne sono membri di diritto. L’obiettività e la trasparenza di questo tipo di operazione sarà garantita dalle procedure di valutazione realizzate attraverso un sistema complesso che trova il suo vertice nazionale nell’ANVUR. A livello locale sarà compito del nucleo di valutazione di ciascun ateneo avallare e legittimare col crisma del merito le scelte compiute a monte dal CdA, secondo un’equazione produttività=meritevolezza che già oggi i media sostenitori della riforma propagandano come senso comune.

L’ideologia del merito

In questo contesto i caratteri propri dell’ideologia del merito appaiono perfettamente in linea con la funzione che la valutazione è chiamata ad assolvere: attribuzione di un potere premiale (e specularmente punitivo) ad un’entità gerarchicamente sovraordinata al ricercatore e alla struttura di ricerca, con buona pace del sistema a sovranità diffusa disegnato dai principi costituzionali della libertà di insegnamento e di ricerca; incanalamento della ricerca in canoni e filoni dati che ne consentono il controllo e la valutazione obiettiva, in linea col sistema gerarchico appena descritto; conseguente asservimento della ricerca universitaria a interessi ulteriori e diversi rispetto alla libera ricerca concepita come fine in sé; affermazione di una logica individualista e competitiva fra ricercatori e fra strutture che mentre mette a confronto – al fine di dividersi quel che resta della torta – discipline che nulla hanno a che vedere l’una con l’altra, occulta la natura di bene comune della conoscenza, quale frutto di produzione cooperativa e collettiva.

NOTA

Una versione più estesa di questo articolo è apparsa su www.menodizero.eu Anno II, numero 5, Aprile-Giugno 2011.

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