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diretto da Romano Luperini

Per Mimesis (2024) è uscito Poetiche della ragione critica. Zanzotto Giudici Raboni, di Massimiliano Cappello. Questo estratto riformula appositamente per la pubblicazione sul nostro blog la prima sezione del capitolo Giovanni Giudici. Prendere coscienza. Ringraziamo autore ed editore.

L’ultimo scritto critico di Giudici è dedicato a Barlumi di storia (2002) di Giovanni Raboni.1 In una prosa contenuta in questo libro, Raboni individuava nell’assassinio Kennedy, nella destituzione di Chruščëv e nella morte di Giovanni XXIII il paradigma della fine del disgelo, tre segnali da un «futuro imminente ma ancora totalmente impensabile», che si sarebbe di lì a poco precisato come una lunga scia di eventi storici drammatici: la guerra in Vietnam, la Normalizzazione di Praga, il golpe Pinochet, la Strategia della tensione, fino alla caduta del Muro di Berlino – vista come la «vittoria del peggio sul peggio, la fagocitazione di un “impero del male” da parte dell’altro». Con la morte di Kennedy, scriveva Raboni, terminava per sempre il periodo, breve anche in estensione, in cui «i due campi fortificati in cui la cultura, la storia, l’intera realtà […] erano parsi irrimediabilmente divisi» (il blocco Atlantico e quello Sovietico) avevano trovato «il coraggio di capirsi, di compatirsi, di emendarsi a vicenda».2

Nei vent’anni che intercorrono tra il 1943 e il 1963, l’Italia aveva attraversato «una guerra mondiale, un cambio di regime, una guerra civile, la ricostruzione, il miracolo economico, lo sviluppo di una società capitalistica di massa, la nascita di un’industria culturale moderna, un’unificazione linguistica effettiva». Non era trascorso ancora un secolo da quando la sua unificazione in Regno aveva di fatto posto fine al millenario potere temporale di una delle teocrazie più durature della storia. Dopo il secondo conflitto mondiale, la nascente Repubblica Italiana aveva dovuto fare a sua volta i conti con la sopraggiunta impossibilità di governarsi da sé, sia dal punto di vista politico sia da quello economico – in aperta contraddizione con il significato originario del termine latino che il partito di governo dal 1948 al 1992, la Democrazia Cristiana, aveva apposto sul proprio stemma: «Libertas». Situata sulla linea del fronte che divideva due contrapposte idee di mondo, l’Italia ospitava al contempo basi militari statunitensi, il più grande partito comunista dell’Europa occidentale e le vestigia dello Stato della Chiesa. In questo senso, i nomi di Giovanni XXIII, Chruščëv e Kennedy sono metonimie di un potere politico tutt’altro che astratto.3

A queste immagini macrostoriche, Raboni affiancava quella sfuggente di un ricordo personale: un gruppo di amici che, quella sera, si trovava «raccolto attorno a un tavolo per discutere, come accadeva da un paio d’anni almeno due volte al mese, del nuovo numero d’una rivista di letteratura che si chiamava “Questo e altro”»:

l’occasione che ci aveva riuniti attorno a quel tavolo non era né fortuita né insignificante; perché discutendo di letteratura – e non solo di letteratura in quanto tale ma anche, giusto il titolo della rivista, dei suoi rapporti con l’«altro» – si finisce poco a poco col trovarsi immersi in un fervore un po’ speciale, un’attesa di risposte (e di senso) che rasenta non dico la preveggenza, ma certamente l’inquietudine. Ricordo benissimo, così, il momento in cui Vittorio Sereni, arrivando per ultimo e un po’ in ritardo alla riunione (veniva, credo, direttamente da via Bianca di Savoia, dove era allora la sede della Mondadori), ci portò le notizie ancora frammentarie e confuse, ancora incredibili, ascoltate qualche minuto prima alla radio della sua automobile.4

Tra questi amici c’era anche Giovanni Giudici. Assumere l’assassinio di Kennedy come termine simbolico di un’epoca significa proporre una chiave tragico-eroica per interpretare il tempo che entrambi furono chiamati a vivere. Raboni la espone mimeticamente, con un’ecfrasi fotografica: i nomi del governatore Connally, di Jacqueline Bouvier e di J.F.K. scompaiono, sostituiti dalla rappresentazione plastica dei loro gesti («l’uomo che s’arrampica di slancio sulla lunga coda del convoglio improvvisamente funebre», «la donna china in un gesto più materno che tragico sul corpo quasi invisibile dell’assassinato», op 1245); laddove il mondo si rivela inoperabile, laddove la storia, sottratta a qualsiasi orizzonte di senso, torna a somigliare a una sequenza interminata di massacri, a un complesso minaccioso di eventi imperscrutabili, sono viceversa gli elementi del privato a conferire una profondità storicizzante alla vicenda, a fare epoca. Giudici, invece, rende visibile questa sconfitta nella sua recensione grazie a un gioco di specchi verbale:

mi ricordo di quella sera del venerdì 22 novembre 1963 quando, trovandoci insieme a una riunione di collaboratori di Questo e altro […] qualcuno era entrato annunziando: «Hanno sparato a Kennedy», ed era la fine di un’epoca di generose e giovani speranze. Ne restano severa testimonianza. Ma era insieme […] l’inizio di un’età «purgatoriale» tuttora in svolgimento, dove secondo me il vero e più plausibile impegno di uno scrittore consiste e deve consistere nel «far bene lo scrittore» e ubbidire, con ciò, alle ragioni del suo trade, ossia della lingua e, in definitiva, della letteratura che della lingua è (o dovrebbe esserne) testimonianza anche civile. Barlumi di storia è un libro direi di «accettazione», il libro di un’età che oserei definire «armistiziale».5

Riferirsi a quel tempo in termini «purgatoriali», «di accettazione», «armistiziali» non vuol dire soltanto rinviare mimeticamente alle sfere semantiche della fede, della giurisprudenza, della guerra. Significa consegnare il referto di una sconfitta tanto più storica perché esistenziale, e tanto più cocente perché inerme di fronte agli eventi. Tuttavia, se questa dura e feroce notizia viene espressa in forza di artifici retorici, sembra anche e soprattutto per mascherare dell’altro; e quest’altro coincide, significativamente, con una falsificazione temporale. Giudici, a questa altezza, non ha affatto rinunciato a una prospettiva più o meno immediatamente politica a partire dalla propria attività di scrittore. Lo testimoniano le letture, i suoi saggi, gli appunti, i carteggi che in questi anni va compiendo o redigendo.

«La scelta preventiva», scrive alla fine dell’anno 1963, è «la contestazione della società storica in cui ci si trova a vivere»;6 le letture di questi anni prediligono i marxisti eretici, si nutrono di suggestioni apocalittiche e messianiche (Lukács, Fanon, Bloch, Benjamin); i saggi che compone, infine, sono senza dubbio quelli più esplicitamente radicali. Sono gli stessi anni in cui Giudici, trasferitosi a Milano, comincia una frequentazione quotidiana con Fortini, svolge importanti letture (su tutte, appunto, l’opera di Lukács), prende parte a una serie di esperienze di natura politica, culturale e letteraria (dalle riunioni di «Quaderni rossi» alle collaborazioni con «Quaderni piacentini» e, per l’appunto, «Questo e altro»). Ma sono anche quelli in cui giunge a maturazione la sua prima importante raccolta poetica, La vita in versi (1965), con la quale riuscirà finalmente a evadere da quelle che Fortini stesso aveva definito le «miniere abbandonate da Montale», interpretando in forma dimessa e ironica lo stravolgimento che la società di massa aveva operato sui presupposti dell’idea di lirica del poeta della Bufera.7

Il culmine di questa elaborazione va forse rintracciato nell’imperativo che chiude un saggio del 1965, L’ottica della morte: riunire in una sola immagine l’anelito «cristiano» e «comunista» («l’uno per via d’ascesi religiosa, l’altro per via di trasformazione sociale») alla «fondazione di un tipo umano diverso», capace di dare un senso e un luogo al male come parte di una comunità umana compiuta. In questo saggio, Giudici fa implicito riferimento a un testo centrale dell’opera di Fortini in questa prospettiva politica, Mandato degli scrittori e fine dell’antifascismo, in cui si celebravano le esequie funebri dell’engagement primo-novecentesco – colpevole di aver riposto la principale discriminante dell’azione rivoluzionaria al livello della scrittura o tutt’al più di una formale professione ideologica, credendo cioè di poter agire concretamente sulla situazione portando il proprio contributo alla presa di coscienza delle condizioni materiali.8

Era un’idea in cui anche Giudici aveva potuto credere, specie alla fine degli anni ’50; ma che mutava di segno alla luce di alcuni episodi di conflittualità operaia che, in Italia, trovano un’epitome nei «Fatti di Piazza Statuto», sciopero insurrezionale da parte degli operai della FIAT che, tra il 7 e il 9 luglio 1962, aveva provocato violenti scontri con la polizia.9 Laddove l’oggettivo comportamento della «classe» antagonista in lotta sembrava ormai procedere a tagliare i ponti tanto con il «movimento operaio» (organizzazioni, partiti) quanto con la «coscienza letteraria e poetica» degli scrittori che, dalla Guerra di Spagna in avanti, avevano optato per la lotta antifascista anche attraverso un esplicito indirizzo politico della propria opera, la nuova forma dell’engagement proposta da Fortini si proponeva, da un lato, di rinunciare a ogni forma di rapporto immediato tra scritture e lotta di classe («la letteratura e la poesia non hanno nulla, nel senso rigoroso della parola, da comunicare né da ascoltare»); e, dall’altro, di procedere a rendere visibile l’analogia tra l’«uso letterario della lingua» e «quell’uso cosciente della vita che è il fine (e la fine) del Comunismo», di «voler formare nell’opera letteraria o poetica un equivalente metaforico […] di quella forma intellettuale e morale che tanto più la classe tende a darsi ed a creare universamente quanto più in apparenza se ne allontana nella lotta».10

Giudici credette anche in questa prospettiva; ma è anche vero che, dalla metà degli anni ‘60, intraprese un allontanamento progressivo da quelle posizioni. Se ne può collocare l’inizio all’altezza di due importanti viaggi – il primo a Mosca (1966), il secondo a Praga (1967) – e l’inizio di due collaborazioni editoriali di lunga durata (con «Rinascita» e «l’Espresso») destinate a mutare il suo rapporto con le istituzioni politiche e culturali. Il moto di allontanamento intrapreso da Giudici dal 1966 in avanti coinvolge tutta un’idea di mondo e di storia, e può essere ricompreso quasi per intero nei significati reperiti nella lettura e nella traduzione di un testo teorico (Il problema del linguaggio poetico di Jurij Tynjanov) e di uno poetico (La cosa chiamata poesia di Jiří Orten).11

La rivelazione della poesia come «cosa» e del linguaggio poetico come «lingua strana», sfera quasi autonoma rispetto a quello della comunicazione, lo avrebbero portato a un ripensamento radicale tanto delle proprie convinzioni quanto delle proprie condizioni di scrittore. Così, molti anni più tardi, Giudici avrebbe ricordato la «scoperta di Tynjanov» come il momento di una presa di coscienza «definitiva»: «la lingua della poesia è, rispetto a quelle della comunicazione corrente e della stessa prosa letteraria, una lingua diversa, quasi straniera e assai più ricca, dove una parola non è soltanto ciò che significa, ma significa ciò che è».12

Ma questa affermazione, Giudici la trae di peso dal suo primo grande autore d’elezione: il Lukács dell’Anima e le forme, che aveva parlato in questi termini del percorso «dalla casualità alla necessità» che ogni «uomo problematico» deve intraprendere per coniugare la sua anima di «poeta» e quella di «platonico». Ossia di critico:

Dalla casualità alla necessità, questo è il percorso di ogni uomo problematico, questa è la meta, dove tutto diventa necessario, dove tutto esprime l’essenza dell’uomo, nient’altro che questo, e lo esprime perfettamente e integralmente, dove tutto diventa simbolico, dove tutto, come nella musica, è soltanto ciò che significa e significa ciò che è.13

L’intera attività di Giudici poeta e critico si gioca, a ben vedere, sul transito dalla casualità alla necessità, sulla contemplazione dell’abisso che separa la progettazione di una poesia dal suo risultato, intravisto come analogo di un rapporto con il mondo della vita. L’imperativo etico – che a fine anni ’50 Giudici esponeva nell’immagine di una realtà oggettiva conosciuta e liberata dal soggetto come vero risultato dell’operazione poetica, la quale sottintendeva un’immediata verifica storica – si sarebbe gradualmente precisato come imperativo estetico, sviluppando la nozione mallarméana di hasard, e l’«essenza della poesia» come forma vuota da riempire.14 Fino a tramutare questo imperativo in una forma di religiosità laica.

Tutto ciò permette di comprendere, se non di capire, come e in che modo Giudici avrebbe ridiscusso ad anni di distanza meriti ed errori del nuovo engagement, sottolineando soprattutto come la convinzione di poter «operare sul contesto, in veste non più di scrittori […] ma di uomini “altri”», dissolvendosi nella classe antagonista in lotta e prefigurando profeticamente nella propria quotidianità il mondo a venire per «rompere il frustrante cerchio della non incidenza», si fosse rivelata impossibile da realizzare.15 Se il primo Giudici poteva ancora scorgere, nelle manifestazioni aleatorie di questo, alcune potenziali allusioni a un altro mondo (storico o celeste), il secondo tende a ricomprendere ogni dato contingente in un’idea di necessità ontologica, per cui tutto ciò che accade deve essere così e non altrimenti.

Questo è quanto porterà ad eludere, in ultima analisi, qualsiasi forma esplicita di impegno, forma dell’estraneità rispetto a ciò di cui ci si fa garanti o portavoce, ritraendosi in quella che, nello scritto del 2002 su Raboni, viene definita un’«ubbidienza» alle ragioni della lingua e della letteratura, sempre più orientata all’individuazione di un kairós che nella storia sembra non potersi dare.16 In uno scritto del 2000, dedicato tra le altre cose anche all’esperienza di «Questo e altro», Giudici avrebbe parlato di vera e propria «rassegnazione» di fronte all’«implicita e rassegnata consapevolezza dell’impossibilità di una concreta presenza politica collettiva degli intellettuali in genere, e degli scrittori in particolare al di fuori degli schieramenti e degli interessi codificati».17

Quella che nello scritto su Raboni appare come «ubbidienza» è sintetizzata meglio che altrove in uno scritto del 1984, come «servizio».18 Rintracciando nella poesia un «luogo privilegiato di uso della parola e più in generale della lingua, e per giunta dipendendo dalla parola e dalla lingua la sua ragion d’essere», giungeva a concepirla come luogo, problematico ma autentico, di manifestazione di una verità oggettiva:

un «vero» oggettivo delle parole, del loro suono e ritmo, della loro fisicità, delle […] aree e costellazioni di significati attuali e/o potenziali che ciascuna o diverse insieme irraggiano intorno a sé […] un «vero» della lingua, un «vero» del parlato e dello scritto, oltre che del parlante e dello scrivente […] una poesia […] attua un’improbabile, improgrammabile e tuttavia sublime coincidenza tra il «vero» delle nostre intenzioni poetiche e quello dello «strumento» di cui ci serviamo per realizzarle, tra il «vero» dell’intelletto o della coscienza e il «vero» della lingua.19

Prendere coscienza di una verità possibile, benché non programmabile: qui sta la coerenza del discorso complessivo di Giudici. Del resto, in uno scritto del 1992 si sarebbe dimostrato, benché in modo obliquo, ancora fedelissimo al dettame fortiniano, parlando del «farsi di una semplice poesia» come analogo in nuce di quella «nascita dell’“uomo nuovo”» alla quale le «rivoluzioni paoline o copernicane» storicamente presiedono, e di cui l’esperienza sovietica aveva costituito, nel bene e nel male, l’ultimo tentativo concreto.20 Scriveva Adorno che, nell’epoca del suo disfacimento, «può darsi persino che qualcosa della forza sociale liberante si sia ritirato – temporaneamente – nella sfera dell’individuale».21 Specularmente, Giudici sembra affermare che anche ciò che solo temporaneamente è stato non viene smentito né falsificato da quello che in seguito diventa.22

I termini temporali dell’attività di scrittore di Giudici seguono pressappoco l’arco storico-politico del secondo Novecento italiano, dalla fine della Guerra di liberazione alla Seconda guerra del Golfo, dalla «candidatura socialista alla direzione politica del Paese» avanzata da Pietro Nenni al governo Berlusconi II, il più longevo della storia d’Italia dopo quello di Benito Mussolini. Questo dato, in apparenza tanto casuale, sembra assumere un significato ulteriore, perché l’opera di Giudici parrebbe muoversi concordemente con lo spirito del tempo: da un lato, esponendo la progressiva autonomizzazione della micro-sfera individuale rispetto alla macro-sfera sociale occorsa nella seconda metà del secolo scorso; e svelando, dall’altro, il carattere fittizio di questa autonomia, sorta di preparato culturale volto a oscurare agli esseri umani il senso vivo della loro presenza. In questa prospettiva, tutto il suo percorso può venire ricompreso in termini unitari. Ciò che a un primo sguardo poteva apparire il segno di una contraddizione, torna così a rivelare una difficile coerenza.

L’«ubbidienza» che dalla fine degli anni ’70 in poi lo legherà alla lingua e alla poesia è, in questo senso, la medesima che dalla fine degli anni ’50 lo impegna nei confronti della «libertà» e di una «concezione del mondo che la supponga», alla cui «presa di coscienza» il linguaggio della poesia offre il suo modesto ed essenziale «contributo».23 Questa espressione, nell’Avvertenza dell’autore posta sulla soglia de La letteratura verso Hiroshima (1976), ritornava a definire l’operazione complessiva della prima raccolta di saggi: uno «sforzo di prendere coscienza di volta in volta delle condizioni e delle contraddizioni entro le quali si svolge oggi un’attività di scrittore».24 «Il mondo», scriveva Karl Marx, «custodisce il sogno di una cosa, del quale gli manca solo di prendere coscienza, per possederla veramente»;25 una storia possibile delle scritture critiche di Giudici è anche la storia della consistenza storica di questo sogno, delle sue implicazioni, dei suoi interdetti.

1 G. Giudici, Raboni, la lezione del disincanto, «Corriere della Sera», 18 ottobre 2002.

2 Ora in L’opera poetica, a cura e con un saggio introduttivo di R. Zucco e uno scritto di A. Zanzotto, Mondadori, Milano 2006, p. 1247

3 G. Mazzoni, Sulla storia sociale della poesia contemporanea in Italia, «Ticontre. Teoria Testo Traduzione», VIII, 2017, pp. 5-6.

4 G. Raboni, Barlumi di storia, cit., p. 1246.

5 G. Giudici, Raboni, la lezione del disincanto, cit.

6 G. Giudici, Lettera a Franco Fortini del 30 dicembre 1963, ora in F. Fortini, G. Giudici, Carteggio 1959-1993, a cura di R. Corcione, Olschki, Firenze 2019, p. 91.

7 F. Fortini, Le poesie italiane di questi anni (1959), ora in Saggi ed epigrammi, a cura di L. Lenzini, Mondadori, Milano 2003, p. 958.

8 F. Fortini, Mandato degli scrittori e fine dell’antifascismo (1964-1965), ora in ivi, pp. 130-86.

9 M. Filippini, Mario Tronti e l’operaismo politico degli anni Sessanta, «Cahiers du grm», 2, 2011, pp. 1-51. Cfr. Alcune osservazioni sui fatti di piazza Statuto, «Cronache dei “Quaderni rossi”», 1, 1962, pp. 57-61; G. Fofi, Immigrazione meridionale a Torino, Feltrinelli, Milano 1964.

10 F. Fortini, Mandato degli scrittori e limiti dell’antifascismo. c) Al di là del mandato sociale, «Quaderni piacentini», 17-18, 1964, p. 10. Il passaggio non compare nella ne varietur del 2003.

11 Cfr. J. Tynjanov, Il problema del linguaggio poetico (1924), tr. di G. Giudici e L. Kortikova, il Saggiatore, Milano 1968; J. Orten, La cosa chiamata poesia, tr. di G. Giudici e V. Mikeš, Einaudi, Torino 1969.

12 G. Giudici, Tynjanov, in Andare in Cina a piedi. Racconto sulla poesia (1992), a cura di L. Neri, Ledizioni, Milano 2017, p. 31.

13 G. Lukács, Platonismo, poesia e le forme: Rudolf Kassner, in L’anima e le forme, cit., p. 46.

14 G. Giudici, Valéry: precetti e poesia (1963), in La letteratura verso Hiroshima e altri scritti (1959-1975) (1976), a cura di M. Cappello, Ledizioni, Milano 2022, pp. 240-5; Id., La gestione ironica, ivi, p. 258.

15 Id., Provocazioni sull’impegno (1972), in ivi, pp. 112-6.

16 Cfr. F. Santucci, «Uno che in versi». Appunti sulle carte di «Primo amore», in A. Cadioli, S. Ghidinelli (a cura di), Le carte di Giovanni Giudici: tra la scrittura e il mondo, Ronzani,Milano 2022, pp. 31-63.

17 G. Giudici, Intellettuali. I profeti della rassegnazione, «Corriere della Sera», 28 marzo 2000. Cfr. R. Corcione, Tempo della fine e fine del tempo, Ledizioni, Milano 2023, p. 185.

18 G. Giudici, Servire la lingua (1984), in La dama non cercata. Poetica e letteratura (1968-1984), Garzanti, Milano 1985, pp. 162-3.

19 Id.,

20 Id., Il dono totale (1992), in Per forza e per amore. Critica e letteratura (1966-1995), Garzanti, Milano 1996, p. 44.

21 T.W. Adorno, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa (1954), a cura di R. Solmi, Einaudi, Torino 2006, pp. 6-7.

22 Devo questa osservazione ai rilievi metrici di R. Zucco, Considerazioni sulla rima in «Salutz», pronunciato durante il convegno Per i cento anni di Giovanni Giudici. La poesia e l’archivio (Milano, 7-8 maggio 2024).

23 G. Giudici, Linguaggio della poesia, linguaggio democratico, «La situazione», 9, 1959, pp. 22-30.

24 Id., Avvertenza dell’autore, in La letteratura verso Hiroshima, cit.,p. 9.

25 K. Marx, Lettera ad Arnold Ruge del settembre 1843, in Un carteggio del 1843 ed altri scritti giovanili, tr. di R. Panzieri, Edizioni Rinascita, Roma 1954, pp. 382-83.

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