
Diari, lettere e altri scritti autobiografici: l’Archivio e il Museo di Pieve Santo Stefano
Smisi di fare l’inviato. […] desideravo il meritato riposo di un vecchio viaggiatore di rivoluzioni. […] Nel 1984 ho fondato a Pieve Santo Stefano un archivio che raccoglie diari, memorie, epistolari di persone sconosciute: i documenti scritti, di ogni persona che li conservi o li abbia conservati in un angolo della propria casa, sono diventati per me l’oggetto di una ricerca sulla vita umana. […] Quando mi sono rivolto a persone sconosciute, chiedendo loro di consegnarmi ricordi scritti, per salvare queste testimonianze da una perdita sicura, ho avuto l’impressione di riscattare cinquant’anni di frustrazioni patite nella ricerca della stessa cosa per un’altra via, quella di un’”illusione”, sempre delusa da se stessa. (S. Tutino, L’occhio del barracuda. Autobiografia di un comunista, Milano, Terre di mezzo, 2024, pp. 413-414)
Una deviazione imprevista dal percorso programmato, la scorsa estate, ha determinato il mio incontro con il Piccolo Museo del Diario di Pieve Santo Stefano, fondato dal giornalista Saverio Tutino e diventato in questi quarant’anni un luogo di raccolta di scritture autobiografiche di ogni tempo e di ogni tipo: per sollecitare le persone a inviare questi materiali Tutino ha istituito il Premio Pieve che ogni anno prevede la pubblicazione dello scritto autobiografico vincitore. Così, a partire dal 1984 diari, epistolari, bloc-notes, albi illustrati corredati da notazioni private – oggi estese anche alle testimonianze di migranti giunti nel nostro paese – vengono accolte e ordinate nel vicino Archivio, a sua volta frequentato da studiosi, giornalisti, scrittori che traggono spunto dall’enorme mole di materiali – ormai ci si aggira intorno alle 10000 testimonianze – per ricerche storiche e sociologiche, pièce teatrali, opere narrative.
Da quella visita ha preso avvio una costellazione di letture – che si va arricchendo con il passare dei mesi – di cui cercherò qui di dar conto: sono solo alcuni degli ami a cui si può abboccare pescando dalle possibilità disponibili.
Il “lenzuolo libro” di Clelia
Il diario simbolo del Museo, a cui è dedicata una delle minute stanze che lo costituiscono, è quello di Clelia Marchi, dal titolo Gnanca na busia (oggi pubblicato dal Saggiatore): è stato tra i primi diari consegnati direttamente dall’autrice al fondatore, che nel 1986 la accolse proprio nel luogo dove oggi è esposto. Tutino, nel prendere tra le mani il pacco offerto dalla donna, rimase stupito dalla consistenza: l’incartamento esterno non sembrava avvolgere quaderni, taccuini, fogli, come ovviamente si aspettava, ma qualcosa di morbido. E infatti il diario di Clelia era stato scritto su un lenzuolo matrimoniale impreziosito da un nastro rosa e completo di due foto: la sua e quella dell’amato marito. La donna di notte, per trovare conforto alla repentina vedovanza che la rendeva insonne, vi aveva ricapitolato la storia della sua vita con Anteo:
1 Care Persone Fatene Tesoro Di Questo Lenzuolo Chè C’è Un Po’ della Vita Mia; è Mio Marito; Clelia Marchi (72) anni hà scritto la storia della gente della sua terra, riempendo un lenzuolo di scritte; dai lavori agricoli, agli affetti, dai filos,
2 alla qucina, agli affetti, e alle feste popolari: Á scritto tutta una storia; una avventura, nei sacrifici, nelle sofferenze di ogni giorno; ogni riga si svolge sul filo della sincerità: come pure il titolo del mio lenzuolo libro: ‹Gnanca nà busia› non o raccontato: gnanca nà busia né par mi; né ai lettori!!!
Clelia, contadina autodidatta proveniente dalle campagne mantovane, ha piena consapevolezza di destinare la sua scrittura a dei lettori: in primo luogo le “care persone” oggetto dell’invito iniziale vengono nuovamente chiamate in causa nell’affermazione di assoluta sincerità del suo “lenzuolo libro”: “neppure una bugia” ha mai pensato di raccontare loro; in secondo luogo l’intento di farsi leggere è chiaro nella facilitazione offerta numerando ciascuna delle righe, 184 per la precisione.

I quaderni di Luisa T.
C’è, nel lenzuolo di Clelia, il racconto di una vita dura, piena di fatiche fisiche e di privazioni il cui baricentro è e rimane il marito Anteo; il supporto fisico del diario – il lenzuolo portato in dote – dice come e quanto la scrittura di Clelia nasca dal lutto e di questo cerchi disperatamente di essere elaborazione: Gnanca na busia è il ritrovato epicedio di una Penelope padana che celebra e corona la propria vita coniugale.
Diversamente duri e dolorosi – credo di poter dire più duri e dolorosi perché scritti per sfogare il disamore e la violenza domestica – sono I quaderni di Luisa. Diario di una resistenza casalinga (Milano, Terre di mezzo, 2017 – ma la prima edizione è del 2002; il testo è diventato anche la base di partenza di uno dei Diari della Sacher, cortometraggio di Isabella Sandri). L’autrice ha dovuto attendere quattro anni prima di ricevere il premio che le sarebbe stato assegnato nel 1990 da una giuria nella quale erano presenti figure del calibro di Natalia Ginzburg e Miriam Mafai. Temendo le reazioni del marito, le ripercussioni sui figli, la donna – costretta a tenere i contatti con l’Archivio per mezzo del parroco – rinuncia a ritirare il riconoscimento e sceglie di consegnare il suo diario all’anonimato e al silenzio. Solo dopo aver lasciato definitivamente il tetto coniugale, quattro anni più tardi, troverà il coraggio e l’orgoglio di comunicare agli organizzatori la conquistata libertà: libertà di ritirare un premio appositamente creato per lei – il “Premio Pieve 1994, premio per il decennale” – che implica la pubblicazione del diario.
La lettura dei Quaderni di Luisa colpisce per la ripetitività dei gesti, che condannano la donna a un destino di immobilità: è considerata una nullità dal marito Nando, sempre pronto a rinfacciarle i difetti e, talvolta, a colpirla con violenti schiaffoni; è svilita e umiliata agli occhi dei figli che la vedono incapace di reagire; è una presenza scontata per tutte le figure familiari che le orbitano intorno: genitori, suoceri, cugini. Tenuta alla sola routine del lavoro domestico e dei campi, si definisce “una girandola” per la quantità di compiti da svolgere ma, allo stesso tempo, sente che nella solitudine le piombano addosso “vuoti” incolmabili. La disillusione rispetto alla vita coniugale, l’incomunicabilità con il marito, la violenza fisica e psichica la portano a una forma di depressione che le toglie forze, energie, volontà. Eppure, per quanto lei si dichiari “un po’ tocca”, il dialogo che intesse con il diario, chiamato affettuosamente “quaderno”, è di grande lucidità: con coraggio, nel suo italiano stentato, passa in rassegna con chiarezza l’origine del suo male interiore, la natura disfunzionale del rapporto matrimoniale, i danni che questo produce sui figli Angela e Antonio.
La scrittura diventa per Luisa un bisogno insopprimibile: la donna dedica il raro tempo in cui è sola al racconto minuto dei fatti che le occorrono; nonostante sia maggioritario il numero delle pagine che costituiscono una valvola di sfogo a una vita insopportabile, in alcuni passi compaiono momenti nei quali Luisa vive, di riflesso, attimi di una possibile felicità; si leggano alcuni brevi stralci del lungo brano nel quale rinarra la vittoria italiana ai Campionati del mondo di Calcio del 1982:
Lunedì 12-7-82 (Italia campione del mondo nel calcio)
[…] Ieri ho vissuto una delle mie giornate più nere, però mentre ascoltavo la partita alla radio fuori al fresco e lavavo la montagna di tute, l’emozione e la partecipazione alla gioia che esplodeva nel cronista e publico e da tutto il vicinato che gridavano a gran voce tutti dalla felicità, ai famosi e incredibili 3 gol mentre gli avversari cioè la Germania era a zero, è stato spontaneo e senza accorgermi ho lasciato i miei pensieri tristissimi. La nostra squadra è stata favolosa in questi campionati un gran regalo a sorpresa ci ha dato […]. Oggi è stato comperato il giornale e l’ho lette tutte le notizie che, naturalmente buona parte parlava del mondiale e ho constatato che il bellissimo avvenimento non solo a me ha fatto dimenticare i quai per essere contenti e improvvisamente avere voglia di fare festa, perché tutta l’Italia è impazzita e ha passato tutta la notte a fare festa improvvisata in tutte le maniere, io non sò spiegare l’impressione che mi fà questo fatto che la nazione intera di ogni tipo, piccoli vecchi, ricchi, poveri donne e uomini tutti insieme a combinare le più pazzesche cose per sfogare la stessa gioia, comunque il fatto non certo rattrista anzi l’incontrario mi ha proprio messo di buon umore forse è la solitudine che mi è sparita certo che non è cosa da poco l’idea che tanti altri milioni hanno la stessa gioia in questo giorno. (p. 170 e p. 172)
La corrispondenza empatica che Luisa percepisce nella gioia in cui una anonima collettività è esplosa per un evento sportivo le permette di provare una felicità che la vita domestica non le offre e di intuire che un altro modo di vivere è possibile.
Il diario (immaginato) di Nina, personaggio letterario
Filippo Maria Battaglia ha immaginato il possibile romanzo, dal titolo Nonostante tutte (Einaudi, 2022), di una donna del secolo scorso attingendo a 119 diari femminili depositati nell’archivio di Pieve, tutti rigorosamente citati in ordine alfabetico nelle pagine finali. Di questo personaggio di finzione – chiamato Nina – si ripercorrono le varie fasi della vita, dall’infanzia alla vecchiaia, ricomponendo i frammenti prescelti in un mosaico che è in grado di dare voce, a un tempo, a una figura precisa e organica e a tutte le donne del Novecento.
Esemplari le pagine in cui si ricostruisce la giovinezza di Nina, la sua ricerca di emancipazione dal rigido codice di comportamento cui dovrebbe attenersi:
A quei tempi la donna doveva sposarsi vergine, ma ricordo che personalmente (ora che avevo provato cosa voleva dire) non me ne importava molto, se un uomo non mi avesse voluta.
C’era anche un contesto sociale restrittivo: io lottavo quotidianamente per avere piccolissime libertà come prendere un pullman di pomeriggio e andare a ballare, persino per frequentare delle amiche che non erano “viste bene” semplicemente perché avevano rotto con il fidanzato (p. 75)
Il disagio psichico è rappresentato anche in Nonostante tutte, a testimonianza di quanti diari siano stati i depositari di destini di infelicità domestica, insoddisfazione, depressione: insomma di un lungo e sofferto percorso di liberazione. Nonostante tutto, durante un ricovero in clinica si può perfino trovare conforto, fisico e morale, in un’esperienza di sorellanza in bilico tra il riso e le lacrime:
La nuova ammalata si chiama M., ha due anni meno di me ed è in cura dal dottor A. Da tempo depressa al pari mio, ma un improvviso malore l’ha fatta decidere per l’immediato ricovero. […] Ora siamo proprio due pazze: ridiamo e uriniamo una di fronte all’altra ritte a fianco dei letti, meravigliate non tanto del farsela addosso quanto del riuscire a ridere così di gusto. Istintivamente ci stringiamo l’una all’altra e il riso si confonde con il pianto […] Ma le urine che, sotto ai nostri piedi, si confondono in un’unica pozzanghera, le lacrime che si mescolano e lavano i nostri volti uniti in un abbraccio convulso, non sono una fusione di secrezioni organiche. Ma la fusione di due anime che, in un tunnel oscuro, si incontrano e ritrovano se stesse. (pp. 110-111)
Non solo donne
Per quanto mi sia soffermata unicamente su testimonianze al femminile, moltissime sono anche le scritture di uomini raccolte nell’Archivio. A Vincenzo Rabito, ragazzo del ’99, bracciante analfabeta che negli ultimi anni di vita redige una fluviale autobiografia, è dedicata la seconda sala del Piccolo Museo: il suo diario, Terra matta (a cura di L. Ricci e E. Santangelo, Einaudi, 2007), viene battuto a macchina su più di mille fogli privi di margine e costellati di segni di interpunzione usati senza alcuna conoscenza delle norme ortografiche! Vincenzo vi racconta le vicissitudini di una vita nella quale la storia individuale – le umili origini, il matrimonio infelice, il riscatto grazie ai figli – e quella collettiva – la partecipazione al primo conflitto mondiale, il flagello del fascismo, la ricostruzione – sono strettamente intrecciati sotto il segno della “tradizione degli oppressi”. L’incipit offre un assaggio tanto dell’impasto linguistico quanto dello sguardo autoironico di Vincenzo:
Questa è la bella vita che ho fatto il sotto scritto Rabito Vincenzo, nato in via Corsica a Chiaramente Qulfe, d’allora provincia di Siraqusa, figlio di fu Salvatore e di Burriere Salvatrice, chilassa (classe) 31 marzo 1899, e per sventura domiciliato nella via Tommaso Chiavola. La sua vita fu molta maletratata e molto travagliata e molto desprezata. Il padre morì a 40 anne e mia madre restò vedova a 38 anne, e restò vedova con 7 figlie, 4 maschele e 3 femmine, e senza penzare più alla bella vita che avesse fatto una donna con il marito, solo penzava che aveva li 7 figlie da campare e per dacere ammanciare.
Come ha scritto Matteo di Gesù, “Terra matta entra di diritto, come un classico contemporaneo, in quel controcanone letterario italiano a partire dal quale la tradizione degli oppressi di cui parlava Benjamin potrebbe essere fondata. Quello al quale appartengono, per esempio, le opere di Angelo Beolco detto Ruzante” (in I paralleli. Narratori contemporaeni e classici italiani a confronto, edizioni di passaggio, 2009, p. 58).
Per dar conto della ricchezza anche tematica che le scritture autobiografiche del Piccolo Museo di Pieve offre, mi limito a nominare qualche altra pubblicazione: i bigliettini che il giovanissimo Orlando Orlandi Posti è riuscito a far fuoriuscire dal carcere prima di essere trucidato alle Fosse Ardeatine (Roma ’44. Le lettere dal carcere di via Tasso di un martire delle Fosse Ardeatine, Donzelli, 2004); quelle di Antonio Cocco (Ridotta Isabelle. Nella Legione straniera senza ritorno da Dien Bien PhuLettere 1952-54, Terre di mezzo, 2018) che narrano l’arruolamento forzato di un ragazzo fuggito di casa per timore di una bocciatura e finito a morire in Indocina nella Legion Straniera; il memoir di Claudio Foschini In nome del popolo italiano. Storie di malavita (Il Mulino), scritto dal carcere. E ancora, la storia di Tania Ferrucci, “una donna nata bambino” come recita il sottotitolo di Nei miei okki (Terre di mezzo, 2021).
Le scritture autobiografiche di donne e uomini non illustri
Ci si può chiedere se la sterminata raccolta di diari, epistolari, memoir di Pieve sia più utile agli studiosi di storia e di scienze sociali che a quelli di letteratura. Vi trovano posto infatti, narrate da un punto di vista popolare, le grandi fratture storiche degli ultimi due secoli: i conflitti mondiali, con i corollari delle guerre in Grecia, in Albania, in Africa; l’emigrazione italiana verso l’America e l’Australia; i grandi cambiamenti socio-culturali, dai movimenti studenteschi alla liberazione sessuale, al riconoscimento, oggi, di un modo non binario di intendere la sessualità. Tuttavia l’interesse che queste pagine possono soddisfare non è solo di tipo documentario, anzi.
In un’epoca come la nostra, in cui molti prodotti culturali vengono “spinti” perché “tratti da una storia vera”, salvo poi perpetuare stereotipi in linea con il senso comune, letture come queste possono far fare esperienza di un’autenticità difficilmente riscontrabile in certe narrazioni costruite a tavolino per l’editoria o per i social media. Infatti i testi di donne e uomini non illustri depositati presso l’Archivio sono frutto di un’introspezione, di uno scandaglio, di una confessione che gli scriventi spesso non si concedono se non di fronte alla pagina muta: è gesto ben diverso rispetto a quello odierno di consegnare la propria vita alla pagina social. I “profili” contemporanei, le pagine dei blog personali mettono in mostra il lato patinato e l’hic et nunc delle singole esistenze, destinati a essere superati da innumerevoli altri post e hashtag che, una volta “scrollati”, sono destinati all’oblio. Viceversa la scrittura autobiografica, pur con tutte le sue aporie e il cortocircuito tra fissazione e deformazione del ricordo (cfr. A.M. Mariani, Sull’autobiografia contemporanea, Carocci editore), lascia spazio al richiamo memoriale, alla sua analisi, all’attraversamento interiore delle faglie esistenziali: in ultima analisi dà diritto di parola – una parola spesso destinata a un silenzio volontario e definitivo affidato all’Archivio stasso – alla ricerca di un sé assai lontano dal narcisismo contemporaneo.

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Caporedattore
Roberto Contu
Editore
G.B. Palumbo Editore
Il “Piccolo Museo del Diario” è un luogo da incontrare. Come capita con tutti gli incontri felici, il Piccolo Museo rende possibili altri incontri fecondi, infonde nuove energie e ispira progetti azzardati. Dopo averlo visitato per tre volte, ho deciso di portarci una mia classe quinta e di avventurarmi, con la medesima classe, in un percorso di scrittura di un diario di classe (con vendemmia delle pagine di diario di ogni studente e dei docenti che si sono lasciati coinvolgere alla fine di ogni mese, giugno compreso). Raccolte, ordinate e impacchettate le nostre pagine di diario, le abbiamo spedite al Piccolo Museo. E’ bello pensare che siano state accolte e che vengano protette dal Piccolo Museo.
Mi permetto di integrare i riferimenti citati nell’articolo con un titolo che mi è rimasto nel cuore: “Acqua Passata” di Massimo Bartoletti Stella, Edizioni Il Ponte Vecchio. Massimo, nato a Cesena nel 1951, racconta nel suo diario gli anni dell’adolescenza con “una scrittura scanzonata, a tratti paradossale, capace di raccontare con leggerezza e acume l’esperienza del mondo” (cit. menzione speciale Giuria Premio Pieve). I quaderni di Massimo, disegnati e scritti, sono uno spasso! Solo un paio di assaggi:
(domenica 31 gennaio 1965): “Di lei non ne voglio più parlare perché parlandone sempre sembra che adesso io senza di lei non possa più vivere, invece vivo ancora, anche se non c’è lei, quindi pongo fine a quello che da adesso in avanti chiamerò Il primo amore non si sposa mai e parlerò di lei solo in qualche occasione speciale. Fine. Ho deciso di rimettere in funzione il mio partito (P.I.M.) Partito Italiano Menefreghisti. Ma non credo che quest’anno avrò il successo dell’anno scorso.”
(giovedì 15 dicembre 1966): “Faccio la settimana del monosillabo e non impazzisco più a parlare con loro tanto io qui sono uno di più. Se mi lasciassero un po’ in pace. Gesù Cristo disse: Siamo tutti fratelli. Ma non tenne in conto che ci sono i fratelli maggiori e i fratelli minori.”
Cara Martina, grazie delle tue parole che arricchiscono uteriormente le mie riflessioni: del resto sei stata tu stessa consigliera e artefice della deviazione dalla quale tutto ha preso avvio. Il diario di classe l’abbiamo realizzato – o meglio lo stiamo realizzando anche noi (io e la mia classe quarta) – e chissà che non ne esca un altro articolo.
Come lettori, alle pubblicazioni realizzate grazie a questo si torna ad attingere, mese dopo mese, perchè allenano la capacità empatica e quella introspettiva.