
Una soluzione posticcia per un problema reale: il concetto di “essenzializzazione” nelle Nuove Indicazioni 2025
Non multa sed multum
“Non multa sed multum” è il principio latino al quale gli estensori delle Nuove Indicazioni nazionali per la Scuola dell’infanzia e Primo ciclo di istruzione affidano il compito di trasmettere uno dei cardini della loro idea di formazione. La massima veicola infatti tre informazioni fondamentali per la comprensione di tutto il documento: un’idea dei contenuti del percorso formativo, una visione della figura e del ruolo di chi apprende, un invito rivolto a chi insegna.
Questa breve riflessione non parte affatto dal rifiuto di una simile logica. Credo anzi che il fattore “multa” sia ben radicato nella scuola, e che l’idea di limitarlo non sia affatto peregrina. Nella concreta esperienza del lavoro scolastico, sono attivi diversi elementi, culturali organizzativi e burocratici, che rendono inclini a questa visione della formazione, basata su un criterio prevalentemente quantitativo, anziché su uno qualitativo. Nella mia ormai lunga esperienza – di docente, commissario e presidente di commissione all’esame di Stato – ne ho incontrati soprattutto tre.
Il primo – crescente man mano che si procede dalla scuola dell’infanzia alla secondaria di secondo grado – consiste in una scarsa propensione alla collegialità e a una condivisione autentica (non formale) dei principi e delle pratiche di insegnamento; nella secondaria di secondo grado, essa sfocia nella disabitudine a discutere e confrontarsi liberamente e senza secondi fini (come invece spesso accade in occasione delle prove comuni o dei test Invalsi).
Il secondo è il sostanziale dominio del voto numerico, nell’ambito di quasi tutte le discipline. Il combinato disposto fra questa realtà e il numero elevato di materie presenti nel curricolo determina, in particolare in alcuni momenti dell’anno scolastico, una costante tensione verso la produzione di voti, sensibilmente aggravata dai meccanismi elettronici di registrazione e controllo della produttività di chi insegna. Sorge così una situazione paradossale: la compresenza di un sistema fondato sulla distribuzione razionale e omogenea di verifiche e prove nell’arco di nove mesi, da una parte; e dall’altra, soprattutto alla fine dell’anno scolastico, un’imitazione poco riuscita della scuola americana dei test, in cui si concentrano in poche settimane prove decisive per l’esito finale.
Ne consegue il terzo fattore: un frequente sbilanciamento della didattica e della valutazione sul versante delle conoscenze: il nozionismo e l’enciclopedismo sono ancora estremamente radicati nella scuola. Di sicuro, nelle realtà liceali in cui ho svolto quasi tutte le mie esperienze lavorative l’acquisizione di dati, nozioni e contenuti non costituisce semplicemente il punto di partenza e il fondamento del percorso di formazione, come è giusto e inevitabile che sia, ma ne diviene spesso il punto d’arrivo e l’essenza stessa.
Dunque sono d’accordo con chi ha scritto le Indicazioni: il problema di un eccesso e di uno squilibrio esiste. Ma se è evidente il problema, non lo sono altrettanto le possibili strategie per una sua reale soluzione.
Che cosa significa “essenzializzare”?
La dialettica e il difficile equilibrio fra quantità e qualità costituisce un problema da affrontare, sia quando ogni persona che insegna programma un’attività didattica/ culturale, sia quando le persone cui spetta di ideare e proporre un curricolo pensano a quali siano le strategie migliori per realizzare un insegnamento/ apprendimento significativo.
Nelle Nuove Indicazioni la sua soluzione ruota intorno al concetto di “essenzializzazione”, sotteso a parecchie pagine del testo, ma definito e discusso analiticamente nella parte conclusiva. La seconda Appendice, infatti, raccoglie le indicazioni emerse dalla consultazione di numerose associazioni e realtà universitarie e formative. Sorvolando sul problema non irrilevante della loro rappresentatività, esse comunque concordano nel sottolineare che esiste un serio problema legato alla staticità dei programmi, alla loro perdurante tendenza nozionistica e quindi a un privilegio concesso alla “quantità” sulla “qualità”. In alcuni passaggi del documento (per esempio quando si parla dell’insegnamento della Matematica) si mettono apertamente in contrasto esigenze quantitative (finire il programma) e qualitative (conseguire un’effettiva comprensione dei problemi e dei temi trattati). E anche in questo caso, pur essendo corretto denunciare la genericità di alcuni giudizi presenti nel testo, non si può negare che la questione sia seria e vada affrontata.
Gli estensori delle Indicazioni intendono risolverla suggerendo pratiche di “essenzializzazione delle discipline” orientate “alla revisione e al rinnovamento dei nuclei essenziali e dei curricoli” (le citazioni virgolettate che seguono sono tratte dalle pagine 145 e 146 delle Indicazioni). Sottolineano che quest’operazione non va intesa come “semplificazione” (non si tratta cioè di “tagliare” temi e contenuti oggetto di trattazione), bensì di “specificità” (in corsivo nel testo), cioè “disposizione a notare i dettagli delle proposte educative e formative”. Nella loro visione, “approfondimento” e “moltiplicazione” sono posti in un’antitesi irriducibile: l’approfondimento può nascere esclusivamente da tempi distesi, che consentano a chi apprende di assumere un ruolo attivo nel processo formativo, facendo nascere in lui/ lei il “desiderio del confronto, della discussione” e consentendo dunque di “cogliere la cultura di prima mano”. L’idea che l’impostazione attuale della scuola non favorisca un simile insegnamento/ apprendimento è alla base delle riflessioni citate, così come è chiaro che dietro ad esse fanno capolino i diffusi luoghi comuni sull’insegnante trasmettitore frontale e sullo studente passivo vaso da riempire. Rappresentazioni, tengo a ricordarlo, non prive di fondamento se riferite a situazioni specifiche, ma molto lontane dal vero se proposte come regola statistica: nelle scuole italiane ci sono infatti tante e tanti insegnanti che sanno coinvolgere e rendere protagoniste le classi, non abusano del loro potere né schiacciano le persone sotto il peso di nozioni inutili e lontane dal vissuto.
La lettura di questo passaggio suscita un’impressione (per usare un eufemismo) di vaghezza e semplificazione, e si risolve in una semplice equazione: meno contenuti e contenuti più “specifici” uguale tempi distesi uguale protagonismo e spirito critico di chi studia uguale avvicinamento della cultura ai singoli uguale valorizzazione del talento di ciascuno.
Quest’impressione di superficialità esce rafforzata dalla lettura integrale del documento. Al suo interno, infatti, l’efficacia di una scuola che sia effettivamente in grado di fare fronte alle esigenze di un “nuovo Umanesimo” è prevalentemente affidata a dimensioni del processo formativo di cui si offre una descrizione piuttosto banale. Prima di tutto sono proposte pratiche molto disinvolte di “interdisciplinarità”, in cui tutto si collega con tutto per semplice affinità nominalistica, senza alcun bisogno che sussistano i presupposti per una conoscenza significativa e approfondita dei complessi snodi culturali di fronte ai quali si trova chi oggi studia.
Ci sono poi insistiti riferimenti al vissuto individuale e alla personalizzazione dei processi di apprendimento, sempre declinati in termini di esperienza personale/ individuale, azione concreta (l’apprendimento è sempre “orientato all’azione”) e emozione. Sull’uso quanto meno disinvolto di termini complessi come “individuo” e “persona” ha scritto di recente su queste pagine Stefania Melotto, le cui riflessioni mi appaiono convincenti. In quest’ambito, spicca l’affermazione che il sapere, in sé, non presenta alcun fascino né attrattiva; è il Maestro (sempre maschio e talvolta con la maiuscola) a fare da “volano del desiderio”: “L’allievo non scegli di desiderare di imparare, (…) sceglie il modello che sa stimolarlo”.
Infine, domina l’onnipresenza salvifica della tecnologia, vero grimaldello in grado di aprire ogni porta, comprese quelle più intime sull’interiorità delle ragazze e dei ragazzi ieri distratti, e oggi coinvolti grazie all’assistenza dell’IA, a giochi, strumenti di simulazione e coinvolgimento in uno studio che assume tratti di spettacolarizzazione e performance.
Da dove cominciare?
Comunque la si voglia chiamare, la riduzione dei contenuti disciplinari è oggi molto più un dato di realtà che uno scenario possibile.
La determinano infatti fattori potenti, quantitativi e qualitativi. Fra i primi, spicca la crescente necessità di dedicare attenzione alla didattica della scrittura, cui nell’ipotesi più virtuosa si lega l’accento posto sullo sviluppo delle abilità di pensiero critico e argomentativo; ad essa si aggiunge l’oggettiva sottrazione al tempo di insegnamento di ciascuna materia ad opera di attività che rispondono a interessi differenti, spesso strutturate come blocchi orari di difficile gestione collegiale (ultime, ma non sole, la didattica orientativa e l’educazione civica). Fra i fattori qualitativi, va annoverata l’esaltazione delle discipline STEM e la più o meno implicita svalutazione delle discipline NON STEM, a cui alcuni insegnanti teorizzano di sfuggire contaminando (nelle Nuove Indicazioni si dice “ibridando”) tutte le materie con la tecnologia e la dimensione digitale.
Ѐ all’interno di questo contesto che si inserisce il confronto sulla didattica della letteratura e delle discipline umanistiche. Al centro della riflessione, non certo da oggi, si colloca il rapporto fra acquisizione delle conoscenze (primo e fondamentale momento di ogni processo di apprendimento significativo). sviluppo progressivo delle abilità (intese come insieme di categorie e azioni che conducono a risultati certificati, consolidati e ripetibili), maturazione di scelte e atteggiamenti critici (in cui la consapevolezza personale e l’argomentazione portano a costruire ipotesi soggettive e divergenti). Risulta piuttosto scontato che l’impostazione di qualsiasi attività significativa non può che passare al vaglio di una domanda sui contenuti, sulla loro definizione proprio in termini di quantità e qualità. Se, per esempio, mi prefiggo l’obiettivo di consentire a ciascuna persona di una mia classe di ragionare sul materialismo e sull’ateismo a partire dalla comprensione di testi di Leopardi, sulla visione del dolore e dell’esistenza che caratterizza il poeta; se intendo mettere le persone in grado di collocare con precisione queste idee nel contesto storico-culturale nel quale nascono, da una parte, e dall’altra sollecitare in loro la capacità di collegarle in modo profondo e personale al vissuto e alla realtà che le circonda: quanti e quali testi costituiscono la base minima sulla quale costruire una lettura storicamente credibile, condivisa, soggettiva ma non impressionistica? La domanda, mi sembra, non è affatto oziosa, a meno che l’insegnante non decida di ignorare il fattore tempo e il fattore partecipazione: se devo “fare” come minimo un certo numero di canti e dialoghi (quando ho iniziato a insegnare, si diceva “un congruo numero di testi”, affidando a una consuetudine sostanzialmente immodificabile il compito di dare spessore al termine “congruo”), mi importa quel che devo fare io; non mi interessa veramente che l’argomento susciti una discussione, una critica, un confronto dialettico all’interno del gruppo. Ovvio, dunque, che una didattica autoreferenziale e burocratica tenga poco conto della questione. Altrettanto ovvio, credo, che una didattica fondata sulla democrazia e sull’umanità di chi apprende ne tenga gran conto. L’una e l’altra – la didattica burocratica e quella democratica – abitano effettivamente le aule nelle quali insegniamo.
Naturalmente, non esiste una soluzione univoca, perché nell’insegnamento sono in azione potenti fattori soggettivi e variabili che non possono essere facilmente incluse in una teoria unificante. Tuttavia, già il fatto che ci si ponga il problema o non ce lo si ponga costituisce una precisa linea di confine: fra chi concepisce come finalità dell’insegnamento la ripetizione e l’esecuzione (non poche e pochi docenti, soprattutto nei licei), e chi invece concepisce l’insegnamento e l’apprendimento come liberazione e come critica all’esistente; intendendole nel senso indicato dalla Costituzione, come “rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale” posti dalla sorte sul cammino di persone meritevoli, in quanto cittadine e cittadini. Ѐ vero infatti che la retorica del “talento individuale” colora di sé molte pagine di queste Nuove Indicazioni fino a riuscire fastidiosa; ma è altrettanto vero che nelle scuole esiste il problema di non ingrigire l’apprendimento (con una felice metafora, si parla di “musealizzare” il sapere), di aprire spazi alla creatività delle ragazze e dei ragazzi, spesso schiacciata sotto il peso di un numero di informazioni e nozioni assolutamente eccessivo, e impegnata quindi in un bulimico processo di riempimento/ svuotamento del cervello, anziché di sedimentazione, selezione e scelta consapevole. Le due cose, infatti, non si danno insieme, e l’interazione fra “moltiplicazione” dei saperi e loro “approfondimento” (per usare la terminologia delle Indicazioni) va ogni volta sapientemente governata e controllata.
Nella mia vita professionale, incontro di frequente una rappresentazione plastica di questa difficile situazione nelle esperienze come commissario esterno o come presidente all’esame di Stato.
Il colloquio orale da anni è ispirato a principi diversi da quelli cui gran parte dei docenti e delle docenti ha costruito la sua professionalità, perché quello del vecchio esame di maturità era rigorosamente disciplinare, fino a risolversi non di rado in un esame al docente di classe per il tramite dello studente. Tuttavia, la semplice lettura dei programmi inseriti nei Documenti del 15 maggio fotografa spesso (nei licei classici e scientifici con grande frequenza) una realtà incoerente e disfunzionale: un numero impressionante di contenuti, ovviamente ingestibili in prospettiva critica e argomentativa (cioè rispetto alle finalità che la legge associa alla prova) per la maggior parte delle persone che sostengono il colloquio. Si tratta di contenuti non di rado identici a quelli che chi insegna avrebbe presentato nel vecchio esame di maturità, dove però il colloquio aveva appunto finalità e impostazione completamente differenti, essendo la somma di due verifiche rigorosamente disciplinari, condotte con tempi e modalità affini a quelle vissute dal candidato durante gli anni di corso. Lunghi elenchi enciclopedici con pretesa di “completezza”, cui non è affatto estraneo l’umanissimo bisogno di chi insegna di dimostrare agli esterni di aver lavorato a fondo. Ma che, paradossalmente, espongono soprattutto le ragazze e i ragazzi, non solo le/ i più deboli, ai colpi della sorte e alle conseguenti figuracce.
Indicherei infatti un ultimo elemento di complessità in quest’ambito, occultato anch’esso da una potente retorica: quella delle eccellenze e dell’inclusione, le due frontiere più avanzate del discorso sulla personalizzazione dell’insegnamento: la declinazione individualizzata del processo formativo, discutibile in linea di principio in una scuola pubblica, ma poi anche impraticabile per ovvie ragioni, dal momento che le stesse autorità che la esaltano creano le condizioni perché esistano classi affollate e piene di problemi irrisolti (il caos programmato del precariato, la confusione assoluta nella selezione del personale docente, la scandalosa mancanza di docenti specializzati nel sostegno ne sono le prove più evidenti). Tuttavia, “eccellenze” e “casi specifici” non costituiscono, tranne che in situazioni eccezionali, la maggioranza di un gruppo. Dunque per la gran parte delle persone che formano una classe servono soluzioni generali, non individuali. In particolare, serve un approccio duttile, orientato a bilanciare progressivamente le diverse finalità del processo formativo. Tanto sul lungo periodo, attraverso il passaggio fra i differenti gradi di istruzione, quanto sul breve periodo, nel passaggio fra biennio e triennio della secondaria superiore, è necessario trovare un giusto e compatibile spazio per l’acquisizione e la sedimentazione delle conoscenze, per lo sviluppo e il potenziamento di abilità logiche, argomentative e critiche, per promuovere una profonda riappropriazione e rielaborazione delle une e delle altre in un quadro culturale originale. Naturalmente, sull’asse irrinunciabile dei due processi cui la scuola deve fornire un contributo concreto e decisivo: la capacità di storicizzare, muovendo dal nostro presente verso un passato più o meno lontano, nel rispetto delle idee e degli immaginari che man mano incontriamo, senza strumentalizzazioni e forzature ideologiche; la capacità di attualizzare, facendo convergere il passato più o meno remoto verso il nostro presente e il nostro vissuto, cercando di indagarne gli insegnamenti sia in termini di affinità che di distanze culturali. Qualità – il rispetto della storia e il suo ragionato confronto con il presente – di cui il dibattito pubblico attuale mostra una clamorosa povertà e un disperato bisogno, a partire dalle figure politiche che hanno in mano i destini del nostro Paese e del mondo intero.
Democrazia reale, democrazia artificiale
Come sarebbe possibile, allora, “essenzializzare”, se supponiamo di concordare sull’esigenza che un simile processo debba essere attivato?
Dare un senso condiviso a questo termine, e alla pratica che ne potrebbe derivare, sarebbe un’importante esperienza di democrazia scolastica. Implicherebbe infatti un approfondito confronto su aspetti fondamentali del percorso formativo, guidato da domande irrinunciabili:
quale rapporto esiste fra i diversi ordini di scuola? Quali sono gli apprendimenti che consentono a chi impara di esprimere al meglio la propria intelligenza nei diversi passaggi istituzionali della sua crescita? Cosa significa “curricolo verticale” e in che modo può essere strutturato? Come porre fine alla confusione fra “multidisciplinarità” e “interdisciplinarità”? Quali sono effettivamente gli elementi logici, argomentativi e tematici che consentono un proficuo dialogo fra le discipline e le aree disciplinari? Quale effettiva funzione formativa può svolgere la tecnologia nel processo di acquisizione dei saperi?
Interrogativi, tutti, che le Nuove Indicazioni risolvono in poche righe rivolte a docenti che si rappresentano implicitamente come ripetitivi e noiosi, nei confronti dei quali il tendenzioso sondaggio proposto alle scuole nell’ambito del dibattito pubblico che dovrebbe essere promosso da questo documento non mostra rispetto né interesse.
Nella certezza che saranno presto rivitalizzati da una potente iniezione di intelligenza. Artificiale.
L’illustrazione di questo articolo è di Stefania Melotto.
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Caporedattore
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Editore
G.B. Palumbo Editore
Ho apprezzato molto l’articolo del collega Stefano Rossetti, perché si interroga sull’idea di scuola e di insegnante veicolata dalle nuove IN, ma non si limita alla pars destruens, ma mira anche a promuovere una riflessione sulle finalità della letteratura e dell’insegnamento delle tanto bistrattate discipline umanistiche.
“Essenzializzare” ci è ormai richiesto da più parti, basti vedere che le 132 ore annuali di italiano si riducono, nei casi più felici a 110, con un’intrusione di Orientamento, Educazioni di vario tipo, PCTO che, mi spiace dirlo, poco hanno a che fare con la didattica delle discipline e la promozione di competenze disciplinari e trasversali.
“Essenzializzazione” mi rimanda alla distillazione dei contenuti della didattica breve di Ciampolini, ma credo che in ciò si annidi il tentativo di semplificare il reale, il messaggio della letteratura che, proprio per la sua polisemia e capacità di produrre interpretazioni diverse, necessita di un tempo che, ahimé, ci viene sempre più negato.
Saper creare spiriti pensanti, individui che eserciteranno la democrazia in contesti non scolastici, presuppone un lungo lavoro di scavo e di analisi delle discipline, su contenuti, lo ricordiamo, sempre indocili: come posso indagare i luoghi comuni sulla ricezione del “Principe” di Machiavelli, se mi limiterò a trattare l’autore in 6 ore, con vita, opere, temi e leggendo due testi tagliuzzati, magari in lingua moderna.
Sull’esame di Stato, affido le mie riflessioni al pezzo apparso due anni fa su questo blog (https://laletteraturaenoi.it/2023/06/19/languilla-e-tesla-riflessioni-sul-colloquio-dellesame-di-stato/), ma sempre attuale (ahimè).
Concordo pienamente con il problema evidenziato nell’articolo (bilanciamento tra qualità e quantità) , che però infine è lasciato alla discrezionalità del docente, e ciò potrebbe pure essere un bene. Il “frale vero” però è quello indicato nel commento all’articolo: essenzializzare dovrebbe significare anche riconsegnare il tempo scuola ai docenti, rimandando al pomeriggio, per esempio, tutte le attività non strettamente disciplinari. Insegno da 40 anni e, per puntare alla qualità, nei ritagli di tempo lasciati da PCTO, educazione civica e Orientamento, uscite, conferenze, spiego il nazismo in due ore… più essenziale di così! Ma la qualità va a farsi benedire…