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diretto da Romano Luperini

Corrispondenze o competenze? La classe come comunità interpretante

Premessa

Come qualunque insegnante sa bene, la lezione non può essere un’attività volta a far raggiungere agli studenti delle competenze stabilite integralmente a priori, ritagliate in modo rigido e in astratto dalla realtà dei processi mentali, senza sapere come la classe risponderà alle sollecitazioni e quali sollecitazioni a sua volta produrrà; è invece qualcosa di concreto, vivo e organico, si nutre dell’attenzione ai dettagli, delle parole con cui degli esseri umani entrano in relazione tra loro, del dipanarsi dialogico del pensiero e delle singolarità difficilmente ripetibili che è capace di produrre. È questo continuo lavoro corpo a corpo sulle conoscenze che nutre l’intelligenza di chi impara e di chi insegna.

Vediamo cosa succede quando, anziché recitare un formulario astratto — come, fra i tanti: «Questo libro non è solo un libro. Fa parte di un progetto per imparare tutti, nessuno escluso. E per imparare insieme, in modo cooperativo, a partire dalla realtà che ci circonda. Costruendo le competenze necessarie a essere cittadini consapevoli. Un progetto per imparare a 360°» (dall’introduzione di un manuale scolastico) — si prova a proporre una poesia di Baudelaire come Corrispondenze a una classe quinta di un istituto tecnico. 

Contestualizzazione

L’insegnante, preliminarmente, ha introdotto il concetto di Simbolismo, di cui Baudelaire può essere considerato il precursore e Corrispondenze una sorta di manifesto; la contestualizzazione storico-letteraria si è incentrata in particolare sulla questione di come i letterati, nella seconda metà dell’Ottocento, reagiscano all’affermazione di una società borghese che attribuisce valore soprattutto alle realizzazioni pratiche, concrete, utili, legate a un’idea già positivistica di progresso; un mondo rispetto al quale la letteratura rischia di essere percepita come inutile e superflua. La reazione dei letterati di fronte al rischio percepito della propria inutilità, per dirlo con una sintesi estremamente schematica, può incanalarsi in due direzioni: quella del Naturalismo, che tenta di fare della letteratura stessa una scienza socialmente utile; e quella, appunto, del Simbolismo, fondata sul rifiuto della mentalità pratica borghese in nome di verità più profonde. È in questa seconda direzione che Baudelaire, con le contraddizioni e le ibridazioni che caratterizzano sempre la grande letteratura, indirizza la poesia francese ed europea della seconda metà dell’Ottocento.

Sempre come lavoro preliminare, viene discussa in classe la nozione di simbolo, un’immagine che allude a significati misteriosi nascosti dietro il livello denotativo delle parole, aperti e non riconducibili a un’interpretazione univoca; viene anche ricordata la differenza tra simbolo e allegoria, il cui significato è nascosto ma preciso, individuabile con esattezza se a livello testuale o extratestuale ne venga fornita la chiave (1). 

Baudelaire e Praga: un confronto

Perché il discorso non rimanga astratto, si mostra come operi un linguaggio poetico fondato sulla connotazione rispetto a un linguaggio logico e fin troppo razionale: la mancata comprensione della poesia di Baudelaire da parte di autori coevi del nostro Paese, che pure a lui credono di ispirarsi, rappresenta un buon esempio in tal senso. Viene proposto un confronto tra la poesia baudelairiana Remords posthume (ne Les fleurs du mal del 1857) e la riproposizione degli stessi temi da parte di Emilio Praga nella poesia Vendetta postuma, dalla raccolta Penombre (1864), nella quale sono presenti numerosissime riprese baudelairiane: ne risulta una sorta di parodia involontaria fondata sulla mancata comprensione di ciò che più caratterizza il linguaggio baudelairiano, la capacità cioè di caricare ogni parola di un alone di allusività e di non detto. Possiamo anticipare alla classe che questa mancata comprensione della rivoluzione analogica della poesia francese è probabilmente legata anche alle caratteristiche specifiche del linguaggio letterario medio di una nazione di recentissima formazione e ancora lontana, dal punto di vista dello sviluppo socio-economico, come di quello linguistico, dalla modernità europea, e in particolare francese. La rivoluzione analogica del linguaggio poetico, infatti, notava già Giacomo Debenedetti, arriverà in Italia soprattutto con Pascoli. 

Le poesie Remords posthume e Vendetta postuma, su cui è stata condotta la prima parte dell’attività, vengono riportate in appendice. Tanto per dare un’idea del lavoro che si è svolto in classe, si confrontino alcune immagini — rispettivamente — di Baudelaire e di Praga: ecco che l’attacco «Lorsque tu dormiras, ma belle ténébreuse» diventa in Praga «Quando sarai nel freddo monumento/ Immobile e stecchita»; i bellissimi versi «Quand la pierre, opprimant ta poitrine peureuse/ Et tes flancs qu’assouplit un charmant nonchaloir/ Empêchera ton coeur de battre et de vouloir,/ Et tes pieds de courir leur course aventureuse» spariscono nel testo di Praga, sostituiti da un imbarazzante «Se ti resta nel cranio un sentimento/ Di questa vita,/ Ripenserai l’alcova e il letticciuolo/ Dei nostri lunghi amori,/ Quand’io portava al tuo dolce lenzuolo [!]/ Carezze e fiori». Ma la differenza tra un linguaggio analogico ed evocativo e un linguaggio in cui tutto è esplicito e privo di suggestione è ancor più evidente nei versi finali: «Le tombeau, confident de mon rêve infini/ (Car le tombeau toujours comprendra le poète),/ Durant ces grandes nuits d’où le somme est banni,/ Te dira: «Que vous sert, courtisane imparfaite,/ De n’avoir pas connu ce que pleurent les morts?»/- Et le ver rongera ta peau comme un remords». Sono  immagini estremamente suggestive e inspiegabili razionalmente: in che senso la tomba è “confidente” del “sogno infinito” del poeta? Di che “sogno” si tratta? E perché il sogno stesso “comprenderà sempre” il poeta (ci aspetteremmo l’opposto: e vedremo che un rovesciamento simile è presente anche in Corrispondenze)? Cosa sono le “grandi notti” da cui il sonno è bandito? E la donna è “cortigiana imperfetta” forse perché della cortigiana che vorrebbe essere le manca l’insensibilità? E cos’è che la donna non ha conosciuto, di ciò per cui i morti piangono? Infine da notare l’inversione finale tra astratto (“rimorso”) e concreto (“verme”), come se fosse il primo a spiegare nella similitudine il secondo, e non il contrario, come ci si aspetterebbe… In sintesi, l’interpretazione della poesia di Baudelaire non può che rimanere aperta, a causa delle caratteristiche stesse del suo linguaggio poetico. Nella poesia di Praga tutto è detto, esplicito, fino all’immagine conclusiva degna di un film splatter («E allora sentirai l’onda dei vermi/ Salir nel tenebrore,/ E colla gioia di affamati infermi/ Morderti il cuore»).

Interpretare insieme

Dopo questo confronto, leggiamo in classe la poesia Corrispondenze (anch’essa riportata in appendice), nella traduzione che ne dà Luigi De Nardis, con i necessari correttivi. La questione della traduzione, come vedremo, si ripresenterà più volte.

«La Natura è un tempio… Allora, che vuol dire che la natura è un tempio?».

«Vuol dire… è un simbolo».

«Cioè?».

«Un simbolo è un’immagine che nasconde qualcosa…».

«Intendi qualcosa di preciso, Giovanni?».

«No, dipende da chi legge…».

«Quindi può voler dire qualunque cosa?».

«No, però…».

«Cos’è che non può voler dire?».

«Forse se si parla della natura come un tempio non si può dire che è una casa…».

«Già, secondo voi che differenza c’è tra un tempio e una casa?».

«Il tempio è più misterioso».

«E a proposito, possiamo dire che, se la realtà è un mistero, il simbolo suggerisce qualcosa di questo mistero senza spiegarlo? Vi ricordate come si chiama un significato che si aggiunge per suggestione a quello letterale?».

«…».

«Quello letterale lo chiamiamo denotativo. Che so, nelle istruzioni per accendere il forno “girare la manopola verso sinistra” vuole dire quello, e nient’altro…».

«Connotativo! Suggerisce senza spiegare…».

«E allora che cosa suggerisce l’immagine della Natura come tempio?».

«Qualcosa di molto antico». «Di sacro». «E spazioso». «Con delle grandi colonne…».

«Un vero e proprio alone di significati possibili, avete ragione. A proposito di colonne, perché in questo tempio ci sono dei “viventi pilastri” che “a volte mandano fuori confuse parole”?».

«Viventi pilastri, come fossero alberi…».

«È vero, questa è un’interpretazione molto plausibile. Ricordiamoci anche che il simbolo è aperto, a differenza dell’allegoria, che ha un unico significato, nascosto e “a chiave”. Se non possediamo la chiave non possiamo sapere cosa si nasconde dietro quell’immagine: delle tre fiere di Dante sappiamo cosa significano grazie a un riferimento esterno, al significato che viene attribuito a quei tre animali in ambito religioso. Se nell’allegoria manca la chiave, possiamo fare delle ipotesi senza mai sapere con certezza qual è il vero significato nascosto dietro l’immagine. Vi ricordate un’altra allegoria difficile da spiegare?».

«Beh, il Veltro, quello che ricaccerà la lupa nell’Inferno».

«Sì, sono secoli che ci si interroga su chi possa essere. Forse l’ipotesi più plausibile è che si tratti dell’imperatore Arrigo VII, che nelle speranze di Dante avrebbe riportato la pace e la giustizia in Italia. Ma come si fa a dirlo con sicurezza? Torniamo a noi: perché i pilastri viventi “mandano fuori confuse parole”?».

«Cercano di dirci qualcosa? Questa è una personificazione e una metafora, giusto prof? Come fanno dei pilastri a parlare, pure se sono degli alberi? E “a volte” perché non parlano sempre. Ma che dicono?».

«Beh, intanto non è detto che “mandare fuori” parole equivalga a “parlare”. E soprattutto, avete visto che l’originale francese non dice “mandano fuori”, come viene tradotto qui, ma “laissent parfoit sortir”? Pensiamo un momento alla differenza tra mandare fuori e lasciar uscire…».

«Uno manda fuori apposta, invece nel lasciar uscire c’è meno volontà. Come se queste parole sfuggissero».

«Hai ragione. E perché sono confuse?».

«Perché la Natura non parla, cioè parla ma in modo diverso dagli uomini… Non dice cose chiare».

«Va bene, ci torniamo.  Poi la poesia continua: “Le attraversa l’uomo tra foreste di simboli dagli occhi familiari”; ecco, qui la differenza tra l’originale francese e la traduzione italiana da cui stiamo leggendo è clamorosa. Baudelaire dice, letteralmente: “L’uomo ci passa attraverso foreste di simboli che lo osservano con degli sguardi familiari”; che differenza c’è?».

«C’è un verbo in più, lo osservano. In che senso lo osservano?».

«Beh, per come siamo abituati a pensare, dovrebbe essere l’uomo a osservare la realtà naturale — ammesso che le foreste di simboli abbiano a che fare con la Natura, ditemi voi cosa ne pensate — non il contrario. E se quelle foreste di simboli rappresentano un mistero di fronte a cui l’uomo si ritrova, non dovrebbe essere lui a osservare, invece di essere osservato?». 

«Sì, è vero. E la foresta secondo me è sempre la Natura. Però prima la poesia ha detto che la Natura è un tempio; sembra che la foresta stia fuori dal tempio, sia un’altra cosa…».

«Benissimo. Lasciamo in sospeso per un momento la questione se anche la foresta rappresenti o no la Natura: secondo voi perché qui non è l’uomo che la indaga, ma è la foresta che osserva l’uomo, come se lo guardasse mentre passa? La foresta quindi è viva, consapevole?».

«È come se l’uomo fosse un estraneo, che passa di lì senza poter entrare a far parte della Natura, un escluso. Viene osservato dalla foresta come se fosse uno straniero che passa in una città sconosciuta»; «A me fa venire in mente un film di fantascienza [forse Martina intende fantasy], dove anche gli oggetti e le piante hanno gli occhi».

«Una cosa: noi stiamo facendo l’errore di ridurre la foresta al singolare, invece Baudelaire dice “des forêts”, al plurale. Che differenza c’è?».

«Danno l’idea di qualcosa di infinito; tante foreste, in cui ci si perde, tanti mondi…».

«Già, tante foreste diverse, ognuna fatta di simboli; effettivamente sembra una moltiplicazione all’infinito…».

«Prof, ma sono le foreste o i simboli a guardare l’uomo?».

«Ecco, non potremmo ipotizzare che non siano le foreste ma i simboli da cui le foreste sono costituite che osservano l’uomo? Strano, vero? Noi ci aspettiamo che i simboli siano fatti per essere interpretati, spiegati, indagati; non dovrebbero essere loro a osservare. E questo l’avevamo detto».

«È strano, sembra molto… astratto. E poi la foresta dovrebbe essere fatta di rami, di foglie, non di simboli».

«Sì, l’immagine della foresta di simboli — facciamo finta che sia una sola — è molto particolare. E chissà perché una foresta… Se fosse anche questo un simbolo, cosa suggerirebbe?».

«Che è molto buia; poi scrivere che è fatta di simboli, come diceva Giovanni, significa mettere insieme una cosa molto concreta con una astratta»; «Anche che è intricata…e poi sembra la selva oscura di Dante».

«Già Diego, hai ragione, chissà se anche Baudelaire ci ha pensato… L’intrico rimanda a quello che Baudelaire dice dopo, cioè che tutte le cose, anche se appartenenti a campi sensoriali diversi (vista, udito, olfatto…), in qualche modo “si rispondono”».

«Sarebbe una sinestesia, prof».

«Certo. E mi stavo chiedendo se i simboli, come gli alberi di certe foreste, siano tutti uguali tra loro, di uno stesso tipo, perché la foresta fa pensare anche a qualcosa di molto omogeneo; oppure… Intanto un’altra immagine strana è quella dei simboli che osservano l’uomo “con sguardi familiari”. Familiari per chi? Ma come, non avevamo detto che l’uomo ci passava come un estraneo? Come mai allora questi sguardi sono familiari?».

Familiari… Mentre aspetto le risposte degli studenti, inizio a riflettere sull’ambiguità dell’aggettivo “familiare” in Baudelaire, e sulle radici biografiche di questa ambiguità, e penso che in seguito potremmo aprire un discorso più approfondito. Giovanni Macchia ricordava che «le famiglie Baudelaire-Dufays-Aupick rappresentano una curiosa associazione di orfani e di vedovi, votati testardamente, contro la cattiva sorte, al matrimonio» e aggiungeva che «mai albero familiare risultò più disordinato e intrecciato, dolorante di strappi e d’improvvise potature, di falsi innesti e incroci tra gioventù e vecchiaia…» (2). Intanto arriva la risposta:

«Forse “familiare” vuol dire che l’uomo, in un tempo molto antico, ha fatto parte della Natura, anche se adesso ne è escluso». «Forse ha a che fare con qualcosa che ha conosciuto e poi ha dimenticato, dopo tanto tempo…». «Che sapeva cose che col passare del tempo sono diventate misteriose». «Che quelle cose sono dentro di lui, anche se non le conosce…».

Altre considerazioni: le immagini, la traduzione

A questo punto penso che dovrei far notare come questa profonda ambivalenza di ciò che è “familiare” sia alla base del concetto freudiano di “perturbante” (un-heimlich): «…una realtà costitutivamente duplice, nella quale la stessa cosa può apparire, di volta in volta, come familiare o come estranea, come appartenente alla “casa”, o come da essa remota» (3). Magari ci torneremo su a proposito del J’est un autre di Rimbaud.

Purtroppo per ragioni di spazio e di sintesi, oltre che per la labilità della memoria, ho tralasciato molte osservazioni interessantissime degli studenti (comprese quelle meno centrate, con i loro preziosi fraintendimenti) emerse nel corso della lezione; il resto della lettura, comunque, ha seguito lo stesso andamento. Visto che la poesia è stata proposta più volte a diverse classi, aggiungerei solo un’osservazione sulla lettura degli ultimi versi: contrariamente a ciò che mi aspettavo, il sistema delle sinestesie ha sempre colpito debolmente l’immaginazione degli studenti; che i profumi possano essere freschi come carni di bimbo, dolci come gli oboi o verdi come i prati sembra destare nelle classi pochissimo interesse e pochissima sorpresa. Il disinteresse nei confronti delle immagini sinestetiche, d’altra parte, mi sembra si riproponga alla lettura di una poesia come Voyelles, di Rimbaud: che a ogni vocale possa essere attribuito un colore e un corteo di immagini appare alla maggior parte degli studenti come un gioco intellettuale immotivato. La spiegazione che ho tentato di formulare al riguardo, del tutto personale e provvisoria, è questa: per studenti immersi in un mondo di immagini, l’immagine deve avere una coerenza e una spiegazione in sé stessa. Collegare l’immagine ad altro da sé, addirittura a un campo sensoriale diverso da quello della vista, richiede uno sforzo di immaginazione spesso troppo difficile da compiere (4). 

Per tornare alla poesia di Baudelaire, sembra invece affascinare gli studenti quella «ténébreuse et profonde unité» su cui il sistema delle corrispondenze è incentrato; e che la tenebrosa unità possa essere vasta non solo come la notte ma anche con ciò che ne è apparentemente l’opposto, la clarté, proprio nel suo offrire un esempio concreto e tangibile della coincidentia oppositorum dichiarata dalla poesia, accende negli studenti la curiosità e qualche forma di risonanza interiore, di fronte al misterioso incontro tra ciò che è sconfinato e i suoi equivalenti visibili inevitabilmente asindotici e paradossali.

Di passaggio, aggiungerei che proprio la parola «clarté», così difficile da rendere in un sistema linguistico e culturale diverso da quello francese, dove si carica di connotazioni intraducibili, ricorda quanto sia importante porre, anche a livello didattico, la questione della traduzione: gli studenti dovrebbero sempre essere resi consapevoli, con esempi significativi anche nel caso di lingue che non conoscono, delle difficoltà e delle scelte che ogni lavoro di traduzione comporta e dell’inevitabile differenza tra il testo di partenza e quello di arrivo (nel caso specifico, la traduzione di De Nardis riportata nell’antologia utilizzata dagli studenti), del carattere di ausilio e di strumento che quest’ultimo presenta, senza sostituire — specie nel caso del testo poetico — l’indispensabile conoscenza dell’originale.

***

Appendice

Corrispondenze

È un tempio la Natura ove viventi

pilastri a volte confuse parole

mandano fuori; la attraversa l’uomo

tra foreste di simboli dagli occhi

familiari. I profumi e i colori

e i suoni si rispondono come echi

lunghi che di lontano si confondono

in unità profonda e tenebrosa,

vasta come la notte ed il chiarore.

Esistono profumi freschi come

carni di bimbo, dolci come gli òboi,

e verdi come praterie; e degli altri

corrotti, ricchi e trionfanti, che hanno

l’espansione propria alle infinite

cose, come l’incenso, l’ambra, il muschio,

il benzoino, e cantano dei sensi

e dell’anima i lunghi rapimenti.

Da I fiori del male, Les Fleurs Du Mal [1857]

Traduzione di Luigi De Nardis, Milano, Feltrinelli, 1964

Correspondences

La Nature est un temple où de vivants piliers

Laissent parfois sortir de confuses paroles;

L’homme y passe à travers des forêts de symboles

Qui l’observent avec des regards familiars. 

Comme de long échos qui de loin se confondent

Dans une ténébreuse et profonde unité,

Vaste comme la nuit et comme la clarté,

Les pafums, les couleurs et les sons se répondent. 

Il est des parfums frais comme des chairs d’enfants,

Doux comme del hautbois, verts comme les prairies,

– Et d’autres, corrompus, riches et triomphants, 

Ayant l’expansion des choses infinies,

Comme l’ambre, le musc, le benjoin et l’encens,

Qui chantent les transports de l’esprit et des sens.

Remords posthume

Lorsque tu dormiras, ma belle ténébreuse,

Au fond d’un monument construit en marbre noir,

Et lorsque tu n’auras pour alcôve et manoir

Qu’un caveau pluvieux et qu’une fosse creuse;

Quand la pierre, opprimant ta poitrine peureuse

Et tes flancs qu’assouplit un charmant nonchaloir,

Empêchera ton coeur de battre et de vouloir,

Et tes pieds de courir leur course aventureuse,

Le tombeau, confident de mon rêve infini

(Car le tombeau toujours comprendra le poète),

Durant ces grandes nuits d’où le somme est banni,

Te dira: «Que vous sert, courtisane imparfaite,

De n’avoir pas connu ce que pleurent les morts?»

— Et le ver rongera ta peau comme un remords.

Charles Baudelaire, Les Fleurs du mal (1857)

Vendetta postuma 

Quando sarai nel freddo monumento
immobile e stecchita,
se ti resta nel cranio un sentimento
di questa vita,

ripenserai l’alcova e il letticciuolo
dei nostri lunghi amori,
quand’io portava al tuo dolce lenzuolo
carezze e fiori.

Ripenserai la fiammella turchina
che ci brillava accanto;
e quella fiala che alla tua bocchina
piaceva tanto!

ripenserai la tua foga omicida,
e gli immensi abbandoni;
ripenserai le forsennate grida,
e le canzoni;

ripenserai le lagrime delire,
e i giuramenti a Dio,
o bugiarda, di vivere e morire
pel genio mio!

E allora sentirai l’onda dei vermi
salir nel tenebrore,
e colla gioia di affamati infermi
morderti il cuore.

Emilio Praga, Penombre (1864)

1. Sulla compresenza e le diverse funzioni di simbolo e allegoria nell’opera di Baudelaire, alla luce dell’interpretazione che ne dà Benjamin, cfr. Romano Luperini, L’allegoria del moderno. Saggi sull’allegorismo come forma artistica del moderno e come metodo di conoscenza, Roma, Editori Riuniti, 1990. 

2. Giovanni Macchia, Baudelaire e la poetica della malinconia, Milano, Abscondita, 2019 [1992], p.48. 

3. Umberto Curi, Fedeli al sogno. La sostanza onirica da Omero a Derrida, Torino, Bollati Boringhieri, 2019, p.91.4. Mi rifaccio alla dicotomia immagine/immaginazione proposta da Italo Calvino in “Visibilità”, nelle Lezioni americane (Milano, Garzanti, 1988).

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