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diretto da Romano Luperini

Le parole della filosofia e noi

Prima parte

Comincerò con un furto e con una giravolta. Mi approprio, infatti, dell’incipit di un bell’articolo del collega Francesco Filia apparso su questa rivista più di dieci anni fa, ma lo farò ribaltandolo e capovolgendolo per adattarlo alla mia situazione e per poter quindi affermare che insegno italiano e storia in un Istituto Tecnico, il mio rapporto con l’insegnamento della filosofia è indiretto, ma mi sforzo di mantenerlo costante.

Sono laureato in quelle che un tempo avremmo chiamato Lettere Moderne (oggi, nella mia Università, il corso di Laurea Magistrale è Letteratura, Filologia e Linguistica italiana), ma mi è sempre piaciuta la filosofia, motivo per cui la studio nel tempo libero (d’altra parte scholé è tempo libero). Questo è il primo dato di fatto, di per sé poco significativo perché si ripiega su di me che guardo me stesso mentre parlo di me stesso, ma l’io è ingombrante e «puzza», come scrive Gilda Policastro in Scrolling, una delle poesie che compongono La distinzione. Il secondo dato di fatto, però, è ben più rilevante: i miei alunni e le mie alunne di quinta superiore – sono loro insegnante dall’anno scorso, dalla quarta – non hanno mai studiato filosofia proprio perché frequentano un ITIS, cioè un Istituto Tecnico Industriale Statale.

In Italia è normale – cioè è legge, quindi è legittimo – che chi frequenta gli istituti tecnici e professionali non abbia filosofia all’interno del proprio curricolo di studi. Chi, come me, insegna Storia e Lingua e letteratura italiana in queste scuole sa, però, che non si può fare a meno del pensiero filosofico (o, meglio, dei pensieri filosofici) quando in classe si parla – soltanto per fare alcuni semplici esempi, molti dei quali mi è capitato di utilizzare a lezione – di assolutismo (Hobbes), di tolleranza (Locke), di libero scambio (Smith), di separazione dei poteri (Montesquieu), di illuminismo (Kant), di contratto sociale (Rousseau), di socialismo (Marx ed Engels), di positivismo (Comte), di morte di Dio (Nietzsche), di psicoanalisi e di inconscio (Freud), di totalitarismi (Arendt), di opere d’arte nell’epoca della loro – oggi massima – riproducibilità tecnica (Benjamin), di libertà e di oppressione sociale (Weil), di consumismo (Bauman), di società dell’angoscia e della stanchezza (Byung-chul Han), dei femminismi di ieri e di oggi (de Beauvoir e Cavarero). Per non parlare dei legami che la filosofia intrattiene con la teologia, la scienza, la tecnologia, l’arte e la letteratura, la psicologia, la pedagogia, l’antropologia ecc. Insomma, in un ITIS la filosofia è un po’ come the dark side of the moon: esiste, tutti ormai sanno che c’è, ma allo stesso tempo non si mette mai a fuoco.

Status quo

Per porre rimedio a questo vuoto ingiustificabile e, a quanto ne so io, ancora ingiustificato, mi sono guardato intorno; come capita spesso a noi insegnanti, la prima cosa che ho fatto è stata istintivamente volgere lo sguardo verso l’alto in cerca di aiuto. Se avessi chiesto alla silenziosa e intatta luna avrei probabilmente ottenuto risposte più chiare e soddisfacenti, nonostante siano proverbiali la sua riluttanza e la sua estraneità alle vicende umane perché del nostro dir poco le cale. Ho invece cercato ingenuamente risposte nelle Linee guida per il passaggio al nuovo ordinamento degli istituti tecnici attualmente in vigore (D.P.R. 15 marzo 2010, n. 88), che però non contengono veri e propri riferimenti al sapere filosofico, né in senso lato né ovviamente stricto sensu. Quindi a chi chiedere aiuto? Ovviamente ai libri (su tutti, senza alcun dubbio, Filosofia e istituti tecnici. Esperienze e questioni, a cura di Annalisa Caputo, Mimesis 2023) e poi alle colleghe e ai colleghi, che sono, come sempre, una certezza.

Scopro così dalla mia brava collega di inglese che, per tentare di colmare questa enorme mancanza, INDIRE ha da qualche anno proposto il lodevole percorso PATHS (a Philosophical Approach to THinking Skills); si tratta di una serie di iniziative didattiche che hanno l’obiettivo di introdurre a scuola (negli istituti tecnici, professionali e negli ITS), sotto forma di brevi interventi, la riflessione filosofica.

Come molte altre scuole di ogni ordine e grado del territorio nazionale, il mio Istituto ha aderito, in particolare, a PATHS – Per Parole, un percorso che parte dal linguaggio comune e dalla parola ordinaria per affrontare – per affrontare, faccio notare, non per risolvere tutto e subito, come se fosse una ricetta salvacena o un incantesimo o un tutorial sui social – l’impoverimento linguistico degli studenti aiutandoli a saper ragionare e a saper esercitare un pensiero critico autonomo: «Dai significati di una parola e con il supporto di testi, si possono elaborare, discutere e acquisire nuovi contenuti e accezioni, provando poi ad usarli in modo corretto e consapevole all’interno di una argomentazione».

L’idea di questa sperimentazione mi è piaciuta subito perché non consiste tanto nel riprodurre in maniera semplificata, rispetto ai Licei, lo studio di questa disciplina, «quanto nella possibilità di utilizzare strumenti, strategie e metodi che caratterizzano l’approccio filosofico per praticare l’esercizio del domandare, con l’obiettivo di rafforzare la ricerca di un orizzonte di senso che possa aiutare a definire la propria identità, anche in relazione agli altri e al contesto storico-culturale» (Patrizia Centi). Le capacità coinvolte sono molte: sostenere una propria tesi, saper ascoltare, ragionare con rigore logico, interpretare criticamente le diverse forme di comunicazione, comprendere i diritti e i doveri propri della condizione di cittadino, acquisire capacità critica. Non mi pare poco. Eppure si tratta di un progetto pensato «all’interno del programma di educazione civica» oppure come incontro laboratoriale pomeridiano, quindi extrascolastico, dunque proprio per questo motivo poco frequentato dai ragazzi e dalle ragazze. Come accade spesso nella scuola italiana, questa iniziativa mi sembra dipendere più dall’azione coraggiosa di docenti volenterosi che da un intervento strutturale.

Intenzioni

La mia intenzione era quella di portare la filosofia all’interno della mia classe quinta scoprendola e facendola con loro, ma cercando il più possibile di evitare i tre scenari peggiori individuati da Gian Paolo Terravecchia nel suo articolo Insegnare filosofia negli Istituti tecnici è una buona idea?.

  1. Il primo scenario è quello della filosofia come ricostruzione storico-filologica di ciò che i filosofi hanno detto, col rischio di «un noioso e sterile gioco di memorizzazione» e di una «filastrocca di opinioni»;
  2. la seconda possibilità da evitare è la filosofia come museo dei grandi pensatori, in cui il radicamento nella propria tradizione, ridotta solo a uno specialismo eccessivo (ad esempio sapere che «la monade leibniziana non ha realtà materiale, che il cogito cartesiano supera il dubbio iperbolico, o che l’epoché è un momento fondamentale della fenomenologia husserliana»), «non rende migliori come uomini, né fornisce strumenti per svolgere meglio, un giorno, la propria professione»: «Una cultura che si limita a preservare se stessa non è cultura», aveva scritto Mark Fisher nel suo celebre Realismo capitalista (NERO Editions, p. 29), recensito anche su questo blog da Felice Rappazzo;
  3. infine il terzo modo: la filosofia come supplente laica delle agenzie formative del passato, che parrebbe buono e utile, però si tratterebbe «di usare la filosofia come un’educazione alla cittadinanza, magari di alto profilo, con tutti gli optional culturali del caso, ma si tratterebbe pur sempre di fare qualcos’altro».

Ecco, volevo proprio evitare l’uso improprio che si fa della filosofia tutte le volte in cui questa viene (s)piegata per fini legati, ad esempio, al mondo del lavoro. Insomma, non volevo portare la filosofia in classe per implementare le soft skills dei curricula dei miei alunni – espressione terribile e di mia invenzione, ma, ci scommetterei, contenuta in qualche più o meno recente o più o meno futuro documento ministeriale.

Mi sembra che da un po’ di tempo a questa parte il pericolo sia sempre lo stesso, e cioè che ci si serva della filosofia (o di qualunque altra materia in qualche modo umanistica e quindi necessariamente inutile nella società capitalista di massa e dei consumi fondata sul primato dei profitti e dell’efficienza) per fare qualcos’altro, andando incontro a quella contraddizione – notata in modo lucido, tra gli altri, da Franco Fortini – per la quale il capitalismo attribuisce un particolare ruolo sociale alla scuola, «a cui si chiede da una parte una formazione “spendibile” professionalmente, ma poi dall’altra si riconosce un fondamento legato all’idea di Bildung complessiva che si sottrae all’idea di impiego immediato e di profitto» (Lorenzo Tommasini, Educazione e utopia. Franco Fortini docente a scuola e all’università, Quodlibet 2023, p. 41; di questo libro esiste un estratto su questo blog).

La mia intenzione era molto diversa, altro che formazione spendibile sul mercato del lavoro, altro che impiego immediato (tanto i miei studenti vengono comunque agganciati dalle aziende mentre sono in classe o quando andiamo in auditorium), altro che individui alienati e ridotti a consumatori in una società che trasforma tutto in merce e che spinge alla ricerca di una felicità istantanea e perpetua che non deriva tanto dalla soddisfazione dei desideri quanto dalla loro quantità e intensità. Al contrario, volevo portare la filosofia in classe per almeno cinque ragioni:

  1. cercare insieme (io con loro, loro con me) un orizzonte di senso che potesse aiutarci a definire le nostre identità, soprattutto in relazione – e non in opposizione – agli altri e al contesto storico, politico, economico e culturale che viviamo;
  2. praticare l’esercizio del domandare intorno alle «domande-toste dell’umano» (Trevisan);
  3. tentare di remare contro una dolorosa verità, e cioè «che il mondo che abitiamo parla un linguaggio tanto elusivo e vuoto da non aver mai detto nulla e da poter perciò essere usato per fare tutto» (Daniele Lo Vetere); al contrario, l’obiettivo è ammettere di non poter dire e fare tutto, ma, quando diciamo o facciamo qualcosa, che non sembri di aver detto o fatto poco o nulla;
  4. creare in classe un’atmosfera – nel senso gestaltiano – che rendesse la filosofia come quasi-cosa, nelle modalità descritte dalla professoressa Silvia Vizzardelli nel capitolo Guardate là. Le atmosfere tra i banchi del bel libro Scuola. Filosofia di un mondo (Cronopio 2023): «Con Pitagora ero a mio agio proprio perché il filosofico veniva a prendermi da un altrove, mi trascinava in un luogo estraniante ma dal volto inconfondibile, in un luogo che mi riguardava pur facendo a meno di me. Strano agio, quello che per un attimo sembra escluderci. L’agio del sentirci esonerati, benché intensamente presenti» (p. 105);
  5. fare incontrare e dialogare il sapere filosofico della tradizione col sapere dei miei studenti e delle mie studentesse.

Come provarci? Da dove cominciare? La mia idea era quella di partire da parole fondamentali, ad alto uso e ad alta disponibilità, magari contenute nel Nuovo vocabolario di base della lingua italiana curato dal compianto De Mauro.

Scoperta e organizzazione

Ho trovato proprio quello che cercavo l’anno scorso, quasi per caso, mentre ascoltavo su Rai Radio 3 Pietro Del Soldà, che però non stava conducendo Tutta la città ne parla, bensì un altro programma che ho trovato subito bellissimo perché divulgativo nel senso migliore del termine: Le parole della filosofia (regia e produzione creativa di Marcello Anselmo). Si tratta di brevi puntate di 14/15 minuti ciascuna, dedicate, appunto, alle parole più importanti della filosofia, in particolare della filosofia occidentale (anche se, forse, riascoltandole, questa precisazione risulta molto riduttiva).

Ho proposto l’idea alla classe, mi sono assicurato che tutti potessero ascoltare le puntate fuori dalla scuola (a casa, ad esempio, o sui mezzi di trasporto pubblico), ho chiesto che si dividessero in coppie e poi ho lasciato qualche settimana di tempo affinché ogni coppia scegliesse la propria parola della filosofia. Ventitré studenti e studentesse vogliono dire dieci coppie e un terzetto, quindi undici parole: Identità, Felicità, Conoscenza, Desiderio, Abitudine, Bene, Libertà, Morte, Giustizia, Amicizia, Dubbio. Infine, prima di lasciare spazio alla loro creatività, ho dato alla classe soltanto due vincoli:

  1. da ogni parola doveva nascere una breve lezione (di minimo 15 minuti, massimo 20) da tenere davanti a me e al resto della classe;
  2. la lezione doveva prendere spunto dalle puntate del podcast, ma non doveva limitarsi a una loro pedissequa ripetizione; in altre parole, attraverso quelle lezioni volevo poter vedere loro.

Devo confessare due cose. La prima è che sono state la bontà e la qualità dei loro interventi a convincermi a scrivere queste riflessioni e a raccogliere le loro brevi ma intense lezioni. La seconda è che riconosco dentro di me una forma di nostalgia, molto comune tra noi docenti: alla fine di quest’anno scolastico non sarò più il loro insegnante di italiano e di storia, non ci rivedremo più in classe, quindi vorrei che rimanesse traccia di quello che hanno detto.

Un giorno, uscendo dall’aula proprio dopo una di queste lezioni, ho chiesto a Daniele come posso convivere con la consapevolezza che il mondo esterno non conosce il loro valore, mentre ogni giorno io me lo ritrovo sotto gli occhi nella sua scintillante e schiacciante bellezza. Daniele mi ha risposto suppergiù così: «Basta che lo viva con noi, il nostro valore». Devo dire, però, che non mi basta: mi arrogo il diritto di esserne stato testimone e me ne faccio portavoce.

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