
Perché andare a votare ai referendum dell’8 e 9 giugno
Domenica 8 e lunedì 9 giugno si vota per cinque referendum abrogativi (uno sulla cittadinanza, teso a ridurre per molti lavoratori stranieri in regola con le nostre leggi il periodo necessario per ottenere la cittadinanza e quattro sul lavoro, volti a smontare le infauste conseguenze del cosiddetto jobs act sulle condizioni occupazionali di milioni di lavoratori). L’indicazione del Comitato Promotore è di votare cinque Sì, indicazione che condivido per molte ragioni che esporrò di seguito e in particolare una non secondaria di buon senso.
Una campagna elettorale oscurata
In realtà la campagna referendaria è stata pressocché oscurata dalle grandi reti televisive, che stanno sotto il dominio diretto o indiretto del governo della destra estrema (le reti della TV pubblica e quelle Mediaset della famiglia Berlusconi, i cui interessi padronali proiettano ancora una lunga ombra sulla società e sulla politica italiana). Non si è discusso molto sui contenuti dei quesiti referendari (salvo i molti distinguo ipocriti dei partiti del cosiddetto centro, Renzi e Calenda, rivolti a dividere il fronte delle opposizioni e a difendere le ragioni delle politiche neo-liberiste), ma l’attenzione è stata centrata sul tentativo della destra di ricorrere a ogni mezzo per evitare il raggiungimento del quorum, cioè di far arrivare alle urne in maniera consapevole e informata almeno 23,65 milioni di cittadine e cittadini (fonte Eurostat, 2024), cioè il 50% + 1 del corpo elettorale. I partiti della maggioranza hanno superato ogni imbarazzo istituzionale per far passare la posizione astensionista. Prima la seconda carica dello stato, il presidente del Senato, ha finto di essere titubante, poi ha dichiarato apertamente che non andrà a votare e ha invitato a disertare le urne. I vari portatori d’acqua del governo sono scesi al livello di Bettino Craxi, che 1991 invitò gli elettori ad andare al mare in occasione del referendum abrogativo delle preferenze, puntando sul clima estivo. Il massimo della faccia tosta è stato raggiunto dalla Presidente del Consiglio dei Ministri, Giorgia Meloni: ha dichiarato che si recherà al seggio, ma non ritirerà le cinque schede. È un modo per mascherare – a favore di telecamera – il proprio astensionismo con la furbata di far finta di rispettare il diritto-dovere del voto senza votare effettivamente: una vera presa di giro di cittadine e cittadini, considerati degli sprovveduti. Siamo ancora una volta di fronte a quello che Gramsci definiva il sovversivismo delle classi dirigenti. Esse non esitano a mettere in crisi la logica delle istituzioni democratiche pur di difendere i propri interessi di classe. Si permettono ciò che impediscono anche con la forza ai lavoratori e alle classi subalterne, i cui diritti di protesta, di manifestazione, di disobbedienza civile e di lotta sono stati gravemente repressi dal decreto sicurezza, appena convertito in legge, benché siano costituzionalmente tutelati (art. 17, 18, 19, 21). In tal senso l’attacco alla democrazia della destra presenta almeno due facce. La prima sta nell’invito all’astensionismo, cioè l’appoggio alla diseducazione di massa al voto, che ha favorito la destra nelle elezioni del 2022, consentendole una maggioranza sovrastimata alle Camere in base a una minoranza di votanti. La seconda è il famigerato decreto sicurezza, approvato con l’abusata decretazione di emergenza, che introduce quattordici nuovi tipi di reato, puniti fino alla carcerazione contro ogni possibile protesta di fronte alla crescente miseria del paese. Siamo nella logica di “non disturbate il manovratore”, una tendenza autoritaria che inclina al regime.
Il valore costituzionale dei referendum
L’articolo 48 (commi 1, 3, 4) della Carta Costituzionale prevede esplicitamente “il diritto di voto” per “tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età”, una conquista epocale della lotta di Liberazione dal fascismo e dal nazismo in particolare delle donne. Sostiene inoltre che “il suo esercizio è dovere civico” (comma 2), anche se non sanziona giuridicamente chi non lo esercita. Ciò vale a maggior ragione per il voto referendario (art. 75), che è uno dei pochi strumenti di democrazia diretta presenti in Costituzione, insieme alle proposte di legge di iniziativa popolare (art. 71). Il referendum, infatti, implica il potere decisionale diretto del corpo elettorale e ha presieduto ad alcune svolte epocali nel nostro paese (scelta repubblicana, divorzio, aborto, scelta antinucleare, la difesa della scala mobile, acqua pubblica). Vediamo ora i referendum nello specifico.
La riduzione da dieci a cinque anni di residenza legale in Italia per poter fare domanda di cittadinanza italiana, che potrebbe essere trasmessa alle figlie e ai figli minori, riguarda circa 2 milioni e mezzo di cittadine e cittadini di origine straniera che nascono, crescono, abitano, vanno a scuola e lavorano nel nostro Paese. Questa norma ci metterebbe alla pari dei maggiori paesi europei e permetterebbe l’avvio di un processo di crescita dell’Italia, altrimenti stagnante. È un obbiettivo sentito nella scuola, dove le studentesse e gli studenti con cittadinanza straniera sono oltre 914.000. La nostra scuola li prepara come cittadine e cittadini italiani, investe sul loro potenziale umano, che alla fine viene disperso per l’insufficienza del diritto di cittadinanza. Esso è stato proposto da un ampio schieramento politico dal centro alla sinistra (+ Europa, PSI, PRC, Radicali Italiani, Possibile e centinaia di associazioni impegnate sul fronte delle migrazioni).
I quattro referendum sul lavoro sono stati proposti dalla CGIL ed appoggiati dal PD, dal M5S, dall’ANPI, da Magistratura Democratica, all’ARCI, da Libertà e Giustizia e da un vasto numero di altre sigle. Pongono uno stop ai licenziamenti illegittimi (3 milioni e mezzo di lavoratori); più tutele per le lavoratrici e i lavoratori delle piccole imprese (3 milioni e 700 mila persone); la riduzione del lavoro precario (2 milioni e 300 mila lavoratori) e una maggiore sicurezza sul lavoro (il sistema dei subappalti e un disatteso sistema di tutele, che producono oggi 500 mila infortuni sul lavoro di cui 1.000 mortali all’anno). Siccome l’insieme di queste proposte rivede radicalmente la normativa prevista dal jobs act,la propaganda della destra ha cercato di sminuirne la portata, dicendo che si tratta di una resa dei conti all’interno della sinistra. È una menzogna. La verità in termini di classe, che la CGIL di Landini sembra aver afferrato, è tutt’altra. È il tentativo di estromettere dal movimento dei lavoratori quei principi neoliberisti introdotti da Renzi, che avevano gettato alle ortiche una tradizione secolare e che ruotano attorno a questo assunto: rendere “flessibile” (cioè precaria) la forza lavoro produrrebbe globalmente più ricchezza e questa, alla fine, “gocciolerebbe” fino agli strati più bassi della piramide sociale, favorendo persino i poveri. Si è verificato esattamente il contrario a livello globale: le classi imprenditoriali si sono arricchite enormemente e le disuguaglianze sociali sono tornate quelle del 1929. Per l’Italia si può aggiungere che il potere d’acquisto dei salari si è ridotto dal 2019 del 10,5% (Rapporto ISTAT 2025). È la perdita più marcata di tutti i paesi del G20.
Infine, un discorso di buon senso
Bisogna chiedersi come mai la destra si affanni a gettare fumo negli occhi dicendo che il referendum è una questione interna alla sinistra. La destra, in realtà, cela sotto questo discorso una propria paura. Il governo Meloni ha avuto alle politiche del 25.9.2022 una maggioranza di circa il 44% dei votanti, confermando con pochi margini in più (poco meno di 150 mila voti) i propri precedenti risultati. La percentuale era viziata dal crescente astensionismo (-9,5% di votanti all’epoca). Ha usufruito di un premio di maggioranza “occulto” del 16%, grazie al “Rosatellum” (la legge elettorale maggioritaria antidemocratica di Renzi), che le ha dato la maggioranza assoluta nelle Camere. È stata favorita dalla scelta politica suicida di Enrico Letta,allora segretario del PD, che non ha fatto alcun tentativo di costruire uno schieramento largo (l’unico vincente come dimostrano le successive tornate elettorali fino a quelle recenti di Genova) e non ha neppure accettato la proposta della desistenza, la stessa che poi ha fatto vincere il Nuovo Fronte Popolare in Francia. Insomma, la maggioranza del 2022 è in parte falsa e in parte avventuristicamente “regalata”. È la ragione per cui la destra al governo ha preferito non accettare il confronto e ha lavorato per favorire l’astensionismo. Sapeva di non poter vincere nelle urne. Da quanto sappiamo, la propensione al voto per la tornata referendaria supera il 40% e i sondaggi la danno in crescita. La fonte è l’IZI (azienda di valutazioni economiche e politiche) per la quale è possibile il superamento del 40% dei votanti. Ovviamente – sia detto per onore di cronaca – i sondaggi filo-confindustriali, come quello di Demopolis per il Sole 24 ore, fornisce una percentuale più bassa (il 30%, ma a tre settimane dal voto). Inoltre commenta l’IZI: «Una quota non trascurabile di elettori che non ha votato alle ultime elezioni andrà alle urne» (cfr «Il Manifesto» del 24.5.2025). È “la riserva della Repubblica”, che scende in campo quando è in gioco la democrazia. È già successo nel 2016 nel referendum costituzionale confermativo contro la “deforma” Renzi. Tale 40% è in crescita e si è visto nei banchetti e nei volantinaggi in corso in tutt’Italia. Quindi il raggiungimento del quorum è difficile, ma non impossibile. L’azione a favore del Sì deve proseguire con slancio fino all’ultimo giorno. Comunque, se la percentuale dei votanti, schierandosi contro le indicazioni astensioniste del governo, supererà il 44%, nei fatti il governo sarà sconfitto. È un discorso piano e di buon senso, mi pare.
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Già, per parafrasare Manzoni, “il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune”. Che altro dire dell’ennesima catastrofe politico-elettorale prodotta dal cretinismo autolesionista dell’”asinistra” italiana, coerentemente replicato in questo articolo? Sostituire la mobilitazione di massa sui temi della condizione e dei diritti dei lavoratori dipendenti, oggetto dei referendum, con una mobilitazione elettorale tardiva e interclassista, basata sulle schede elettorali, significa offrirsi bersaglio inetto e inerme alla facile campagna astensionista del massiccio fronte padronale e antiproletario, tanto che vien fatto di chiedersi se il signor Landini, che ha sorriso apprendendo i risultati della consultazione referendaria e ha dichiarato che non si tratta di una vittoria, si possa considerare un dirigente del movimento sindacale o si debba considerare un alleato, per quanto inconsapevole dato il suo modesto QI, di quel fronte. Che altro aggiungere se non che la defezione dal campo della lotta di classe e della organizzazione del proletariato, degli esponenti di una sinistra senz’anima, senza progetto e senza futuro non poteva non produrre i risultati che le varie elezioni susseguitesi nel corso degli ultimi decenni hanno spietatamente sancito e, con molta probabilità, reso irreversibili?
Reintervengo a caldo con i primi risultati disponibili sui 5 referendum, facendo riferimento ai dati numerici in valore assoluto, perchè il pronostico, che avevo fatto nell’articolo, riportava un confronto sulle percentuali, che alla luce dei fatti può risultare fuorviante nello stesso modo in cui accadde per la “vittoria” della destra a trazione neo-fascista alle elezioni politiche del 2022. Una vittoria falsata dal premio di maggioranza occulto dovuto alla legge maggioritaria detta “Rosatellum” e regalata dalla scelta suicida ed isolazionista del PD di Enrico Letta. In valori numerici assoluti votarono per la coalizione di destra 12.300.000 elettori, che a causa dell’astensioinismo portarono la percentuale al 44% dell’elettorato (in realtà erano solo 145.000 voti in più rispetto alle precedenti elezioni).
Nei commenti di oggi c’è tutta una geremiade pelosa sulla “sconfitta” della sinistra, anche in giornali di area, tutta tesa a regolare i conti nel PD contro la segreteria Schlein e nella CGIL contro Landini, cioè a liquidare quel poco di svolta a sinistra che questi due leader hanno cercato di portare. In valori assoluti sono andati a votare oltre 14.000.000 di lettori (senza tener conto dei voti degli italiani all’estero ancora non disponibili) e i Sì hanno riportato una media di oltre 12.000.000 di elettori (il sito ministeriale non permette ancora una valutazione numerica precisa). Alcuni commentatori si sono subito lanciati a dire che non vi è stata alcuna tenuta del centro-sinistra, che il discorso non “tiene” neppure numericamente. Mi sembra ancora una volta che i numeri sono quelli, cioè che in valore assoluto lo schieramento di centro-sinistra mal che vada potenzialmente può contare su una forza uguale se non superiore a quella che regge il governo Meloni. Il problema è ovviamente politico ed è lo stesso del 2022 (quello di sempre del codiddetto “campo largo”), cioè qual’è la proposta politica di sinistra che lo può tenere insieme. Fra l’altro per alcuni commentatori è stato confermato il voto per il Sì di una frazione dell’elettorato, che si era astenuto nelle precedenti elezioni (quella che mi ostino a chiamare “la riserva della Repubblica”), che questa volta non è riuscita a pareggiare la diserzione di una vasta fetta dell’elettorato del PD (valutata da alcuni nel 48%). C’è ampio motivo di riflessione se non ci facciamo convincere dalle sirene di centro sull’invicibilità della destra con una proposta di sinistra.
Il referendum promosso dalla CGIL è stato, in realtà, una mossa politica finalizzata a pesare le forze politiche della nuova ipotesi di “campo largo” del centro-sinistra. In particolar modo, l’eventuale successo di questo referendum avrebbe lanciato la figura di Landini, magari anche come ipotetico leader di una futura coalizione di centro-sinistra. La riflessione che intendo avanzare non è nel merito dei quesiti referendari, di per sé tutti giusti e condivisibili, ma sull’opportunità politica di usare lo strumento del referendum per ottenere un risultato che ha suggellato una pesante sconfitta dei lavoratori, rendendo ancora più difficile ripartire e ricostruire un’iniziativa purchessia del movimento operaio. Non a caso, i risultati dei referendum e l’ingresso di Sbarra, segretario della CISL, nel governo Meloni sono avvenuti in contemporanea. Del resto, che il ‘quorum’ fosse un obiettivo irraggiungibile era chiaro a tutti ben prima dei dati sull’affluenza del primo giorno di voto; tant’è vero che le ambizioni dei maggiori promotori del referendum puntavano alla creazione di un fronte di opposizione in ascesa. Sennonché un’affluenza di poco sopra il 30% con una percentuale di ‘sì’ di circa l’87% per i primi quattro quesiti certifica l’inconsistenza di politiche a sostegno della classe operaia slegate dalla costruzione di un movimento reale di lotta sui temi del lavoro. Così, nonostante che i quesiti (e in particolare i primi quattro) riguardassero la stragrande maggioranza della popolazione, questa non ha risposto all’appello. Ma vi è di più: è stata data al fronte padronale e antiproletario la possibilità di dire che i temi del lavoro e dei diritti non sono né al centro del dibattito politico in questo paese né tali da interessare quella fascia di popolazione che, in linea teorica, dovrebbe esservi maggiormente sensibile. Ma vi è di più: il governo ne esce rafforzato sia per la sconfitta di chi ha promosso i quesiti referendari, ossia la CGIL, sia perché il numero di ‘sì’ ai quesiti non ha rappresentato una percentuale di per sé sconvolgente rispetto agli equilibri di consenso che abbiamo in questo paese da molti anni. Essa è di poco superiore al numero di voti presi dalle forze di governo alle ultime politiche, ma anche simile al numero di voti presi dalle forze di opposizione, che erano all’epoca divise. In sostanza, il risultato referendario non attribuisce alcun vantaggio in termini di consenso a nessuna delle due coalizioni politiche. Una vera ‘débâcle’, se si pensa che negli ultimi anni le condizioni dei lavoratori sono drammaticamente peggiorate e che il conflitto capitale/lavoro risulta essere, oggi più che mai, al centro delle questioni, in primo luogo la guerra, benché di ciò non vi sia coscienza. Una ‘débâcle’ di cui CGIL e centro-sinistra hanno piena responsabilità: la prima perché ha abbandonato il terreno della lotta a favore della concertazione, i secondi per essere assolutamente impresentabili agli occhi delle persone comuni, lavoratori pensionati e studenti, ai quali dovranno spiegare perché hanno cavalcato dei referendum il cui scopo era quello di abrogare le leggi che loro stessi avevano promosso e approvato.