La poesia di Creuza de mä, ovvero quando per arrivare all’idea c’è da impiastrarsi con la forma
Odio i musei. Quei posti chiusi, isolati, protetti, dove le opere sono custodite e conservate con cura, ognuna ordinatamente etichettata e catalogata, ognuna quotidianamente spolverata e periodicamente restaurata, ognuna ognora visitata e spuntata dalla to do list di turno, spesso fraintesa o del tutto incompresa, e poi puntualmente dimenticata. Odio i canoni senza se e senza ma, i capolavori indiscussi e soprattutto indiscutibili, odio i classici in quanto classici e chi li conosce soltanto perché. Odio la filologia, le partiture che soffocano l’esecuzione e la vitalità che si sacrifica a una presunta fedeltà. Per questo amo Creuza de mä, e per questo, mentre provo a dirvi perché secondo me è un capolavoro, vi chiedo di dimenticare che lo sia, e di non darlo per scontato. Vi chiedo di rimuovere gli assunti e le informazioni già immagazzinate – la vetta insuperata della discografia di Fabrizio De André, uno dei migliori dischi degli anni Ottanta e forse il massimo esemplare di world music mai prodotto in Italia –, vi chiedo di ascoltare il disco e poi di entrarci dentro insieme a me. Perché non è possibile fruire Creuza de mä in maniera superficiale. Il messaggio più profondo racchiuso nell’album – che è poi il suo contenuto ideologico, e ciò che non smetterà mai, credo, di renderlo attuale – non è veicolato con i mezzi della retorica, ma con quelli della poesia. E la poesia si sa, non è mai un pretesto per dire qualcos’altro: la poesia è o non è, tutto o niente, senza mezze misure. Creuza de mä porta con sé un messaggio bellissimo, ma non lo propaganda e non lo sbandiera; è l’ascoltatore, se mai, a poterselo conquistare, ma soltanto a patto di mettere in discussione tutto e in primo luogo se stesso, di mettersi in gioco senza remore e senza sconti, di impiastrarsi talmente con quella forma inventata – i versi in un dialetto genovese più immaginario che reale e le musiche speziate con sonorità etniche artigianali, da rigattiere – da riconoscerla infine, laggiù in profondità, e da riconoscersi in essa. Creuza de mä è un capolavoro perché in Creuza de mä la forma non dice il contenuto: la forma è essa stessa il contenuto, e l’espressione dell’idea passa necessariamente attraverso l’invenzione di un linguaggio atto a incarnarla.
Cos’ha dunque da dirci oggi questo disco, a distanza di più di trent’anni dalla sua pubblicazione? Per la verità molto, moltissimo. Creuza de mä ci parla di tradizione e di identità, di chi pensiamo di essere e di chi invece veramente siamo. Ci parla di noi stessi, insomma, e proprio qui risiede, in primo luogo, la sua intramontabile attualità. E mentre, puntuali al periodico appuntamento con la storia, da più parti ancora ci arrivano le voci di chi vorrebbe l’identità qualcosa di puro e assurdamente incontaminato – come se l’identità non fosse qualcosa da costruire e da definire in continuazione attraverso l’altro – e la tradizione qualcosa da difendere e da proteggere, e in fin dei conti da conservare così com’è, Creuza de mä ci racconta una storia diversa: la storia di un viaggio – individuale, certo, ma poi necessariamente anche collettivo – che non può mai avere veramente fine, e la cui vera e unica meta coincide con il punto dal quale si era partiti; allegoria, il tutto, di un’identità che va ricercata sempre, e di una tradizione non chiusa e statica, senza più linfa in una teca da museo, ma quanto mai viva e sensibile agli stimoli, aperta agli incontri che possono esserci soltanto per strada.
De André attraversa più di venti secoli di letteratura – e di musica – per risalire fino a Omero e all’Odissea: anche lì, infatti, il viaggio non era mai fine a se stesso, ma era fin dal principio un nòstos, un ritorno a casa; anche lì ciò che Odisseo doveva conquistare, e ciò di cui doveva provare di essere all’altezza non era l’ignoto né l’avventura, ma erano la sua terra, la sua casa, la sua gente, il suo ruolo di uomo e di re. La sua identità, a ben vedere. E se alla fine Odisseo ce la faceva, a ri-conquistare ciò che era suo di diritto – ma non più nei fatti – era soltanto grazie al viaggio appena concluso, alle esperienze maturate in mare e alle prese con creature molteplici e meravigliose (anche se poi non così diverse, in fin dei conti, dagli uomini con cui per tutta la sua vita aveva avuto a che fare).
Anche in Creuza de mä Genova è una presenza costante, fin dalla partenza cui è dedicato – non a caso – il brano conclusivo D’ä mæ riva, tutto intriso di una liricità senza pretese quanto sincera e struggente. Il marinaio chiede alla moglie di perdonargli il magone che lo assale controsole, mentre la nave si allontana da riva sulle onde, e che ancora più tardi, ormai in mare aperto, gli farà estrarre dal baule la foto di lei da ragazza, pe puèi baxâ ancún Zena / ‘nscià teu bucca in naftalin-a, “per poter baciare ancora Genova sulla tua bocca in naftalina”. Andare via fa male, fa bruciare gli occhi e stringere il cuore, ma non per questo il marinaio può rinunciare a partire, non per questo può rinunciare al mare, ché sarebbe un po’ come rinunciare a vivere. Genova è la sua terra e sempre lo sarà, ma Genova da sola non basta: non basta ricevere chi si è alla nascita e campare di quello per sempre; bisogna metterci del proprio, bisogna metterci dell’altro – e quindi andarselo, e andarsi, a cercare. E non basta nemmeno trincerarsi nel conforto offerto da una tradizione apparentemente unica e incorrotta, che marca, teme ed esclude il diverso quasi non fosse essa stessa il prodotto ibrido di mille diversità che si sono incontrate e scontrate nel tempo. È il mare, quindi, a salvare la terra e a completarla, e a garantire al marinaio genovese l’opportunità di completare se stesso vivendo – non solo sopravvivendo. Ed è il mare a permettergli di incontrare l’altro, un altro che egli scoprirà, in ogni caso, non così diverso da sé. Jamin-a, innanzitutto, la lua de pelle scûa, la “lupa di pelle scura” a cui il marinaio si rivolge però apostrofandola pur sempre ma seu, “sorella mia”; e poi, soprattutto, l’uomo libanese che in Sidùn tiene fra le braccia il corpo del proprio figlio maciullato dai carri armati, e nel lanciare il suo lamento straziante parla in genovese, perché in fondo, di fronte a un dolore così umano e troppo umano, le differenze più meschine non passano forse da sé in secondo piano?
Non bastasse l’aspra denuncia della guerra – della guerra in Libano del 1982, certo, ma anche della guerra in generale – a farsi beffe del patriottismo e dell’ideologia conservatrice che ne è alla base ci sono nei brani successivi Scipione Cicala, Cigä – unico personaggio storico del disco, dissotterrato dalle cronache cittadine in quanto esemplare opportunista che volta le spalle a Genova per salvarsi la pelle – e il carnevale bachtiniano di A dumènega, con la sua processione di prostitute a passeggio e l’intera città, fervente, al suo seguito. Come a dire: conservate quanto volete, mettete argini paletti barriere, sarà sempre la vita ad avere la meglio.
Niente retorica quindi, si diceva, e neppure lezioncine calate dall’alto e confezionate belle e pronte, facili facili. Non c’è scampo: in Creuza de mä il messaggio si raggiunge soltanto passando attraverso la forma, quella forma pensata – si diceva – non tanto come strumento al servizio del contenuto quanto per essere contenuto essa stessa. E quando parliamo di forma, nel caso di Creuza de mä, parliamo innanzitutto di suoni. Suoni collezionati, in origine, da Mauro Pagani durante anni e anni di ascolti, poi ricreati su strumenti etnici un po’ recuperati sulle bancarelle dell’usato e un po’ inventati – così che può capitare che, accanto al bouzouki greco, al saz turco e al mandolino napoletano compaia nella strumentazione del disco anche un misterioso undelele, che poi si scopre non essere altro che un violino suonato con il plettro – e ricercati anche a livello linguistico già in fase di provini, quando Pagani canta i pezzi già completi di musica in “arabo maccheronico” per dare conto delle sonorità desiderate. Suoni poi, soprattutto, del dialetto genovese che De André storpia vistosamente nella foné, e piega all’esigenza di metterne in evidenza la natura ibrida, di organismo vivente e in quanto tale in continua evoluzione, necessariamente soggetto agli incontri e agli scambi.
Mentre, quindi, Pagani riveste di una patina sonora mediterranea una musica che, in ogni caso, rimane saldamente “occidentale” nella struttura, e combina le atmosfere del contemporaneo progressive rock – ché, non dimentichiamolo, Creuza de mä è pur sempre un disco del 1984 – ad atmosfere più propriamente etniche, aprendo così gli occhi e soprattutto gli orecchi del potenziale ascoltatore su orizzonti più ampi e meno consueti, De André compie con il dialetto genovese un’operazione per molti versi speculare, eppure a pensarci bene ancora più radicale di quella compiuta a livello di musica. È infatti in quel genovese ricco di inflessioni mediterranee – arabe, soprattutto – che il viaggio di Creuza de mä si compie, propriamente, e si completa, perché quale può essere, in fin dei conti, il senso ultimo di ogni aprirsi all’altro, se non il riconoscersi in quell’altro tornando sui propri passi, e il riconoscere l’altro dentro di sé? Il genovese è dunque esso stesso il nòstos che racconta, e sta al cuore della rivoluzione di Creuza de mä perché salda in modo mirabile forma e contenuto. Per questo Creuza de mä è un capolavoro. Per questo, e anche perché De André, facendo apparentemente una scelta formale tradizionalista, si fa in realtà beffe di ogni assurdo vezzo folcloristico e di ogni ancora più assurda pretesa filologica, e smaschera lo stesso tradizionalismo come costruzione ideologica con alla base una fondamentale volontà di conservazione. In questa luce il dialetto di Creuza de mä assume palesi connotati pasoliniani, e – lungi da ogni conservatorismo – si rivela quale estrema espressione di quell’attitudine anti-borghese senza la quale De André non sarebbe De André, senza la quale la direzione non sarebbe quella ostinata e contraria che invece sarà fino alla fine.
Fotografia: G. Biscardi, Palermo 2012, mare.
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