I paradossi dell’orientamento narrativo
Orientamento o disorientamento?
Per un paradosso singolare, alcuni ragionamenti sviluppati per sostenere la necessità dell’introduzione nel sistema scolastico del cosiddetto orientamento sembrano produrre in chi legge un senso di forte disorientamento. Se non volessimo credere all’onestà intellettuale di chi li propone, penseremmo che anziché a fare chiarezza puntino ad alimentare la confusione. Leggendo ad esempio il pur interessante articolo di Massimo Margottini, “Il futuro non è più quello di una volta”, pubblicato sul numero 26/2024 della rivista “La ricerca”, ci troviamo di fronte a una curiosa mescolanza di questioni tra loro piuttosto eterogenee: un’apparente critica del neoliberismo; il richiamo all’idea del mismatching, che dell’ideologia neoliberista è un caposaldo; la curvatura di tale idea in senso esistenziale («fenomeni quali il mismatch, il disallineamento tra domanda e offerta di lavoro, conoscono oggi nuove dimensioni che vanno ben oltre la richiesta di nuove competenze professionali e che investono dimensioni esistenziali, di senso e prospettiva nella vita delle persone»); il fenomeno dei NEET; la retorica anti-psicologica delle life skills e del lifelong learning, che dell’ideologia neoliberista sono altri capisaldi («l’approdo arriva al termine di una ben più lunga navigazione, che ha visto convergere gli esiti di ricerche provenienti da ambiti disciplinari diversi — psicologico, sociologico, pedagogico, economico — verso modelli che pongono al centro l’empowerment della persona in una prospettiva life long learning»); l’e-portfolio, «strumento di straordinaria valenza orientativa»; il richiamo a una legislazione scolastica sull’orientamento post-autonomia scolastica per dimostrare, in modo circolare, la necessità dell’orientamento così come viene previsto dalla legislazione stessa e darne per scontata la positività; la volontà di istituzionalizzare e rendere prevedibile una certa pratica dell’orientamento narrativo («ma la funzione orientatrice del portfolio è diversa, si basa sulla possibilità di ricostruire, attraverso il dispositivo narrativo, il proprio vissuto reinterpretandolo continuamente al fine di “orientarsi”, dare senso e prospettiva alle azioni del presente e autodeterminare il proprio futuro»).
Vorrei soffermarmi in particolare proprio sulla questione dell’orientamento narrativo, partendo da qualche breve cenno sul rapporto che lega letteratura, scuola e vita.
La letteratura e la crescita
Da millenni gli esseri umani cercano di conoscere sé stessi e il mondo attraverso le parole dei libri e la narrazione delle vicende accadute a personaggi fittizi o reali: si scrivono e si leggono poesie, romanzi, racconti e altro proprio per le possibilità di scoperta, di rispecchiamento nelle vicende e nelle idee altrui, di risonanza interiore che essi offrono. Al contempo un’opportuna didattica della letteratura, che non sia mera lettura “sentimentale” dei testi, consente anche un parziale distanziamento da quelle stesse vicende e una rielaborazione più consapevole delle proprie emozioni.
Ancora oggi è fondamentale che gli insegnanti riescano a far conoscere agli studenti — che vivono le incertezze di continue trasformazioni e riadattamenti di sé richiesti dalla crescita — le storie, le idee, le immagini, i sentimenti che la letteratura veicola: il contatto con le parole e le vite degli altri dà spessore alla propria esperienza, altrimenti irrelata e priva di confronti possibili con le esistenze altrui, anche lontane nel tempo, e il lavoro vivo dell’interpretazione, guidato dall’insegnante, fa sì che nella ricchezza della letteratura, nel suo spessore esistenziale e storico, i giovanissimi possano trovare indispensabili occasioni di pensiero e di confronto democratico.
Per fare un esempio tra gli innumerevoli possibili, chi insegna letteratura sa cosa accade quando si lavora insieme su alcuni passi — che certo vanno adeguatamente contestualizzati — dell’Inferno dantesco, apparentemente lontanissimi dalla realtà quotidiana vissuta dai nostri studenti: lo smarrimento nella selva, il primo emozionante risuonare della voce e del nome di Beatrice attraverso il racconto di Virgilio («l’amico mio, e non de la ventura», «i’son Beatrice che ti faccio andare») o il momento delicatissimo in due cui due innamorati rivelano a se stessi e all’altro, in un «punto» solo, il proprio sentimento (e, ovviamente, «la bocca mi basciò tutto tremante»), in quel canto quinto che apre sempre grandi discussioni con gli studenti: come si capisce di essere innamorati? E in che modo ci si può dichiarare all’altro, superando la paura di essere respinti? Ma poi, oltre il momento fondamentale dell’identificazione, la contestualizzazione fa comprendere agli studenti non solo la distanza storica che separa la vicenda di Paolo e Francesca dal presente, ma anche il senso che questo racconto prende all’interno dell’itinerario dantesco, come ripensamento critico di una concezione totalizzante dell’amore terreno che era stata condivisa anche dal giovane Dante e come condanna della fascinazione fuorviante e potenzialmente distruttiva esercitata dalla letteratura erotico-cavalleresca. Proprio all’interno del rifiuto dantesco di una concezione dell’amore terreno come esperienza totalizzante si consuma probabilmente la rottura con Guido Cavalcanti (si veda un’accurata ricostruzione della vicenda in Noemi Ghetti, L’ombra di Cavalcanti e Dante, Roma, L’Asino d’oro edizioni, 2010). Inutile dire che anche il racconto di questa rottura — che riverbera i suoi effetti sulla Commedia, con lo stupefacente episodio dell’incontro di Dante con Cavalcante Cavalcanti — interseca un altro tema di grande interesse per gli adolescenti, che è quello dell’amicizia e delle sue crisi (rientrano in questo ambito anche i sonetti della “tenzone” tra Dante e Forese Donati, che suscitano spesso la divertita curiosità degli studenti).
Si pensi poi al canto delle trasformazioni, con la prodigiosa capacità di Dante di descrivere il «mutare e trasmutare» dei corpi dei ladri, la doppia trasformazione minuziosamente descritta dell’uomo in serpente e del serpente in uomo e la fusione di due corpi in uno («quando n’apparver due figure miste/ in una faccia, ov’eran due perduti»), una descrizione sempre di grande impatto sugli adolescenti, che di trasformazioni del corpo e di senso di smarrimento di sé e della propria identità se ne intendono. Così per l’apparizione di Bertram del Bornio, che tiene in mano la propria testa separata dal tronco, o la rivelazione che un’anima può essere già all’inferno mentre il suo corpo cammina ancora sulla terra («e mangia e bee e dorme e veste panni»).
Non si tratta naturalmente solo di suggestioni ma di un’esperienza che mette insieme, tanto negli insegnanti quanto negli studenti, nel loro continuo relazionarsi attraverso la parola, la verifica razionale delle ipotesi e delle idee, il piano affettivo ed emozionale, la capacità di immaginare, e la capacità di riconoscere anche l’alterità dei dispositivi letterari. È difficile sopravvalutare l’importanza e i benefici del lavoro dell’interpretazione minuziosa di brani letterari nelle classi, chiamate a diventare delle vere e proprie comunità ermeneutiche. Ho provato a darne qui un esempio più dettagliato, partendo da un testo capitale di Baudelaire.
La narrazione come attribuzione di senso, la letteratura come scuola di umanità
La narrazione è la modalità specificamente umana di dare un senso all’esistente: lo spiega Paul Ricoeur nel monumentale Tempo e racconto. Sull’argomento ha scritto pagine molto belle anche Anna Angelucci, nel libro Le due educazioni: insegnare lingua e letteratura a scuola: «Mondi fittizi e immaginari che tuttavia interagiscono e modificano costantemente quello, concreto, in cui siamo immersi. Creiamo continuamente narrazioni con cui contribuiamo a dare senso e forma alla vita, e non solo alla nostra; a comprendere il mondo che ci circonda, quello che edifichiamo, giorno dopo giorno, dentro di noi, trascorrendo “gran parte della nostra giornata e anche della notte sognando, cioè inventando storie e ipotizzando scenari controfattuali di vario tipo” […]. Le nostre narrazioni contribuiscono potentemente a determinare le nostre esistenze. […] È in virtù di questa capacità/ necessità di formulazione e condivisione di significati profondi che sono nati i miti, i testi sacri, le fiabe, la letteratura, perché, ribadiamo, “che cosa è la letteratura se non uno dei massimi sforzi messi in atto dall’uomo di dare un senso alle cose per comunicarle?”. Una faticosa, ma straordinariamente fertile, ricerca di significato. Davvero un modo per sconfiggere la morte e per celebrare la vita oltre il bios» (Anna Angelucci, Le due educazioni, Roma, Giovanni Fioriti editore, 2022, pp.67-69 [passim]).
Vale allora la pena di ricordare anche la celebre affermazione di Tzvedan Todorov, riportata da Romano Luperini nel libro Insegnare la letteratura oggi, indispensabile a chiunque si occupi dell’argomento: «Essendo oggetto della letteratura la stessa condizione umana, chi la legge e la comprende non diventerà un esperto di analisi letteraria, ma un conoscitore dell’essere umano». E ancora Luperini: «Attraverso l’educazione letteraria il giovane può acquisire tre grandi capacità: la capacità cognitiva, come allargamento e approfondimento delle conoscenze specifiche della disciplina e delle conoscenze linguistiche e culturali che si ottengono dalla fitta rete di interferenze che presiede all’atto della lettura e dell’interpretazione; la capacità immaginativa, come arricchimento esistenziale, emotivo e culturale prodotto dal contatto con quel grande serbatoio dell’immaginario che è la letteratura; la capacità critica, come educazione alla complessità e alla problematicità del momento ermeneutico, alla parzialità e al carattere interdialogico di ogni verità e alla dialettica democratica del conflitto delle interpretazioni».
D’altra parte già trent’anni fa uno psicologo socialmente impegnato come Luigi De Marchi proponeva di impostare l’educazione affettiva e sessuale dei giovanissimi sulla lettura di pagine della grande letteratura che avessero al centro l’emozione amorosa e l’eros, lettura da portare avanti nelle scuole con una contestualizzazione minima, un breve commento, un lavoro di interpretazione e delle riflessioni libere per ogni brano (Luigi De Marchi, Poesia del desiderio, Firenze, La Nuova Italia, 1992). Difficile spiegare oggi, in un contesto culturale, sociale e scolastico completamente mutato, la non-costrittività di questa operazione, volta a nutrire l’immaginazione e i sentimenti dei giovanissimi con l’accompagnamento sapiente e discreto degli adulti, senza prefigurare un punto d’arrivo. Pur discutibile per alcuni aspetti, ad esempio un’eccessiva decontestualizzazione dei brani proposti (quasi da bella pagina crocianamente intesa, anche se De Marchi non si proponeva in alcun modo una sostituzione, “trasversale” ante-litteram, della specificità dell’educazione letteraria), l’idea così declinata di praticare un’educazione sessuale attraverso le emozioni della letteratura era preziosa perché presupponeva negli insegnanti l’esistenza di qualità fondamentali in ogni relazione educativa: la delicatezza, il rispetto dell’interiorità altrui, il senso del limite.
L’«orientamento narrativo» e le life skills
Ora, con un rovesciamento paradossale, si presenta come novità rivoluzionaria l’«orientamento narrativo». Nonostante l’alone accattivante della definizione, non sembra che si tratti del ruolo che la letteratura ha sempre, quello di dare senso all’esistente, aiutare a immaginare e a pensare liberamente la realtà e sé stessi attraverso il racconto. Dalle definizioni che se ne leggono e che sono state in parte richiamate in premessa, sembra si tratti di operazioni di altra natura. In primo luogo, l’uso della narrazione sembra essere pretestuoso, strumentale e riduttivo, nella misura in cui si prefigge di far sviluppare determinate life skills decise a priori (che poi finiscono sempre per coincidere all’incirca con le «competenze chiave» imposte da istituzioni economiche al mondo della scuola o con quelle «non cognitive» della recente sperimentazione italiana), un tutto-previsto cui lo studente dovrebbe semplicemente adeguarsi, anche negli aspetti più intimi di sé. La letteratura, da massima espressione di libertà, rischia di trasformarsi in una forma potenzialmente totalitaria di controllo — chiamata con innumerevoli ambiguità concettuali «orientamento» — che apprendisti stregoni, senza avere nessuna preparazione psicologica, vorrebbero esercitare sulla personalità degli studenti. Per giustificare tutto questo, viene formulato un ridondante quanto vacuo apparato teorico di ispirazione anglosassone, che mette insieme l’ideologia economicistica delle «competenze» e una pratica dilettantesca di counseling, che ignora ogni seria psicologia dell’età evolutiva e che rischia di produrre gravi danni alle persone in crescita.
Anche su una rivista come “La ricerca”, che sembra aver fatto dell’orientamento un cardine della propria proposta culturale, vengono riportate considerazioni piuttosto discutibili, di area culturale anglo-americana, su quella che si presenta come «terapia narrativa».
«La terapia narrativa si focalizza sulla rielaborazione delle narrazioni personali delle persone negative o limitanti, riscritte in modo da evidenziare i propri punti di forza e la propria resilienza [corsivo mio]. In altre parole, la terapia narrativa mira a guidare le persone a reinterpretare le loro esperienze in modo più positivo e costruttivo, consentendo loro di affrontare i problemi in modo più efficace e di sviluppare una prospettiva più ottimistica sulla loro vita.
Il consulente metterà in evidenza gli aspetti della narrazione trascurati dell’alunno, che spesso sono stati oscurati o ignorati dalla narrazione dominante e che diventeranno il punto di partenza per creare o migliorare una nuova narrazione. Questo permetterà al ragazzo di allontanarsi dal passato e di avvicinarsi alla persona che desidera diventare. Il consulente terapeutico accompagna lo studente in questo viaggio, aiutandolo a comprendere e a dare forma alla sua nuova storia, in un modo che rispecchi i suoi valori, obiettivi e aspirazioni».
Come si vede, c’è grande confusione anche lessicale tra «terapeuta» e «consulente» (e chissà qual è lo spazio riservato in questo contesto all’insegnante). Per fortuna nel nostro Paese ci sono dei vincoli legislativi che impediscono l’improvvisazione in campo psicologico e l’esercizio abusivo della professione. A rigore, ogni volta che il counseling pretenda di entrare a livello professionale nelle questioni di personalità (e sembra difficile che possa non farlo), a praticarlo possono essere soltanto lo psicologo e lo psicoterapeuta.
In secondo luogo questa prospettiva di orientamento, che dovrebbe essere precocemente impostata già dai primi ordini di scuola, sembra voler incasellare il racconto di sé in un curriculum para-aziendalistico (con tanto di e-portfolio e capolavoro finale) che consenta l’inserimento da risorsa umana precaria e adattabile in una realtà data a priori, grazie alla presunta acquisizione delle competenze standardizzate desiderabili nell’attuale assetto socio-economico. Sulla stessa rivista cui si faceva cenno, si leggono frasi come: «La didattica si delinea come didattica orientativa, come uno strumento di empowerment dell’individuo […] La/ lo studente è implicata/o in un processo di decision making costante» ecc.
E ancora su “La ricerca”, Simone Giusti chiarisce che l’orientamento narrativo è una «metodologia di orientamento formativo che si può collocare nell’ambito dei metodi qualitativi, non direttivi, centrati sull’utente [corsivo mio]. Uno degli assunti alla base della metodologia è la convinzione che ciascun essere umano, se adeguatamente supportato (se gli si consente, cioè, di sviluppare le competenze necessarie alla redazione della “sceneggiatura” del proprio futuro [corsivo mio]), è in grado di governare e gestire la propria esistenza, di essere autore e interprete del “romanzo” della propria vita». Un simile approccio sembra favorire uno scivolamento insidioso della didattica da aiuto a crescere attraverso un lavoro sulle conoscenze libero e non immediatamente finalizzato sul piano pratico, nell’ambito di una socialità fatta di dialogo intergenerazionale e tra pari, a una pratica ispirata a un’illusoria e quanto paradossale autodeterminazione eterodiretta, che dovrebbe portare all’affermazione individualistica di un sé-monade (utente e non persona inserita in un contesto sociale) che comincia e finisce in sé stesso.
La filosofia dell’orientamento e l’isolamento dell’individuo
D’altra parte, tutta la filosofia dell’orientamento sembra puntare alla riduzione progressiva della funzione dell’insegnante, colui o colei cioè che apre agli studenti orizzonti conoscitivi nuovi e imprevisti, inattingibili senza l’intervento dell’Altro. Tautologicamente, non si può desiderare di conoscere ciò di cui si ignora anche l’esistenza. Illuminante a questo proposito il pensiero di Gert Biesta: «Se sostituiamo l’insegnamento-come-controllo con una presunta libertà di significazione, in realtà non facciamo altro che rafforzare la non-libertà dei nostri studenti: negli atti di significazione gli studenti rimangono con se stessi e ritornano sempre a se stessi, senza mai arrivare al mondo, senza mai raggiungere la (loro) soggettività. Si inizia così a delineare un approccio non egologico all’insegnamento, un approccio che non mira a rafforzare l’Io, ma a interrompere l’oggetto-io, a volgerlo verso il mondo, in modo che possa diventare un soggetto-sé». E ancora Biesta: «La domanda che non viene mai posta è se l’ambiente a cui il sé sta cercando di adattarsi sia un ambiente a cui ci si dovrebbe adattare, un ambiente a cui valga la pena adattarsi. Il sé — e forse dovremmo dire il sé adattabile e adattivo — non può mai generare, da solo, un criterio con cui valutare ciò a cui si sta adeguando. È quindi preso, in quanto “oggetto”, da ciò a cui si sta adeguando, un problema che ho cercato di esemplificare servendomi dell’immagine del robot aspirapolvere» (Gert J.J. Biesta, Riscoprire l’insegnamento, Milano, Cortina, 2022, p.77).
Questo criterio non può che essere quello della cultura e della conoscenza, nel loro carattere intersoggettivo e nel distanziamento prospettico che consentono, attraverso il pensiero, rispetto all’adesione immediata alla realtà, senza le quali non esiste possibilità di sviluppare alcun senso critico: resta solo l’adeguamento passivo all’esistente, che sia chiamato o meno «orientamento». La letteratura, in particolare, dovrebbe abituare a pensare, a immaginare, a sentire, non certo incasellare dentro life skills scelte chissà da chi. A tale proposito, occorrerebbe una riflessione sul supporto dato a realtà riconducibili al mondo economico, come la Fondazione San Paolo, a questa idea dell’orientamento; e fa riflettere il fatto che secondo una linea di pensiero che può essere definita neoliberista la pedagogia dovrebbe adottare ancora di più il linguaggio dell’economia, tanto che dopo capitale umano si azzardano definizioni che sfiorano il limite dell’assurdo, come mismatching esistenziale, che anche nel campo del disagio giovanile vogliono sostituire le parole dell’educazione e della psicologia con quelle di un monismo ideologico di stampo economicistico apparentemente privo di spiragli. Ma questo è un argomento che richiede approfondimenti specifici che non possono essere compiuti qui.
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G.B. Palumbo Editore
Per cominciare ringrazio Luca Malgioglio per l’ennesimo contributo illuminate e che condivido parola per parola. Credo inoltre che molti miei colleghi (di Lettere, ma non solo) potrebbero riconoscersi nello spirito complessivo del pezzo che mi premurerò di diffondere affinché, durante l’anno scolastico, quando ci ritroveremo ancora ad affrontare in Collegio Docenti o nei Consigli di Classe il tema-orientamento, ci si possa ricordare di tutte le questioni spinose che Malgioglio riprende e affronta qui e, magari, agire di conseguenza cercando di limitare – almeno limitare – le assurdità, le contraddizioni, lo spreco di tempo ed energie nostre e degli studenti. Concludo condividendo questa riflessione: quanto Malgioglio sostiene rispetto al valore orientativo della Letteratura, si potrebbe sostenere rispetto a tutte le discipline, certo, a seconda della natura e del valore specifico di ciascuna. Immagino una/un collega di Matematica, di Storia dell’Arte, di Filosofia, di Lingua Inglese, etc. che – sulla scia di questo pezzo – possa comporne uno attraverso il quale esplicita l’intrinseca funzione orientativa della Disciplina che insegna (dati i tempi, occorre esplicitare l’ovvio). Ne uscirebbe, credo, un bellissimo mosaico da contrapporre all’orizzonte delineato dalle ultime Linee Guida per l’Orientamento e incarnato dalla piattaforma Unica. Grazie ancora.
Martina Bastianello, ti ringrazio moltissimo. L’operazione culturale di cui parli – mostrare l’intrinseco valore orientante delle discipline – è sempre più indispensabile. Ripropongo qui il tuo bellissimo e illuminante articolo (https://laletteraturaenoi.it/2024/06/03/aut-aut-orientare-o-orientarsi/) e segnalo il tentativo di schiacciare anche lo spessore umano, storico e culturale della filosofia su un “orientamento” che diventa “counseling filosofico” per lo sviluppo delle “life skills” (cfr. https://laricerca.loescher.it/il-counseling-filosofico-una-strategia-metodologica-per-lorientamento-formativo/ )
Grazie.
Trovo molto stimolanti le sue puntualizzazioni e le sue proposte.
Pur avendo seguito un master in orientamento narrativo capisco benissimo le sue perplessità che a volte sono state anche le mie.
Soprattutto ho colto spesso una notevole distanza tra quanto affermato in maniera teorica e gli strumenti poi forniti agli studenti (e ai docenti) che mi sono sempre parsi semplicistici e poco utili nonché del tutto simili a mille altri che di trovano su ogni libro scolastico.
Detto questo a me piace quello che sostiene Marta Nussbaum cioè che, nell’epoca della complessità e delle relazioni a distanza fra individui di sistemi culturali anche molto diversi, sia necessaria una dote definita “immaginazione narrativa” una sorta di empatia che si ottiene solo dalle storie degli altri, dal loro ascolto e condivisione; essa si ottiene attraverso esperienze empatiche consentite sola dalla letteratura e dalle arti in genere. L’autrice si spinge a sostenere che “la ricerca di tale empatia è parte essenziale delle migliori condizioni di educazione alla democrazia sia nel mondo occidentale che orientale” (Nussbaum, 2013, pag. 111). Ecco questo credo abbia molto a che vedere sia con la letteratura che con “l’orientamento” inteso come viaggio dentro di sé passando però per gli strumenti contestualizzati nel mondo.
Grazie mille.