
Perché leggere Io, Jean Gabin di Goliarda Sapienza
Io, che con Jean Gabin ho imparato ad amare le donne, mi trovo ora con la fotografia di Margareth Tatcher davanti – sul giornale, beninteso, che da buona cittadina postrivoluzionaria francese compro tutte le mattine -, e comincio a pensare che qualcosa non è andato per il verso giusto in questi ultimi trent’anni di democrazia. Jean Gabin non sapeva niente di lady di ferro, donne poliziotte, soldate e culturiste. I suoi occhi azzurri – di Jean, intendo – sognavano una donna che fosse come un fiume, un grande fiume languido e vertiginoso che andava a nutrire con le sue acque limpide il mare. Questo ho imparato da lui. Intendiamoci, non un mare delineato da un’elegante cornice dorata per fanatici del paesaggio, ma il mare segreto di vita, avventura magnifica o disperata, bara e culla, sibilla muta e risposta sicura; spazio immenso in cui misurare il nostro coraggio di individualisti incalliti, ladri al ricco e donatori al povero, tutti d’accordo su una precisa breve frase: «Sempre fuori da tutti i poteri costituiti», soli, ma con l’orgoglio di sapere la rettitudine che soltanto nell’outsider alligna.
(Goliarda Sapienza, Io, Jean Gabin in Autobiografia delle contraddizioni, Einaudi, 2024, p.287)
È possibile che la riscoperta (anche cinematografica) de L’arte della gioia abbia portato molte lettrici e molti lettori sulle tracce di Io, Jean Gabin, romanzo autobiografico e postumo di Sapienza (scritto negli anni Ottanta, pubblicato nel 2010). Goliarda, che qui si racconta bambina in prima persona, ha in comune con Modesta (straordinaria protagonista del romanzo più noto) proprio la fisionomia dell’outisider, «sempre fuori da tutti i poteri costituiti». Resisterle è difficile, com’è difficile resistere a questo travolgente incipit: è un contenitore quasi miracoloso di tutti i significati di questo lungo racconto, che si snoda inquieto e spregiudicato, incantato e strafottente per le straduzze della Civita catanese, «grande città nella città dove tutto ti poteva accadere». (p.325)
Per «questa vita tracciata senza interruzioni da basso a basso, da balcone e balcone»
«La strada! La strada apre tutte le occasioni e le avventure!» (p.303)
Per quell’intrigo di vie e cortili, di palazzi ariosi e bassi fatiscenti, in un’atmosfera cittadina e guascona si muove incessantemente Goliarda picciridda, bambina. Il suo sguardo è vivacissimo e acuto, la mente sveglia, la parola pronta. Ricorda Momò, entrambi esploratori insaziabili di quella vita che si dipana – varia, semplicissima e complicata – sotto i loro occhi: la vita davanti a sé. Ma mentre il ragazzino abita una banlieu emarginata, la picciridda abita il cuore pulsante della città, il centro storico orgoglioso e straccione, borghese e artigiano, colto, ignorante e comunque sapiente; e ne diventa lei stessa il cuore, l’interprete, la paladina, la giovane promessa («io appartenevo al futuro, alla scienza, alla tecnica», p.372), sospesa come un’equilibrista su un filo teso tra la bottega del puparo, che vuol fare di lei «un’Angelica coi fiocchi, da mostrare a tutti con orgoglio» (p.326), e il cinema Mirone, che lentamente la trasforma in Jean Gabin, in quel Jean Gabin: solo, ma con l’orgoglio di sapere la rettitudine. E la rettitudine sembra consistere proprio in quell’equilibrio eccezionale, di cui il lettore moderno, il lettore che si trova davanti le fotografie di Margareth Tatcher (o di Ursula von Der Leyen o di Giorgia Meloni o di Donald Trump…) vede malinconicamente la precarietà: un’occasione mancata di democrazia, che invece sembrava ancora possibile in quella Catania frenetica e operosa, antica per fondazione, moderna per vocazione; molto lontana dagli stereotipi narrativi e televisivi degli ultimi anni. Goliarda, unica figlia naturale di genitori di estrazione sociale e territoriale profondamente diversa, ne è in qualche modo l’emblema.
Per incontrare «personaggi vivi, acuti e saettanti fra teste di meduse, draghi alati, leoni, elefanti scolpiti nella lava»
Atei e comunisti, intellettuali e popolari, perennemente sotto il controllo vigile della polizia fascista, e non di rado anche dei suoi manganelli e delle sue carceri, i Sapienza esercitano sulla narrazione una doppia forza, centripeta e centrifuga: «noi eravamo atei, nondimeno tenevamo in gran conto le usanze popolari che hanno le radici nel profondo della Storia e che quel pivellino di Cristo aveva solo sfruttato per il suo progetto» (p.296).
La madre, lombarda, sindacalista, militante, prima di sposarsi «era di una famiglia ricca»; il padre, che pure «si vanta tanto della sua origine plebea» (p.335), è un avvocato socialista, battagliero, rinomato per essere il difensore «di clienti cenciosi ma parati dignitosamente come per apparire a un funerale» (p.290). Intorno a loro, nella loro stessa casa, un corteggio foltissimo di amici e famigli, clienti e avversari. A chi – tra i «piccoli e grandi conformisti» – la provoca, scandalizzato o sospettoso per tutto quel perenne trambusto, la picciridda risponde appuntita:
La gente attiva, piena di vita, magra e scattante, insomma, in una parola, antifascista, dorme poco e non si annoia mai. (…) Non viviamo di marcia rendita borghese noi! né lasciamo che il Duce o un santo qualsiasi pensi a noi. Prova a vivere libero, tu, e vedrai il tempo che ti resta per dormire. (p.331)
Ma non sempre quelle risposte, ardite e spropositate in bocca a una bambina, le infondono il coraggio necessario a essere interamente Jean Gabin; perché «lo strale d’amore poteva colpire tutti, fascisti e antifascisti, borghesi e no» e «di parlare con qualcuno d’amore non ci pensavo nemmeno. Tutti a casa mia, anche le donne, erano contrarie a quella parola»:
L’unica che ammetteva che l’amore era qualcosa degno di essere preso in considerazione era mia madre, ma la faceva così complicata: doveva essere un amore libero da convenzioni, da ricatti psicologici o finanziari eccetera… Insomma la faceva così difficile che era meglio stornare il discorso sulla Grecia antica, la politica o la filosofia che, anche se difficili, applicandosi almeno si potevano capire… (p.332)
Dunque Goliarda (che è la piccola di casa) se ne va in giro per tutto il quartiere (sconfinando spesso e volentieri) a far domande sull’amore e sulla vita in genere; e si imbatte (ma più spesso sarebbe giusto dire che se li va a cercare) in donne e uomini tutti carne, ossa e nervi, vivi, generosi di tempo e di parole: i fratelli – Carlo, «il mio fratello musicista» (p.372), Licia, dal «tatto squisito» e dalla «voce delicata» (p.291), Arminio, Ivanoe… (dieci erano in tutto; incluso Goliardo, il fratello perfetto, tragicamente morto, probabilmente assassinato); il commendatore Insaguine, puparo, cui si offre come lavorante per guadagnare le lire necessarie a pagare il biglietto del cinema; Zoe, «ex galeotta condonata, (…) spilungona segaligna dal portamento di regina» (p.375); il professore Jsaya, «spirito libero e ironico» (p.342); Concetta, «piccola e deforme beghina» (p.288); Bombolo, «l’ultimo rampollo della casata di notai, i Bruno, che rotolava fuori dal portone per andare a scuola», disposto a pagare per avere da Goliarda il racconto dei film a lui proibiti… Una umanità piegata ma non arresa, provata ma battagliera, finita ma pronta a ricominciare; perché
Ricominciare – sussurra sorridendo Jean dal grande schermo, – questo è il segreto, niente muore, tutto finisce e tutto ricomincia, solo lo spirito della lotta è immortale, da lui solo sgorga quella che comunemente chiamiamo Vita (p.386)
Per non «ridurre il sogno a raccontino commerciabile»
Da questa umanità Goliarda dipende con affetto e insofferenza. Così si sfoga con lo zio Nunzio:
«Non sarò mai un guerriero, zio!»
«E com’è ‘sto fatto?»
«Troppo dipendente affettivamente (…) Non sarò mai come Ulisse»
(…)
«Che hai tu meno di Ulisse, il viaggiatore?»
«Lui aveva la volontà di non curarsi della moglie, dei figli e solo al suo scopo pensava, ai suoi viaggi, la sua conoscenza… Io basta che Carlo o Arminio o Licia mi facciano un cenno, corro appresso a loro come un mentecatto qualsiasi»
(…) Tutti contro di me. Tutti a chiamarmi, a volermi… Ma anche Ulisse era voluto da tutti eppure ce la faceva sempre a ripartire. Ecco qual era il punto! Era il destino greco che ti sottoponeva a quelle prove mandandoti tante richieste d’affetto (…), per vedere se eri valente o solo mezza tacca tutta intenzioni e parole ma senza sostanza (p.322)
E Jean Gabin, come un nuovo Ulisse, insegna a Goliarda la rotta per «essere»: essere sostanza, oltre che parole; essere per sé, oltre che per gli altri, attraverso gli altri.
Avevo tanto passeggiato conversando con lui che la sua pelle m’era calata addosso facendomi capire tutto del suo sogno e del suo dolore. Quel sogno d’«essere» era così coraggioso e libero che l’idea di andare a raccontare anche solo qualche pezzetto di quelle meraviglie a quei borghesucci del primo piano mi disgustò in tal modo da farmi fare quella che forse mi appariva come la prima vera presa di posizione vero la volgarità, la norma: non guadagnare riducendo il sogno a raccontino commerciabile, non accettare i compromessi (p.369)
La bambina che rifiuta si svendere per pochi spiccioli il suo racconto ai grassi fratelli Bruno sarà la donna che abbandonerà il teatro, che si sottrarrà agli ambienti colti ed esclusivi del cinema neorealista, che conoscerà Rebibbia, che morirà senza aver conosciuto il successo letterario per non aver voluto commercializzare il suo «sogno d’essere», un sogno di libertà e coraggio. E forse per questo quel sogno oggi ci arriva puro, intatto in una tessitura, in una lingua, in una sintassi che non accettano compromessi, neppure loro. Un racconto d’argento vivo, sfuggente e agile come il corpo di un/a adolescente.
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fulminante come sempre Luisa!!!
corro a leggere!