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diretto da Romano Luperini

Preparando la conserva di fine estate oppure una torta di mele ottobrina, arrivava sempre il momento in cui – con tono solenne e misurata cadenza – uno dei miei nonni diceva: “Nel grando ghe sta anca el picoeo”.

Ricordando le remote conserve e le perdute torte, mi sono detta: “Vuoi vedere che – in tempi di autonomia differenziata – mi sono imbattuta in un principio-guida che potrebbe, per una volta, mettere tutti d’accordo?”.

Principio-guida, ideale regolativo dell’ennesimo anno scolastico che si svolge all’ombra di progetti Pnrr, dell’orientamento, dei capolavori, delle certificazioni di competenze, delle educazioni allo spirito patriottico ed imprenditoriale e così via.

Nella sua profonda saggezza nonnesca, il proverbio veneto si può tradurre – meno poeticamente – così: “Nel grande ci sta anche il piccolo”, un modo di dire che i vecchi usavano in tutte quelle situazioni della vita nelle quali bisognava scegliere tra contenitori di diverse fogge e dimensioni e nel dubbio, per prudenza e precauzione, era sempre meglio “slargarse”, scegliere “el grando” e non “el picoeo”.

Una lettura fortunata[1] ha incrociato, nel momento opportuno, il recupero del mio ricordo e mi ha dato la spinta definitiva: Mario Lodi e Gianni Rodari (amico ricordato e citato più volte nel testo di Lodi) utilizzavano, pure loro e tra loro, l’espressione “slargare”, espressione che trasmette perfettamente il desiderio/bisogno/tentativo di rivendicare – nel contesto scolastico – spazi, tempi e modalità di azione dai quali, in seguito, prenderò spunto.

Ho deciso, quindi, di trasformare questo ricordo, nella sua formulazione L1, in un kantiano ideale regolativo: un orizzonte etico verso il quale tendere, verso il quale approssimarmi attraverso scelte e azioni che, a Scuola, permettano a me e ai miei studenti di assumere il più possibile un certo atteggiamento, una determinata postura. Quali?

Come insegnante tornare a pormi – ché mi pare d’aver perso la bussola, travolta non da un insolito destino nell’azzurro mare di agosto, ma da una serie di sfortunati eventi – nelle condizioni di offrire agli studenti qualcosa che permetta loro di allargarsi, allungarsi, stiracchiarsi, sguazzare, sgranchirsi e scegliere/trovare (anche inconsapevolmente), ciascuno a modo suo, il proprio gesto, il proprio modo di vivere la lezione: ogni studente, da sé, messo in relazione col Grando in quanto Grando (non già sminuzzato e semplificato, predigerito, omogeneizzato in vista di facilitazioni preconfezionate) potrà trovare – oppure no – il modo di accomodarsi nello spazio arioso che il Grando offre a tutti.

Ma cosa sarebbe questo Grando (Grande)?

Mah, dipende dall’area disciplinare, dipende dal bacino dal quale possiamo attingere: quel che riconosciamo come Grande, poniamo come Grande potrebbe essere avvertito come tale anche dagli studenti. Che sia allora un testo poetico, un’opera d’arte, una legge fisica, un articolo della Costituzione o la teoria dei colori poco importa. Importa, oggi e a me, che venga preservato il “sentimento del Grando”. Temo la sua prossima estinzione.

In una Scuola asfittica, claustrofobica – una Scuola che parcellizza e impacchetta il processo formativo trasformandolo in una successione di segmenti ed eventi – mi pare importante tentare di inceppare l’ingranaggio. Come?

Ribadendo, in tutte le sedi e attraverso ogni scelta didattica, l’ideale regolatore Made in Veneto: “Nel grando ghe sta anca el picoeo”. E non viceversa.

Nel Piccolo – nelle Uda, nei pacchetti, negli eventi, etc. – non ci sta il Grande. No, il Grande, in quei contesti didattici sfuma, langue, scema. Lo perdiamo, tutti. Chi prova ad insegnare e chi dovrebbe imparare. Ci portiamo a casa una manciata di sabbia al posto di una pietra preziosa: una manciata di competenze al posto di Leopardi (di Pitagora, di Joyce, di x).

Alla luce del mio principio-guida vorrei operare scelte di contenuto, di metodo, di finalità che vadano tutte in questa direzione che mi pare essere contraria rispetto alle attuali, ma non nuove, tendenze pedagogiche e amministrative, tendenze che – consapevolmente o meno – coltivano il Piccolo, promuovono l’Asfittico e l’Angusto: nell’illusoria convinzione di facilitare, supportare, personalizzare l’apprendimento si porgono agli studenti contenuti e strumenti sempre più piccoli, in vista di finalità sempre più strette (a titolo di esempio, ma la scelta dell’esempio non è casuale, la famosa spendibilità).

Ritorno alla conserva perché mi aiuta l’immagine del mestolo grande che correvo a recuperare dopo aver recepito un perentorio “movate!”; lì – nel mestolo grande –  ci poteva stare tutto: se lo colmavi fino all’orlo, ci potevi quasi riempire il vaso da litro; se ti fermavi a metà, il vaso medio; se lo riempivi per un terzo, finiva che il sugo te lo bevevi seduta stante.

Col mestolo grande ci potevi fare tutto, ci poteva stare tutto, potevi cavartela comunque ed evitare pure “ea man roversa” che ti sarebbe arrivata nel caso in cui ti fossi presentato con un mestolo striminzito; il sentimento infuso dal Mestolo Grande era una specie di concordia tra te e il Mondo perché grazie al Grande è possibile affrontare ogni situazione.

Oggi, in barba alla saggezza nonnesca, stiamo andando di gran carriera verso il Piccolo, sempre più Piccolo e il sentimento prevalente è una specie di angustia che da settembre inizia a montare, lievita nel corso dei mesi, fino a diventare quasi intollerabile a fine maggio: angustia per l’insegnante che si affanna a conciliare l’inconciliabile (in una sessantina di ore annuali ci devono stare l’Educazione civica, l’orientamento, l’affettività, i pcto, le uscite didattiche, i progetti di ampliamento dell’offerta formativa…); angustia per gli studenti che si apprestano a chiudere il percorso della Secondaria con una nutrita serie di competenze certificate, ma sempre più spesso non hanno goduto/sofferto la lettura integrale di un saggio, studenti che talvolta non conoscono il significato del verbo “ardere” e spesso non sanno che cos’è un platano. Ma uno può essere un buon cittadino se non sa cos’è un platano? Chissà.

Stanno sparendo i mestoli grandi, a Scuola. Non ci si può più slargare.

Oggi vanno di moda i mestoli piccoli, i misurini millimetrati nella strenua e vana ricerca dell’ottimizzazione degli apprendimenti e del successo formativo (immediato, garantito, certificato).

E così, rivangati i ricordi d’infanzia e condivisi i timori attuali, mi appresto a presentare, con rapide e imprecise pennellate, alcune piste feconde che ho recuperato attraversando il diario didattico di Mario Lodi. Piste, tracce, segnavia che non andrò a declinare in buone pratiche (altra espressione inflazionata, come se da qualche parte potesse esistere un Ricettario della Didattica dal quale attingere) perché sono convinta che ciascun docente – a partire dal suo percorso di studio e di vita, dalla situazione nella quale si trova e dalla disciplina che tenta di insegnare – abbia la capacità e il dovere di provare a slargarse ed a slargare, a modo suo, quell’orizzonte scolastico che rapidamente va chiudendosi in una fessura dalla quale tutti – docenti e studenti – mi sembrano poter scorgere soltanto uno striminzito e già sagomato ritaglio della cosiddetta realtà.

Conversare

“Conversare non è facile, richiede il rispetto di regole che permettono anche ai più timidi di esprimersi ed esige un autocontrollo che all’inizio talvolta sfiora l’insofferenza. Ma conversando il bambino apprende a collegare i fatti per via di illazione seguendo le implicazioni logiche che la sua mente può scoprire e nell’esercizio continuo la sua logica si fa concettuale e si apre verso l’astrazione e la sistematica. Certo, il rodaggio è lungo, i contributi dei ragazzi a volte sono dispersivi e l’educatore deve intervenire per fissare i passaggi essenziali. Ma appunto per queste difficoltà da superare, la conversazione è tra le tecniche educative più efficaci perché sollecita lo sviluppo intellettuale di ciascun ragazzo e dilata la sua personalità nel rapporto sociale.” (IPS, nota a p. 244)

Conversare è difficile: difficile trovare alcuni minuti da dedicare quotidianamente alla conversazione; difficile imparare a percepire nel sottosuolo della conversazione i filoni aurei da far emergere; difficile e faticoso è imparare ad accettare che è necessario passare attraverso quel caleidoscopio logico che solo lentamente produce una visione dinamica della realtà; sempre più difficile, oggi, aiutare bambini e ragazzi a riconoscere e rispettare le regole del gioco-conversazione e, ancor più difficile, risulta allenare all’implicazione logica, allo sviluppo di un pensiero articolato, astratto, sistematico; difficile, infine, accettare il rodaggio lungo che tutto ciò implica. Ma tutte queste difficoltà dovrebbero farci intuire quanto sia importante la conversazione in classe. Insomma, conversare slarga! La conversazione – non il debate, non il brainstorming, non la discussione guidata, non una qualsiasi delle strategie didattiche che presumono a monte, in corso d’opera e a valle di governare e amministrare lo scambio verbale – questa conversazione sciolta, senza scopo, senza una tempistica predeterminata, senza impalcature o reti di salvataggio, questa e solo questa conversazione, almeno una paio di volte a settimana, almeno una volta a settimana può aiutarci a slargare i confini sempre più regolamentati/burocratizzati degli scambi tra studenti e tra studenti e docenti.

Scrivere

Afferma Mario Lodi nel suo Diario didattico:

“(I bambini) Hanno trovato la chiave. La misteriosa realtà della lingua scritta da ora non ha più segreti: diventerà lo strumento personale di comunicazione, parte viva di se stessi, come il sorriso, il grido, lo sguardo.” (p. 54)

E, poco dopo:

“Scrivere è slargare il mondo, scoprire gli altri…” (p. 61)

Moltissimi sono i passaggi dedicati alla scrittura intesa come pratica quotidiana, come forma di disciplina, come messa in forma del pensiero, talvolta come gioco e puro divertimento. La scrittura della quale ci racconta Lodi è una scrittura che molti di noi – lo presumo e lo spero – hanno praticato alle Elementari e, in parte, anche alle Medie quando ancora i primi gradi scolastici si chiamavano così. Una scrittura che, similmente alla conversazione, si presentava senza scopo, non supportata da domande-guida o richieste specifiche (semmai qualche vago e suggestivo “riassumi”, “descrivi” o “racconta”); una scrittura che poneva il bambino/il ragazzo di fronte alla pagina di quaderno come di fronte ad un mare aperto che poteva entusiasmare e/o atterrire.  Lodi racconta una scrittura che, nel tempo (ed è sempre un tempo lungo), viene interiorizzata e diventa parte di sé come un sorriso, un grido e uno sguardo. I nostri bambini/ragazzi praticano ancora la scrittura d’alto mare? Se sì, quanto? In che misura? Coltiviamo questa pratica? Non mi rivolgo soltanto a maestre e maestri, ai docenti di Lettere, mi rivolgo a chiunque lavori a Scuola, a prescindere dalla disciplina che insegna e dal grado scolastico. Perdere la scrittura d’alto mare, la scrittura che slarga mi sembra, oggi, un rischio reale, una calamità che ci riguarda tutti.

Ecco un breve passaggio tratto dallo scambio epistolare tra Gianni Rodari, Mario Lodi e i suoi bambini:

“Ti ringrazio moltissimo dell’invio di «Insieme», nuova serie. Il formato grande, coraggioso, slargato, sa tanto di rivincita sulla mancanza di spazio in classe, o mi sbaglio?”  (IPS, p. 76)

Anche scrivere slarga! Soprattutto se si scrive insieme, se si fatica nella costruzione collettiva di un giornale di classe. L’Insieme a cui si riferisce Rodari è il giornale che la classe di Mario Lodi – ogni bambino della classe protagonista de Il paese sbagliato – dall’anno scolastico 1964-65 all’anno scolastico 1968-69 progetta, compone e stampa con una costanza e un impegno che trasformano  la realizzazione di ogni numero in una vera impresa. Ogni pezzo ha alle spalle un lungo itinerario di lavorazione (studio, ricerca, approfondimento, confronto, composizione e limatura dei pezzi che ci fa dimenticare di avere a che fare con una redazione di bambini). Scrivere slarga il mondo, slarga il sé, slarga i confini della classe che si apre al paese, raggiunge altre città, amici vicini e lontani. Insieme raggiunge anche Gianni Rodari che, ricevuto il primo numero della nuova serie, si entusiasma pure lui anche per via di quel formato grande (grando!), slargato, coraggioso che rivendica e conquista con le sue pagine ampie lo spazio che manca in aula (nelle prime pagine del Diario Lodi si lamenta per le dimensioni ridotte della sua aula e inizia a ripensare la collocazione di banchi, sedie e materiali per riuscire a slargare l’ambiente; divertente e significativo il passaggio dedicato alla pedana che si trasforma in un piccolo palcoscenico sul quale, quasi ogni giorno, i bambini improvvisano piccoli spettacoli, leggono o raccontano ai compagni un episodio importante della loro vita). Insomma, esistono pratiche di scrittura, come la scrittura d’alto mare o la scrittura collettiva, che riescono perfino a spostare i muri dell’aula.

I Luoghi

“Il paese sbagliato” è il titolo di un capitolo del Diario (anno scolastico 1966-67, classe Terza), titolo che poi si slarga – pure lui – e si conquista la copertina. Il paese sbagliato al quale Lodi si riferisce è il paese di Piàdena che i suoi bambini, a partire dalla Prima, hanno iniziato gradualmente a rappresentare su una grande carta appesa alla parete della loro aula. Arrivati in Terza, però, ci si accorge – anzi, è la piccola e perspicace Cosetta ad accorgersene e, nello sgomento generale, ad avvisare tutti – che la rappresentazione del paese è sbagliata, clamorosamente sbagliata: manca il giardino del Comune, manca la piccola piazza che divide la bottega dell’Orsolina dalla Chiesa, non c’è nemmeno lo spazio adatto ad ospitare il Bar del paese. Angelo è sconvolto e preoccupato: “Allora il paese è sbagliato!”.

Ecco Lodi che racconta l’esito della conversazione con la classe e presenta la loro soluzione:

“Il mondo, che avevamo costruito giorno per giorno, con i bei colori puliti e che ora sembrava perfetto, è tutto sbagliato. La conversazione porta ad una decisione: il paese sbagliato lo terremo e lo completeremo, ma ora bisogna disegnarne un altro senza errori, con tutte le misure esatte. Sono tutti d’accordo. Il lavoro mette immediatamente le ali ai piedi, anche perché era stato deciso di misurare con i passi.” (IPS, pp. 170-171)

Misurare il proprio paese contando i passi… suggestione che sarebbe interessante seguire, ma non qui e ora.

Adesso mi interessa mettere in primo piano il tentativo del Maestro che, nei mesi e negli anni che si susseguono, coinvolge la sua classe nell’impresa di portare il paese in classe – nella loro aula striminzita – tutto il paese, Piàdena intero con le sue case, le vie, le botteghe, ma pure i suoi abitanti (compaiono via via il postino, le nonne, il Sindaco, la carovana degli zingari…).

Slargare l’aula, farci entrare la Comunità abbracciata dallo sguardo dei bambini che, un pezzetto alla volta, si impadroniscono delle loro paese, ci camminano attraverso, lo esplorano, lo frequentano assiduamente, senza tralasciare le zone marginali, parlano con tutti e poi, sulla carta, rappresentano il loro mondo nella versione sbagliata per approdare, in seguito, alla versione misurata passo passo. Il lavoro che porta la classe alla realizzazione del “paese giusto” prende velocemente il sopravvento: si aprono discussioni vivacissime sul significato della misurazione, sulle differenti modalità di misurare le cose, ci si chiede si è possibile misurare tutto e poi qualcuno prende il volo: si potrebbe anche progettare una Scuola nuova, non limitarsi soltanto a rappresentare esattamente la Scuola così com’è! Insomma, succede di nuovo che il lettore si chiede: ma questa è davvero una classe Terza delle elementari? Molteplici sono gli effetti positivi di questo lungo lavoro/esperimento che Lodi coordina, ma la sensazione più intensa che ho sperimentato seguendo questo filo – il filo del lavoro sul rapporto con i Luoghi – è la sensazione di allargamento/dilatazione dello spazio dell’aula e della Scuola. Una successione di sensazioni simili che, a lettura terminata, si sono fuse in quel Sentimento del Grando del quale Lodi mi sembra essere, a pieno titolo, un gran maestro.

I Tempi

Apro e dedico una piccola parentesi a Gianni Rodari perché la sua riflessione sul Tempo mi sembra possa aiutarmi ad individuare un modo di trattare la variabile-tempo a Scuola che favorisce, anche in questo caso, il recupero del Grando.

L’amico Rodari, similmente a Mario Lodi, dedica, da maestro e scrittore, numerose energie e riflessioni all’indagine sulla variabile-tempo a Scuola. Qui può bastarci, anche per la sua efficacia narrativa, uno dei personaggi più suggestivi delle Favole al telefono[2], Giovannino Perdigiorno.

Giovannino (insieme ad Alice Cascherina e Giacomo di cristallo) è uno dei miei personaggi preferiti delle Favole; in verità provo per Giovannino una forte ammirazione (miscelata ad una buona dose di invidia) perché lui sbuca fuori in ogni occasione e si comporta come se il Tempo non esistesse o comunque come se per lui non esistessero alcun problema o alcuna limitazione derivanti dal Tempo: averne o non averne a disposizione, che sia troppo presto o troppo tardi per fare qualcosa, fare qualcosa al momento giusto e simili faccende non riguardano affatto Giovannino. Non a caso lui è Giovannino Perdigiorno “gran viaggiatore e famoso esploratore”. Andare a Roma per toccare il naso del Re, scoprire il paese degli uomini di burro o il paese con la Esse davanti sono soltanto alcune delle cose che Giovannino ha la fortuna di fare proprio perché non sembra avere un passato e nemmeno preoccuparsi di un qualche futuro Giovannino è sprofondato nelle sue avventure, gli capitano cose meravigliose proprio perché sembra non aver niente da fare, non avere scadenze, tempistiche da rispettare, ore contate. Giovannino Perdigiorno, anche se non lo sa, è bravissimo a slargare il Tempo.

“Giovannino Perdigiorno era un gran viaggiatore. Viaggia e viaggia, una volta capitò in un paese dove gli spigoli delle case erano rotondi, i tetti non finivano a punta ma con una gobba dolcissima. Lungo la strada correva una siepe di rose e a Giovannino venne lì per lì l’idea di infilarsene una nell’occhiello. Mentre coglieva la rosa faceva molta attenzione a non pungersi con le spine, ma si accorse subito che le spine non pungevano mica, non avevano la punta e parevano di gomma, e facevano il solletico alla mano.”[3]

Se viaggi e cammini senza preoccuparti del tempo che ci vorrà per arrivare da qualche parte, puoi anche imbatterti nel “Paese senza punta” dove i tetti sono dolci colline e le rose fanno il solletico.

E noi? E noi a Scuola? Noi siamo diventati bravissimi ad accorciare l’anno scolastico: spigoli, spine e spilli da tutte le parti. A settembre sappiamo già cosa accadrà a giugno ed ogni mese, ogni settimana, ogni attività didattica ha il suo Monte Ore (me lo immagino con un cocuzzolo appuntito), ogni UDA il suo pacchetto di ore; siamo diventati abilissimi amministratori del Tempo Scuola che si fa sempre più corto, sincopato, che non basta mai, nemmeno quando lo imbottiamo di eventi, incontri, progetti.

In una stagione che oggi avverto lontanissima, l’Anno scolastico mi appariva sterminato: si apriva a settembre dandomi l’impressione di un nastro senza fine, un sentiero avventuroso lungo il quale chissà cosa mi sarebbe capitato di interessante; un sentiero di cui non scorgevo la fine e che io e le mie classi avremmo percorso godendoci il variare del paesaggio, delle stagioni, dei temi e degli umori. E questo sentimento di un Tempo largo, sconfinato caratterizzava non solo l’Anno scolastico nel suo complesso, ma ogni settimana (un viaggio lungo tra il lunedì e il sabato) e ogni ora di lezione: in 50-60 minuti cosa e quanto poteva succedere?

Provare, allora, a vivere l’Anno scolastico, le settimane, ogni singola ora di lezione come se Giovannino mi portasse per mano potrebbe essere una buona idea per cercare di slargare il Tempo Scuola e resistere a tutte quelle modalità, a tutti quei dispositivi che lo sminuzzano, lo affettano, lo impacchettano riducendolo a una manciata di puntine. Altro che solletico…

I Testimoni

Uno dei miei personaggi preferiti del Diario di Mario Lodi, torno a lui, è nonno Agostino. Eccolo qua:

“Fra gli anziani che ci narrano la loro vita, Agostino si è preso subito un posto in primo piano. Falegname, in pensione, settantotto anni, memoria eccellente, ex consigliere comunale e della cooperativa di consumo, conoscitore degli uomini e della natura, per tutta la vita coerente con le sue idee ispirate ad una morale laica che si concreta in partecipazione alla vita sociale, un linguaggio chiaro ed essenziale, questo vecchietto senza figli si è trovato uno stuolo di nipotini che gli frugavano dentro l’anima e gli saccheggiavano la vita. E lui, in mezzo a loro, niente affatto turbato, a portarli per mano in un mondo che pare la favola nella notte dei tempi ed è invece di appena settanta anni fa.” (IPS, p.190)

Agostino slarga; stare con lui – ascoltarlo parlare, guardarlo gesticolare – dilata la percezione del tempo, dei fatti, dei sentimenti. E con Agostino, nel Diario, compaiono altri testimoni: il papà di Anna che viene licenziato, l’indaffarato lattaio Ernesto, il Sindaco di Piàdena, gli operai dell’Officina, nonne e mamme talvolta preoccupate, spesso sfiancate dalla fatica, quasi sempre sagge, maestre controcorrente e, alla fine, lo stesso Mario Lodi che, inaspettatamente, viene intervistato dai suoi bambini. Frequentando Agostino, conversando con lui i bambini imparano che la vita di un uomo, la vita di chiunque sia disposto a raccontarsi è sempre degna di essere considerata e ascoltata con attenzione. I bambini seduti intorno ad Agostino imparano il silenzio, imparano l’ascolto, scoprono il valore dei testimoni, di coloro che ci hanno preceduti e che prestano volto e voce alla Storia: “Non c’è libro suggestivo ed eloquente come la vita di un uomo che racconta la sua vita.” (IPS, p. 195).  Non solo testimoni dei grandi e noti eventi storici (qui la guerra, Prima e Seconda Guerra mondiale, la fa da padrona), ma i testimoni del Lavoro, della Fatica, della Fame, delle Feste, dell’Osteria, della Cascina… Testimoni che sfilano nello spazio angusto dell’aula o che si vanno a cercare laddove vivono, lavorano, soffrono, gioiscono, imprecano, cantano.

Frequentare i testimoni slarga, allarga l’anima di bambini e ragazzi: mentre ascoltano Agostino che racconta la sua storia, i bambini spostano l’attenzione dal proprio Io, dai loro problemi, si allenano a relativizzare la propria posizione, sperimentano il salutare effetto che produce il decentramento del Sé.

Grazie Agostino!

Lo Zecchino d’Oro

Mario Lodi aveva in antipatia Sanremo, ma con lo Zecchino d’Oro si scatena e ci fa davvero divertire, un divertimento amaro, ma pur sempre spassoso.

“… pur non avendo nulla personalmente contro i frati dell’Antoniano che hanno trovato il filone d’oro e lo sfruttano sul mercato, penetrare nella scuola e fare i loro affari scavalcando anche la burocrazia scolastica, di solito così severa e intransigente e cavillosa, mi pare un arbitrio. Si accende la zuffa ideologica. Il collega sagrestano ha argomenti solidi come sempre e ce li sciorina computo. Perché dovremmo essere contro le canzonette? Se facessimo il referendum sarebbero tutti per le canzonette. (…). Mi trovo isolato. Sono tutti per lo Zecchino d’oro. Un collega va a telefonare alla direzione. Torna subito: tutto regolare, la direzione è d’accordo, si fa così dappertutto.” (IPS, p. 445-446)

Subito dopo aver criticato l’invasione degli Antoniani e delle canzonette tocca alle filmine e alle cartoline del formaggino, un alimento pratico e moderno, un formaggio fuso che infonde vigore, alimento ottimo per chi studia. Le filmine del formaggino Milkana, le cartoline della Cirio e del gelato Eldorado arrivate direttamente da Roma come materiale didattico gratuito riescono persino a far innervosire il sempre composto e razionale Tiberio, mentre Angelo è addirittura scandalizzato: “Ma questo è Carosello!”.

“Non sai se ridere o vergognarti di una scuola che elemosina contributi agli industriali per fingere di dotare se stessa di sussidi e non ha la dignità di chiedere che non sia saccheggiato il patrimonio della cultura. Consegnano agli industriali i bambini per farne dei consumatori. E lasciano che gli industriali controllino che le filmine vengano proiettate…” (IPS, p. 227-448)

Il maestro interromperà la visione delle filmine annotando le sue considerazioni critiche direttamente sul questionario ricevuto e ritirerà la sua collaborazione per la festa di fine anno con le canzonette dello Zecchino d’Oro (lasciando liberi i bambini di andarci o meno). Struggente il dialogo tra Mario Lodi e Lorena; i due si parlano prima della festa della mamma durante la quale lei canterà (Lorena è l’alunna più portata per il canto della sua classe e che, nel tempo, Lodi ha visto crescere e improvvisare meravigliosi canti liberi). L’esibizione di Lorena è la più attesa, il culmine della festa:

“- Sei felice quando canti là?

– Sì.

– Puoi farmi una confidenza?

– Sì.

– Quando inventi provi la stessa sensazione di quando canti le canzonette create da altri?

– A inventare è più bello. Però quando canto le canzonette ci sono gli applausi e tanta gente come nella televisione e allora…

– Tu sai che io non ti impedisco di fare scelte libere.

– Lo so. Ma io i canti liberi li farò sempre.

– Tu hai un talento raro, lo sai?

Sorride un po’ incredula.

– Nelle situazioni in cui gli altri piangono o ridono o si arrabbiano, tu inventi parole e musica e canti quel che senti, subito. Pochi lo sanno fare. Quel che invece vai a fare alle feste lo sanno fare tanti e anche meglio di te.

– Viene a sentire? – mi chiede con un irresistibile sorriso.

– Certo che verrò. Verrò ad ascoltarti.

Ride felice. Dentro è come se mi scricchiolasse qualcosa. Come una diga che cede.” (IPS, p. 449)

Lodi ha combattuto contro le filmine del formaggino, le cartoline dell’Eldorado, le canzonette dello Zecchino, i libri di testo non adeguati, Don Palmiro che ha intitolato la festa di fine anno “Allegria!” scimmiottando il Mike televisivo; si è opposto a tutte quelle ingerenze che, a suo avviso, avrebbero reso la Scuola meno Scuola, più angusta, una Scuola sempre più occupata dalle esigenze di altri mondi, soprattutto dalle esigenze produttive del mercato.

Il 7 giugno 1969 Lorena, con la sua gonna larga ed elegante, la gonna da festa, si appresta a cantare al festival “Allegria!”, è lei il jolly della serata:

“In piedi, in fondo alla sala, io la rivedo quando a sei anni, davanti alla pittura dei suoi compagni inventa il canto della Luna rotonda e, vai via, in momenti irripetibili di felicità creativa, mentre dona a noi gli altri canti liberi che conservo nella memoria con la freschezza dell’attimo in cui sono nati. Ora eccola lì, davanti a un pubblico ignaro dello scempio, che canta parole e musiche non sue al ritmo di quella testa di prete che le indica ogni passo e ogni gesto. (…). Torno a casa con una grande tristezza dentro e mi ascolto i nastri di Lorena nel silenzio della notte. Ho l’impressione che sia stato compiuto un delitto. Penso a quanti delitti simili si compiono nella scuola organizzatrice di consenso al sistema, o meglio della coercizione dell’assenso. Suo fine non è l’uomo felice. Difendere l’uomo significa mettersi dalla sua parte e rifare la scuola e sistema e tutto.” (IPS, p. 468-469)

Chiunque lavori a scuola, oggi, e non tenga gli occhi chiusi sa benissimo che Mike e Don Palmiro non ci sono più, che il formaggino non va più di moda e l’Eldorado è un sogno lontano… altri e più potenti imbonitori ci mettono a disposizione innovativi kit didattici, altri compongono canzonette che spingeranno una contemporanea Lorena ad accantonare i suoi canti liberi ed a cantare melodie e parole composte altrove, da qualcun altro. Qualcosa scricchiola, come una diga che cede anche dentro di me.

Lettera a Katia

Chiudo questa breve rassegna ricordando che Il Paese sbagliato è il diario/resoconto di un’esperienza didattica che il maestro Mario Lodi scrive per Katia; il diario, infatti, si apre e si chiude con una lettera indirizzata a Katia (la prima datata Vho, 2 ottobre 1969, ore 23 e l’ultima datata Piàdena, 2 ottobre 1970).

La prima lettera è rivolta ad una Katia che ha deciso di diventare maestra, l’ultima è rivolta alla Katia diventata maestra, una giovane che ha condiviso con Lodi le sue inquietudini, la fatica, il timore che il loro lavoro sia senza speranze. Nella lettera finale Lodi risponde alla giovane Katia ricordando che il lavoro educativo, affinché abbia qualche speranza di riuscita, deve integrarsi con l’impegno civile; l’ultima lettera è, ancora una volta, un tentativo di slargare: da una generazione di maestri alla successiva, dall’impegno nella Scuola all’impegno civile e sociale (non è il caso, qui, di approfondire la storia di Mario Lodi e del Movimento di Cooperazione Educativa). Slargare è difficile e si può fare meglio se ci si prova insieme, unendo le forze, cercando di agire in favore del Grando e, contemporaneamente, dando battaglia a quel Picoeo che tutti, docenti e studenti di ogni età, mi pare ci tolga l’aria.

Mario Lodi a Katia:

“Quando vieni, ascoltiamo insieme i nastri delle prime assemblee. Meglio se vieni un giorno che ce n’è una, così ci andiamo. Ti aspetto presto.

Mario” (IPS, p. 471)


[1]     Mario Lodi, Il paese sbagliato. Diario di un’esperienza didattica, Einaudi – Nuovo Politecnico, Torino 1970 (d’ora in poi IPS)

[2]     Gianni Rodari, Favole al telefono, Einaudi Ragazzi, Torino 2020 (edizione illustrata da Bruno Munari).

[3]     Favole al telefono, Il Paese senza punta, p. 25.

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