
“Le guerre oltre la guerra”. Sui nuovi versi di Cristina Alziati
Guarda la stirpe- aggiunge l’impostore – Le guerre oltre la guerra. (La stirpe, p. 70)
Cristina Alziati dopo undici anni ha dato alle stampe un nuovo libro di versi: Quarantanove poesie e altri disturbi (Marcos y Marcos, 2023). Si tratta di una pubblicazione molto attesa dai pochi che sanno come si tratti della voce poetica che più di tutte ha saputo ereditare la dura lezione di Franco Fortini, inaccessibile ai più. I testi di Alziati infatti custodiscono gli strumenti stilistici e formali per captare il rumore giornaliero dei macelli del mondo: hanno preso avvio nel 1991 dallo spartiacque della Guerra del Golfo, l’aggressione all’Iraq da parte delle potenze occidentali, mascherata dai media e fondatrice di tutte le altre nuove guerre dell’ordine-disordine globale, e rendono dicibili, con asciutta tensione e torsione sintattica, le carneficine dell’inferno contemporaneo: Mostar, Baghdad, Gaza. In questo nuovo libro, come “disturbi dell’udito” (p. 58) ascoltiamo ancora le voci dei trapassati: da Rosa Luxemburg a Edoarda Masi (Dall’altra parte, p. 30).
Qualcosa tuttavia è cambiato. Nelle due precedenti raccolte, A compimento (Manni, 2005) e Come non piangenti (Marcos y Marcos, 2011), la sfida della poesia come resistenza all’orrore storico trovava nei dettagli della natura le proprie tenaci allegorie. Accogliendo il magistero di Bertolt Brecht, era possibile narrare in versi la parabola di un padre e di un figlio che stendono un telo sull’albicocco che gela mentre Hitler prepara la guerra (Primavera 1938).
Nella nuova raccolta sembra che questa possibilità sia negata: fra la natura (il bombo, l’airone, il lichene) e l’uomo (gli “elegantissimi” che ammazzano il piccione in cerca di briciole nel panificio), prevalgono la distanza, il silenzio, l’inaccessibilità, l’estinzione. Tra i barlumi di speranza sembra sopravvivere solo il dialogo tra figlia e madre: figura di esile protezione e di prosecuzione oltre la fine biologica. Le ragioni di questo cambiamento sono esplicite nella poesia La tela (p. 41) che allude a Brecht, chiamato “il mio poeta”:
Il mio poeta in esilio, una volta con la tela di un sacco dal gelo un giovane albicocco proteggeva. Anche qui, in fondo alla scarpata ce n’è uno, e a febbraio io attendo il biancore dei fiori tralucere tra i rami. Ma intorno da diecimila mesi l’argilla è spaccata dall’arsura il Circolo polare artico rovescia negli oceani acque annerite il colore del cielo è colore di pioggia che non piove. Così custodisco soltanto un ricordo a febbraio, di un alberello e un gesto. Con quale tela mai proteggerò l’argilla, il Circolo polare, il cielo?
Come Fortini alla fine degli anni Cinquanta (Traducendo Brecht) oggi Cristina Alziati collauda i propri versi misurando la vicinanza e la distanza dal poeta tedesco: facendosi carico di tutte le implicazioni poetiche e politiche della mutazione e della distruzione (storica e ecologica). Dopo una verifica di questa portata, i margini che i versi concedono alla “speranza di una città futura” risultano ulteriormente assottigliati. Se “La poesia/ non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi” è il verso più memorabile di Traducendo Brecht, Quarantanove poesie e altri disturbi si apre con una negazione: “Infatti non scrivo./Ripeto soltanto che il dolore/ è reale e passato. La storia è ciò che ho raccontato/ di poco peggiore il presente/ e non ne voglio dire (Risposta, p. 13). All’ombra “fissata un mattino d’agosto” dall’esplosione nucleare su Hiroshima (L’ombra, p. 72) e alle esplosioni dell’“ossido di etilene” occidentale fra il Tigri e l’Eufrate (1991, p. 21) si aggiunge ora la certezza che “nemmeno il lichene/ verrà risparmiato” (D’Europa, p. 35). Eppure a questa certezza folgorante e desolata non corrisponde nessun disincanto, nessun cedimento cinico o nichilista: di guerra in guerra, di menzogna in menzogna la “piccola porta” è migrata dalle figure di natura alle immagini di figli, “che resteranno”. La sezione centrale, dal titolo Exclave, è abitata dal “lascito”, il dialogo con la figlia Sofia a cui il libro è dedicato: una forma di vera persistenza e di “amore” (Il messaggio, p. 66). Analoga funzione, sul piano collettivo, rivestono il “minuscolo circo di artisti ragazzini” e la bambina afgana che piange sorridendo in Una bambina (p. 37). In tal modo, l’intimità che si avverte in tutto il libro con le figure di dissoluzione sembra nascere ancora una volta dalla consapevolezza di un esproprio subìto collettivamente: dalla certezza che l’inferno dei viventi non era il nostro destino inevitabile o immodificabile. Come ha potuto scrivere Massimo Raffaeli con Mark Fischer, in questa raccolta insomma “storia diventa il deserto” perché oggi, privati delle nostre parole, siamo ridotti a poter “immaginare la fine del mondo ma non la fine del capitalismo” (in “Il manifesto”, 4 aprile 2023). In A compimento, Cristina Alziati scriveva così:
Quello che dite odio per voi, dei lavoratori, è voce di un interesse non vostro che il vostro contraddice. Non è odio il lavoro. Lo sapete. Voi per negare questa verità vera puntualmente ordinate il terrore. (Ai padroni)
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