
Perché leggere Le non cose di Byug-chul Han
L’ordine terreno, l’ordine planetario, è costituito da cose che assumono una forma durevole e creano un ambiente stabile, abitabile. Sono le «cose del mondo» di cui parla Hannah Arendt [Vita activa] e alle quali spetta il compito «di stabilizzare la vita umana» offrendole un appiglio. Oggi all’ordine terreno subentra l’ordine digitale. L’ordine digitale ‘derealizza’ il mondo ‘informatizzandolo’. Già alcuni decenni fa, il teorico dei media Vilém Flusser osservava: «Le non-cose stanno penetrando nel nostro ambiente da tutte le direzioni, e scacciano le cose. Queste non-cose si chiamano informazioni». Ci troviamo nel periodo di passaggio dall’èra delle cose all’èra delle non-cose. Non sono gli oggetti, bensì le informazioni a predisporre il mondo in cui viviamo. Non abitiamo più la terra e il cielo, bensì Google Earth e il cloud. Il mondo si fa sempre più inafferrabile, nuvoloso e spettrale. Niente è più attendibile e vincolante, nulla offre più ‘appigli’. (Byung-chul Han, Le non cose, Traduzione di S. A. Buttazzi, Einaudi, 2022, pag. 5)
Il contatto con il mondo non può avere «appigli» se gli oggetti si dematerializzano, se non abbiamo la presa tattile con l’oggetto concreto, se l’immagine sostituisce la cosa così definitivamente che l’unica cosa che riconosciamo reale è l’immagine. Il mondo digitale in cui siamo immersi non ha più bisogno della sostanza, basta il nome perché l’immagine si oggettivizzi in cosa reale: ceci est un pomme, ceci est une pipe. Abbiamo valicato il limite tra la rappresentazione e la realtà, dando alla prima il valore ontologico della seconda. «Oggi le cose precipitano sempre più sullo sfondo della nostra attenzione.» (pag. 6) Eppure, lo scolorire delle cose sembra contraddetto dall’interesse che esse suscitano in filosofi e studiosi di varie branche del sapere.
Da alcuni decenni si osserva un crescente interesse per le cose nell’ambito degli studi culturali. Questo interesse teorico non indica tuttavia che esse, nel mondo di tutti i giorni, stiano acquistando maggiore significato. Il fatto che le cose vengano elevate a oggetto della riflessione teorica è anzi un sintomo della loro scomparsa. Tali inni di lode alle cose sono in realtà canti del cigno. Bandite dalla vita reale, esse cercano rifugio nella teoria. Anche concetti come ‘material culture’ o ‘material turn’ vanno intesi come reazioni alla smaterializzazione causata dal digitale, alla derealizzazione del mondo. (pag.15, n.5)
Agli oggetti preferiamo le informazioni. «La conseguenza di ciò si chiama infomania.» E le cose si degradano «a derivati materiali dell’informazione» per effetto della digitalizzazione.
Cosa succede alle cose quando vengono compenetrate dalle informazioni? L’informatizzazione del mondo trasforma le cose in ‘infomi’, vale a dire ‘agenti’ che elaborano informazioni. (pag.7)
L’auto da status symbol si trasforma, secondo Baudrillard, in infoma
È la macchina che vi parla, che vi informa «spontaneamente» sul suo stato generale, e sul vostro (rifiutandosi naturalmente di funzionare se voi non funzionate bene), è la macchina che consulta e delibera, partner in una negoziazione generale del modo della vita […]. (pag.7)
L’esito sulla percezione umana della vita è dirompente e subdolo. Nel momento in cui ha l’impressione dell’estremo controllo del reale, perché in possesso di una incredibile mole di informazioni, l’essere umano sbriciola il senso dell’esistere, e – senza sentirsi smarrito – perde la memoria, la storia ed anche la capacità di raccontare, perché
Le informazioni sono additive, non narrative. Si possono contare ma non raccontare. In quanto elementi discontinui muniti di una risicata attualità, non si assemblano nella forma di una storia. Anche il nostro spazio mnemonico assomiglia sempre più a un disco fisso pieno zeppo di informazioni di ogni tipo. L’addizione e l’accumulo scacciano le narrazioni. La storia e la memoria sono invece caratterizzate da una continuità narrativa che si estende su ampi lassi di tempo. Solo le narrazioni generano senso e tenuta. L’ordine digitale, numerico, è privo di storia e memoria. Quindi frammenta la vita. (pag. 8)
Perché viviamo la distopia delle non-cose
È accaduto spesso che la parola di un filosofo abbia dato un senso al caos, e che il suo sguardo abbia chiarificato all’essere umano la sua condizione. Accade oggi che filosofi come Byung-chul Han o David Lyon, sociologi come Gilles Deleuze o Shoshana Zuboff, studiosi attenti alla dimensione del reale, in cui tutti siamo immersi, trovino la chiave adatta per la serratura del nostro mondo. Non è affatto detto che quello che ci troveremo davanti sia quello che ci aspettavamo, né che ci piaccia, ed è abbastanza ovvio che qualcuno troverà inutile aver aperto quella porta. Nella polarizzazione manichea dei neo apocalittici e neo integrati, negazionisti questi ultimi di qualunque cambiamento sia avvenuto sotto il cielo da quando Lucy ha attraversato la savana insieme ai suoi consimili australopitechi, si riconoscono i preoccupati e i soddisfatti della nostra epoca. Non necessariamente appartenenti alle classi più ricche, come sarebbe lecito aspettarsi, i secondi confluiscono massicciamente, in quanto con la loro soddisfazione procurano un danno anche a se stessi, tra le schiere degli stupidi (C. M. Cipolla, Le Leggi Fondamentali della stupidità umana ).
Il sottotitolo di Le non cose recita Come abbiamo smesso di vivere il reale: dichiarazione di una condizione alienata, addirittura peggiore rispetto al passato, quando, perlomeno, risultava evidente la differenza tra ciò che esiste e ciò che non esiste, tra soggetto e oggetto, tra padrone e servo, tra libertà e schiavitù. Chi non riesce a discernere il reale è in una condizione allucinatoria, perduto in un delirio psicopatico. Oppure è imprigionato in una distopia. Quella vera di 2025 non assomiglia a quella inventata di 1984 (per quanto l’orwelliano “la guerra è pace” è uno slogan che abbiamo sentito tante volte ripetere impunemente nella realtà dei nostri giorni), perché noi non ci troviamo in una condizione di oppressione tirannica e totalitaria. La distopia che noi viviamo è evocata nella Prefazione attraverso il confronto con la storia raccontata nel romanzo L’isola dei senza memoria della scrittrice giapponese Yōko Ogawa. Han vi ravvisa «un’analogia con il nostro presente.»
Anche oggi le cose scompaiono costantemente senza che noi ce ne accorgiamo. L’inflazione oggettuale ci inganna simulando l’esatto opposto. Al contrario della distopia immaginata da Yōko Ogawa, noi non viviamo in un regime totalitario dotato di una polizia del pensiero che ci sottrae brutalmente gli oggetti e i ricordi. È piuttosto la nostra ebrezza comunicativa e informativa a farli sparire. Le informazioni, quindi le non-cose, si piazzano davanti alle cose facendole sbiadire. Noi che non dobbiamo sopportare lo strapotere della violenza assistiamo anzi al dominio dell’informazione che si spaccia per libertà. (pag.4)
La nostra condizione di subordinazione ad interessi che ignoriamo o di cui non ci curiamo passa attraverso una generale euforica percezione di libertà «Ci sentiamo liberi, eppure siamo sfruttati, sorvegliati e influenzati.» Il sentirsi liberi impedisce una reazione allo sfruttamento «In un sistema che sfrutta la libertà non si sviluppa alcuna resistenza». Proprio per queste sue caratteristiche il sistema capitalistico della sorveglianza, secondo Han, non produrrà alcun movimento rivoluzionario, pure ipotizzato da Zuboff, perché «Noi siamo troppo obnubilati dalla droga digitale, dall’ebbrezza della comunicazione, per emettere un “basta!”, per levare una voce di protesta.» Il sistema di cui siamo parte è il «regime neoliberista», che ha caratteristiche smart.
Il potere smart non opera mediante ordini e divieti: non ci rende remissivi, bensì dipendenti e drogati. Invece di spezzare la nostra volontà, appaga i bisogni. Vuole piacerci. È permissivo, non repressivo. Non ci impone il silenzio. Anzi, ci viene costantemente, insistentemente richiesto di esternare opinioni, preferenze, bisogni e desideri, di comunicarli, insomma di raccontare la nostra vita. Esso rende invisibile il proprio intento di dominio proponendosi in maniera amichevole, smart. Il soggetto sottomesso non è neppure al corrente della propria sottomissione. Si crede libero. Il capitalismo si compie appieno nel capitalismo del mi piace, che per via della propria permissività non ha bisogno di temere alcuna resistenza, alcuna rivoluzione. (pagg. 29-30)
Il dominio assoluto realizzato senza l’uso di un sistema repressivo, attraverso il libero arbitrio di chi è sottomesso e che volontariamente fornisce informazioni a chi lo controlla: neanche Big Brother era arrivato a tale raffinatezza.
Perché le informazioni distruggono la verità
L’essere umano in ogni tempo ha avuto difficoltà a comprendere il mondo in cui vive. Quello contemporaneo, però, secondo Han, risulta essere in balìa di «decisioni algoritmiche che non riesce a capire fino in fondo.» Da un lato, dunque, l’uomo perde la sua autonomia e la sua capacità di agire, in quanto agito da algoritmi, e dall’altro il mondo sprofonda in «reti neuronali cui l’essere umano non ha alcun accesso». Avendo perduto l’appiglio al mondo, fornito dalle cose, l’uomo del nostro tempo, sorvegliato senza sosta dal suo smartphone, non ha più un contatto fisico con la materialità della realtà: «Percepiamo la realtà mediante lo schermo.» (pag.28). Ci illudiamo di avere il mondo in tasca, perché attraverso lo smartphone siamo perennemente connessi e abbiamo accesso continuo ad ogni informazione. Ma
Da sole, le informazioni non illuminano il mondo. Anzi, possono oscurarlo. Da un certo momento in avanti le informazioni non informano più, bensì deformano. Ormai questo punto critico è ampiamente superato. L’entropia informativa con la sua rapidissima crescita, vale a dire il caos informativo, ci scaraventa in una società post-fattuale che pialla la differenziazione tra vero e falso. (pag. 9)
L’attrazione che tutti provano nei confronti delle fake news svela come l’informazione si fondi sull’efficacia e non sulla verità. Guardiamo con ammirazione ciò che ci colpisce e ne parliamo per qualche tempo, per quanto consapevoli della falsità, in quanto anche il falso è una informazione: «L’ordine digitale mette la parola fine all’epoca della verità e inaugura la società post-fattuale dell’informazione.» (pag.10). Anche la verità, come le cose del mondo, ha una consistenza, una saldezza fisica che tende a stabilizzare la vita degli esseri umani. Ma la verità, che non muta, che non è suscettibile di manipolazione – in quanto se manipolata non sarebbe più tale -, non può trovare più spazio nel mondo post-fattuale delle non-cose.
Oggigiorno, le prassi impegnative vanno scomparendo. Anche la verità è impegnativa. Quando un’informazione scaccia l’altra, ecco che non abbiamo più ‘tempo per la verità’. Nella nostra cultura dell’eccitazione post-fattuale, la comunicazione è dominata da impulsi ed emozioni forti, che al contrario della razionalità sono poco persistenti in termini temporali. Per cui destabilizzano la vita. (pag.10)
Ecco che la condizione umana galleggia in un tempo frantumato, in cui non riusciamo più a discernere le cose che in passato, come dice Amleto, la filosofia poteva sognare popolassero il cielo e la terra (There are more things in heaven and earth, Horatio, than are dreamt of in your philosophy). Nella terra e nel cielo Hannah Arendt (Verità e politica) riconosceva l’inconfutabile verità, saldamente collocata accanto a noi, nella nostra condizione spaziale: «Concettualmente, possiamo chiamare verità ciò che non possiamo cambiare; metaforicamente, essa è la terra sulla quale stiamo e il cielo che si stende sopra di noi». Oggi, secondo Han, popoliamo una terra desolata, in cui non distinguiamo il rovescio delle cose, di cui parla Bloch a proposito di Sindbad, e non percepiamo il recto accecati come siamo dalle informazioni. Il cielo, attraversato da droni, e la terra, coperta da morti , oggi sono tristemente vuoti.
Perché il realismo è impossibile senza realtà
«Le opere d’arte sono cose. Persino le opere d’arte linguistiche come le poesie, che noi normalmente non trattiamo come oggetti, hanno un carattere cosale.» (pag. 65) Nel mondo delle non-cose, descritto da Han, non può avere, dunque, posto la poesia e nessuna opera d’arte che voglia sedurre, piuttosto che, pornograficamente (R. Barthes), informare. Nel capitolo Vedute delle cose Han si occupa della letteratura del passato e della condizione attuale dell’arte, ed anche qui, ovviamente, come accade in tutti gli altri capitoli (Dalla cosa alla non-cosa, Dal possesso all’esperienza, Smartphone, Selfie, Intelligenza artificiale, Silenzio, Il juke-box: una digressione) è possibile dissentire con la tesi e le argomentazioni. Tuttavia, il discorso riguardo all’ambito artistico, e specificatamente letterario, fa emergere l’urgenza, fortemente percepibile da un lettore accorto, di una seria e articolata riflessione sullo statuto epistemologico dell’arte nel regime neoliberista in cui viviamo. Credo sia evidente, per chiunque abbia a che fare con la lettura e con la scrittura, la necessità di una nuova teoria della letteratura che ci spieghi in quale mondo ci muoviamo e quali nuovi mondi possono aprirsi. E la cosa evidente è che oggi il realismo letterario non è più declinabile secondo le categorie di un mondo scomparso. Non è più possibile, anzi è inutile, occuparsi delle cose in un mondo in cui esse sono scomparse, la mimesis deve cambiare paradigma. Tra critica e poetica deve aprirsi un nuovo dialogo. Una nuova relazione è necessario che la critica stabilisca tra il testo e una psiche conscia/inconscia, individuale/collettiva, creativa/ricettiva (Genette, Critica e poetica).
E del resto, la realtà, ridotta a informazione, ha perso la sua pesantezza: le giovani generazioni con cui gli insegnanti hanno quotidianamente a che fare dimostrano gli effetti di «una comunicazione permissiva, estensiva, eccessiva» (pag.84) in cui tutto è orizzontale, senza profondità e spessore. Surfando sulla realtà, nella leggerezza dell’indifferenza, ogni cosa si spegne e svanisce. La guerra, la morte, la disperazione, l’umanità, la poesia non sono più cose: possono attirare l’attenzione per qualche istante, ma poi svaniscono nel turbine di altre nuove informazioni, sempre disponibili, sempre presenti. La superficialità, secondo Han, è l’effetto del mondo dell’informazione: «Là dove ogni cosa è disponibile e raggiungibile non si crea alcuna attenzione profonda.» (pag.85)
Credo che sia giunto il tempo di costruire una solida impalcatura intellettuale che aiuti a comprendere e a non subire questo nostro tempo. Piuttosto che rincorrere un passato che non può essere più, piuttosto che rimpiangere la memoria che non è più viva, è necessario immaginare altre vie che consentano all’arte di non morire: che consentano di costruire un nuovo umanesimo.
L’aspetto problematico dell’arte odierna consiste nella sua tendenza a comunicare un’opinione precostituita, una convinzione morale o politica. Essa cerca cioè di comunicare informazioni. […] Così facendo, l’arte si riduce a mera illustrazione. (pag.69)
La verticalità, la profondità, lo spessore, la pesantezza, l’asperità potranno essere recuperate e raccontate dalla letteratura quando sarà possibile immaginare collettivamente un mondo diverso rispetto a questo. Quando la realtà della guerra e della morte in mare e della violenza e della fame e della disperazione diventerà scandalo e non sarà solo notizia sbirciata distrattamente sul liscio schermo del nostro smartphone, la letteratura potrà immaginare l’utopia. E il realismo sarà l’impossibile.
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