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diretto da Romano Luperini

len 20171001 0003

L’insegnante capovolto: anatomia del suo successo

Chi ama la scuola la ribalta”. Questo è il titolo del prossimo convegno dell’associazione che promuove la Flipped Classroom in Italia, la classe capovolta. “Un modo diverso di fare scuola: didattica attiva, competenze, collaborazione e gioco di squadra. Niente interrogazioni o lezioni frontali. Niente noia”. Queste poche righe, volutamente accattivanti e identificative, riassumono l’ispirazione di una nuova didattica e prefigurano una nuova tipologia di insegnante: l’insegnante capovolto. Il principio è semplice: lezioni a casa, attività/compiti a scuola. Partito dagli Stati Uniti negli anni 90[1],  l’insegnamento capovolto arriva in Italia nel 2014, con il primo “manuale operativo”[2], scritto da due docenti della scuola superiore. Il “battesimo” è affidato ad un’illustre prefazione: quella di Tullio De Mauro. Di lì a poco nasce l’associazione Flipnet, che promuove la didattica rovesciata, raggruppa docenti capovolti, diffonde materiali e pratiche. Nel giro di pochi anni, le classi rovesciate si diffondono nell’immaginario comune e diventano avanguardia educativa. E’ impressionante il numero di occorrenze che una ricerca in rete delle parole flipped classroom produca: quasi 27 milioni di pagine web[3].

Identikit dell’insegnante 100% capovolto

I docenti fondatori dell’associazione, FlipNet o il prof. G. Cecchinato, che ne rappresenta uno dei riferimenti in ambito universitario, amano esordire, nei loro interventi, affermando che la flipped classroom nasce “dal basso”, quasi come un’esigenza tellurica di cambiamento. A pochi anni di distanza dalla pubblicazione del primo manuale, tuttavia, la situazione è piuttosto cambiata, complice la recente riforma della Buona Scuola. L’insegnante capovolto ha assunto oggi una connotazione quasi istituzionale. Di fatto, la flipped classroom rappresenta per il MIUR una delle “competenza di sistema” [4] da sviluppare per la nuova professionalità docente. E’, insieme ad altri metodi – che non hanno saputo “aggregare” allo stesso modo docenti di ogni grado e disciplina – una delle nuove skills da curare per i neoassunti. Oggi, capovolgere le proprie lezioni può significare, in alcuni istituti, accedere al bonus premiale introdotto dalla Buona scuola o partecipare ad attività formative à la page, rese obbligatorie dai nuovi piani di formazione ministeriali. Il fascino del docente controcorrente che ribalta la scuola è quindi un po’ sbiadito dall’ istituzionalizzazione che la pratica ha subito. Ma sul piano relazionale, l’insegnante capovolto mantiene il suo appeal e afferma ancora con fierezza la sua distanza dall’ insegnante “vecchia maniera”. L’insegnante “100% capovolto”, colui che ha sposato il metodo completamente, è libero dall’ingombro della “lezione”, che diventa un video autoprodotto o selezionato dalle immense banche dati della rete. Da “saggio che insegna di fronte” diventa “guida che si mette al fianco”[5] degli studenti. E’animato da entusiasmo[6], ha dimestichezza con le tecnologie digitali, è un fermo sostenitore dell’apprendimento attivo. Novello Freinet, crede fermamente che per sviluppare competenze significative e per raggiungere anche gli ultimi studenti – i Gianni più nascosti e refrattari, non solo i Pierini dei primi banchi – sia necessario ribaltare il setting scolastico, disarticolarlo. La “sacra trinità” incarnata da lezione-studio-verifica diventa challenge-based-learning[7]. Il cuore della didattica capovolta, infatti, non sta tanto nella dislocazione della lezione dal contesto collettivo della classe ad un contesto individuale e asincrono (ciascuno per conto proprio e quando preferisce: alla scrivania dopo pranzo o sul divano prima di andare a letto), impersonale (la lezione del mio insegnante di fisica, di Tom Smith della Khan Academy o di Mario Rossi, un qualsiasi insegnante dell’associazione) e digitale (sul pc, sul tablet, sullo smartphone). E’ l’attività che si svolge in classe, proposta in forma “sfidante” a fare la differenza. Preferibilmente interdisciplinare, essa può consistere nella risoluzione di un problema, in un brainstorming, in una ricerca da svolgersi con il proprio smartphone, nella realizzazione di un progetto (una brochure, un evento..).Ciò che conta è che la sfida sia adeguata al contesto e che crei interesse nello studente. Un’ “unità di apprendimento autentica” – come la chiamano i teorici delle competenze – che rappresenti un ponte con il vissuto dei ragazzi. Finalmente valorizzati. Finalmente artefici del proprio sapere. Finalmente tutti partecipi, nessuno escluso.

Nuove coordinate

Capovolgere la propria didattica significa cambiare coordinate. In primo luogo, lo spazio: da classe con cattedra-banchi a laboratorio o classe scomposta. Tipicamente, per introdurre la nuova didattica, l’insegnante capovolto parte dal mostrare la foto di una “lezione tradizionale”, a cui contrappone con orgoglio quella di una “classe capovolta” : una classe-cantiere che ferve di attività. In secondo luogo, il tempo, che entra in gioco sotto due punti di vista. Uno collettivo e uno individuale, entrambi importanti. 1) Il tempo collettivo – in classe: è quello “liberato” dalla lezione tradizionale, che sparisce; 2) Il tempo individuale – altrove: è ridotto drasticamente. Non a caso, tra i docenti capovolti, grande considerazione viene data agli Episodi di Apprendimento Situato (EAS), ossia articolazioni dei contenuti sempre più semplificate. Addirittura ridotte (incredibilmente) ad episodi. L’idea di lavorare per unità piccole e dettagliate è eredità del micro e mobile-learning, di matrice anglosassone, che studia la fruizione di contenuti da parte di persone in mobilità. Spezzettare i contenuti in episodi, può permettere allo studente la massima libertà[8]: ascoltare la lezione in podcast finché viaggia in tram, o durante il percorso in metropolitana. Al docente capovolto sembra non importare il dove e il quando, l’importante è “l’infarinatura”. Il “vero sapere” sarà costruito cooperando in classe. D’altra parte, affermano gli autori del manuale italiano, bisogna venire incontro ai “cervelli tecnologicamente modificati” degli adolescenti, che “crescono con i Teletubbies e Peppa Pig”[9] fin dalla più tenera età, fornire loro contenuti “omogeneizzati”, adatti alla loro vita di “zapping” permanente.

Realtà e rappresentazione

Della trasformazione della figura dell’insegnante e della sua attività in tecnica di insegnamento, della nuova idea di studente di cui la flipped classroom si fa interprete, si è già scritto qui. Proviamo, allora, ad azzardare un’interpretazione del successo del nuovo metodo e della sua diffusione. A sentire un insegnante capovolto, a navigare tra i risultati di letteratura scientifica su motori di ricerca come academia.edu o researchgate.net, risulta difficile dubitare dell’efficacia del metodo.  Ciò che colpisce è la rappresentazione che l’insegnante capovolto fa della sua attività. Con questo non intendiamo che egli stia millantando l’entusiasmo, il coinvolgimento, i compiti cooperativi. Per rappresentazione della realtà intendiamo la descrizione e il modo stesso di prendere parte a quella realtà che si crede, con ogni buona intenzione, di rivoluzionare. Tale rappresentazione, è amplificata dai social, dagli scambi di pratiche e consigli. Riconoscersi in una comunità virtuale che mescola racconti e attività accresce il senso di appartenenza e rafforza le proprie convinzioni: essere dalla parte giusta. Quella del progresso e dell’innovazione. Forte delle esperienze di colleghi, dei numerosi MOOC e aggiornamenti disponibili, un insegnante qualsiasi, di una disciplina qualsiasi, in una scuola qualsiasi, può diventare abbastanza facilmente un insegnante capovolto. L’adesione al gruppo social è immediata e ben accolta. La scelta didattica tipicamente valorizzata dai dirigenti scolastici. In questo insieme di “effetto comunità” e accresciuto riconoscimento sociale (e istituzionale), risiede, a parer nostro, il fulcro del successo del metodo capovolto. Se, in più, si aggiungono:

–            la complicità del digitale,

–            la pressione ad una formazione al passo con i tempi,

–             il refrain del necessario svecchiamento della scuola italiana, contro cui anche solo provare a ribattere significa passare per “populista antipedagogico

–             quel senso di mesta inadeguatezza oramai connaturato in una vasta fetta di insegnanti, vissuti per 20 anni nel segno della “riforma permanente”,

gli ingredienti ci sono tutti: la capovolta è servita.

La realtà, tuttavia, rispetto alla rappresentazione che di essa si dà, è ben più complessa e meno scintillante. Proviamo ad evidenziare (alcune) dissonanze da tenere in considerazione.

  1. La classe – laboratorio permanente. Ammesso che tutti i ragazzi abbiano ascoltato le videolezioni (uno dei punti deboli del metodo), la classe del docente capovolto, è ciò che ogni insegnante ha sempre sognato: una classe in cui si lavora (anche) cooperativamente, magari con banchi aggregati, “a isola”, in maniera proficua. Che atmosfera irenica. Gli studenti costruiscono, progettano, inventano soluzioni. Il docente passa tra i banchi, chiarisce le idee, affianca gli allievi, riesce a non farsene sfuggire neanche uno. Sappiamo tutti che la realtà è fatta di classi numerose ed eterogenee, aule spoglie, spesso piccole e poco attrezzate, lezioni che durano -in media-50 minuti ciascuna. Quante volte il tempo delle “attività” in classe non viene, in realtà, impiegato per ripetere i contenuti dei video? Come evitare il rischio di non banalizzare i compiti da svolgere per garantire la partecipazione anche dei più reticenti? Come non cadere nella trappola della “messa in scena” motivazionale che prende il sopravvento sulla sostanza?
  2. Conoscenze in pillole, competenze significative. Che non si possa essere competenti in una disciplina senza conoscerla è evidente. Dunque la maestria dell’insegnante capovolto deve consistere nel garantire contenuti in video semplici e chiari, ma sufficientemente approfonditi e mai banali. L’attività in classe, “cuore” del metodo capovolto, è indubbiamente connessa alla qualità dell’intervento video. Sottovalutare questo nesso e trascurare la cura del materiale preparatorio, apre, ancora una volta, le porte al riduzionismo e alla semplificazione. Come evitare l’effetto puntinismo o serie tv dell’insieme dei contenuti forniti? Difficile, in un video, trovare il tempo di un’introduzione, di un bilancio/revisione delle conoscenze passate, di una contestualizzazione storica. Elementi spesso imprevedibili ma possibili in un dialogo in carne ed ossa, magari sullo spunto di interventi estemporanei. Come evitare il rischio, nei pochi minuti registrati, di non giustificare a fondo lo statuto di alcuni concetti, di non dimostrare o precisare connessioni e relazioni, di ridurre la gamma di esempi e alternative presentate? Insomma, siamo sicuri di poter accedere a saperi profondi con contenuti “di massima”? Davvero l’attività in classe è così generativa da permettere anche l’acquisizione di competenze “alte” e non solo sommaria – ma coinvolgente- scolarizzazione?
  3. Da “faccia a faccia” a “fianco a fianco”. Niente interrogazioni, lezioni frontali, niente noia”. In una classe capovolta si respira positività, si rivoluziona la relazione con gli allievi. In realtà, non c’è nessun legame sistematico tra organizzazione dell’insegnamento e relazione studente/docente. Il lavoro in gruppo o la realizzazione di un progetto non inducono, per loro natura, una migliore attenzione alle difficoltà individuali. Passare dal “faccia a faccia” al “fianco a fianco” non garantisce l’efficacia dell’intervento. La sollecitudine e la positività delle relazioni – doveri etici e condizioni favorevoli per l’apprendimento – non rappresentano di per sé elementi di miglioramento del sistema educativo. Di sicuro non possono sostituirsi a quello che resta il vettore fondamentale di accesso al sapere e alla cultura comune: la qualità didattica e pedagogica dei docenti nell’insegnamento della propria disciplina. Quel desiderio che ogni buon insegnante conserva: continuare ad approfondire e studiare, nel quadro di un progetto  ”a lungo termine”, che non necessariamente produca “evidenze” ben visibili per poter essere apprezzato. Quel metabolismo lento di chi ha fiducia nella conoscenza.
  4. La scoperta: da collettiva a individuale. Utilizzare le risorse del digitale per liberare tempo per la “vera attività” in classe. Questo, teoricamente, il principio vincente del metodo. Ciò rinvia a casa tutta la parte di scoperta della conoscenza, elemento da non sottovalutare dal punto di vista cognitivo e didattico. La parola dell’insegnante davanti alla comunità in qualche modo “istituisce” anche un certo “rapporto” con la disciplina, non si limita a trasmetterla. La parola e il richiamo di uno sguardo “vivo”, fecondano il pensare dello studente. Non bisogna sottovalutare l’importanza di un “impegno” pronunciato a voce alta davanti agli studenti, la consistenza di scelte linguistiche condivise, la tensione al problematizzare autentico (questo si! e mediato dall’adulto) che un dialogo incalzante, fisico possono suscitare. Sentimenti non demodé, ma attualissimi: una “corazza” contro l’isolamento della connessione perpetua e la frantumazione delle relazioni. Senza contare che lasciare alla gestione dello studente la “scoperta” del contenuto –in un contesto non controllabile – può alimentare e amplificare le disuguaglianze, come già è stato sottolineato.

To flip or not to flip?

In definitiva, l’insegnamento capovolto sembra poggiare su un’analisi semplificatrice. Se da più parti sono evidenziate le criticità del modello puramente trasmissivo – la cui descrizione è una caricatura di quello che già oggi è una lezione “tradizionale” – anche l’insegnamento capovolto non si sottrae a criticità e limiti, rispetto ai quali un insegnante è chiamato ad interrogarsi e prendere posizione. Quella sana schiettezza e onesta lucidità nel dirsi che, in tanti casi, la videolezione è solo un bel “condensato” di contenuti minimi; che, in tanti casi, l’attività cooperativa non è che la trasposizione dei vecchi “compiti per casa”, da fare in classe in briosa compagnia; che, in tanti casi, se si prende sul serio il voler “realizzare un prodotto significativo”, non ci si può raccontare che quelli proposti (nelle condizioni di lavoro reali) lo siano. Siamo proprio tutti d’accordo nel pensare che realizzare uno “storyboard” ambientato ad Ostia Antica con consoli e centurioni o disegnare una mappa concettuale sui passaggi di stato in chimica siano “attività sfidanti” e generative di saperi autentici? Di competenze? L’enfasi, anche istituzionale, sul rinnovamento dell’organizzazione e dei metodi di insegnamento confonde e smarrisce. Può indurre scelte frettolose o infatuazioni pedagogiche. La scuola trabocca di slogan antifrastici: dal gelminiano “meno ore, più approfondimento”, all’attuale “individualizzare e includere (valutando però con test INVALSI uguali per tutti)”. Il “Chi ama la scuola la ribalta” sembra davvero troppo anche per il più giacobino degli innovatori. L’avvenire della nostra educazione non risiede nella chimera di una trasformazione strutturale o metodologica radicale e miracolosa, ma poggia su un impegno spesso invisibile, una progressione continua e laboriosa. Una costruzione collettiva di competenze professionali senza entusiasmi provvisori o echi multimediali, una diversità libera e responsabile di interventi e di riflessioni. 


[1] La flipped classroom nasce negli Stati Uniti negli anni 90, con Bergmann e Sams  (https://flippedclass.com/about-m/) e Eric Mazur  (http://ericmazur.com/), che sperimentano i nuovi metodi di insegnamento nelle classi universitarie, ma si diffonde, nel corso degli anni 2000 in tutta Europa (http://www.classeinversee.com/ , http://www.theflippedclassroom.es/ ; www.teachertrainingvideos.com);

[2] M. Maglioni e F. Biscaro “La classe capovolta”, Erickson, 2014;

[3] Ricerca datata settembre 2017;

[4] Vedi documento MIUR sulla formazione dei docenti neoassunti a pag 41 http://neoassunti.indire.it/2017/files/Neoassunti2017_versione_testuale.pdf ;

[5] Franchini R. 2014. The flipped Classroom (le classi capovolte) Rassegna CNOS 1/2014;

[6] Nel video collegato al link, uno dei fondatore dell’associazione FlipNet, Maurizio Maglioni, in occasione del primo convegno del 2015, esordisce affermando: “Se abbiamo fatto la fatica di arrivare qui è perché abbiamo a cuore il destino dell’umanità”.

[7] G. Cecchinato, “Flipped Classroom: riflessioni per la ricerca educativa”, in Micro-Progettazione: pratiche a confronto, ed. Franco Angeli, 2016.

[8] Questo video di presentazione della flipped classroom, uno dei tanti reperibili in rete, mostra proprio come sia una buona idea studiare la videolezione in autobus o in macchina, finché ci si sposta (minuto 1’27”).

[9] Vedi nota 2.


Fotografia: G. Biscardi, Capovolto, Palermo 2017

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