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diretto da Romano Luperini

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L’insegnante è un intellettuale?

Una mattinata con Luperini

È martedì mattina, il mio giorno libero a scuola e so che Romano Luperini verrà ad incontrare gli alunni del Liceo classico Properzio di Assisi. Decido senza dubbio di andarci, alle undici sono seduto in mezzo ai ragazzi in una grande aula luminosa, mi colpiscono i finestroni che guardano come fosse una cartolina la basilica di San Francesco. L’argomento proposto dalla scuola al relatore mi interessa: il ruolo degli intellettuali dalla loro comparsa a fine Ottocento fino alla loro dipartita dalla scena pubblica italiana a metà anni Settanta. Inizia l’incontro. Luperini cita Zola, parla di Vittorini che discute con Togliatti, parla di Pasolini e Calvino e del delitto del Circeo. I ragazzi ascoltano in silenzio e io riconosco immediatamente la loro attenzione. Il tema è ostico, nessun insegnante riesce ad arrivare bene a quei temi nell’ultimo anno. Eppure l’ora scorre velocemente per tutti, io ascolto e imparo. Alla fine di quel viaggio fatto del racconto di scrittori che avevano licenza sociale di pronunciare il proprio “io so”, Luperini però mi sorprende. Chiude il discorso sollecitando i ragazzi sulla distinzione tra ruolo e funzione dell’intellettuale. Lo fa con parole semplici ma nette e parla della figura dell’insegnante.

Distingue tra il ruolo di chi deve sapere riempire un registro e la funzione di chi attraverso il proprio mandato riesce ancora ad accendere la coscienza di un adolescente o a giustificare il “perché Dante” e non Folcacchiero dei Folcacchieri. Parla ai ragazzi degli insegnanti che lo hanno segnato, di quelli che li stanno segnando, spiega come loro stessi siano già in grado di distinguere tra ruolo e funzione degli insegnanti che ogni mattina incontrano, pur non essendone consapevoli. Dice infine che l’ultima isola dove è possibile oggi l’esistenza di un intellettuale inteso come tale, in quanto funzione, potrebbe essere proprio la Scuola, in un mondo dove la cultura viene oramai monopolizzata dalla figura dell’esperto. Sì proprio la Scuola, non l’Università, non i circuiti alti della circolazione della cultura. Gli intellettuali oggi, se esistono, possono abitare solo in quella specie di riserva indiana chiamata Scuola e sono proprio loro, gli insegnanti. Luperini termina il suo intervento e i ragazzi fanno qualche domanda, ma io non li sento. Mi sto ancora domandando se sia vero quello che ho appena ascoltato.

 Perché no

Mi dico no, l’insegnante non merita di essere detto intellettuale. Per una serie di motivazioni che non riesco a non ammettere. Motivazioni che non riguardano, per lo meno in questo momento, ciò di cui l’insegnante è vittima, ma riguardano la funzione di cui troppo spesso è carnefice. È vero, l’insegnante è vessato da riforme contraddittorie, svilito e sottopagato, precarizzato e burocratizzato, appiattito su modelli di valutazione miopi. Di questo tutti parlano, tutti parliamo ogni santo giorno. Ma per un attimo, sollecitato da Luperini, non trattengo un pensiero segreto e lascio da parte le colpe degli altri, per quanto legittimo sia il pensare siano quelle decisive. Mi dico che no, noi insegnanti non ci meritiamo di essere detti intellettuali. Perché entriamo in classe in ritardo. Perché riconsegniamo verifiche corrette dopo due mesi. Perché a volte non le facciamo proprio così abbiamo meno lavoro a casa. Perché diamo sempre la colpa ad altri: al collega, al dirigente, al ministro, al sistema. Perché diamo colpa ai ragazzi, alle loro famiglie, alla loro provenienza. Perché non sappiamo usare un pc e anche di questo incolpiamo il sistema. Perché riusciamo a dire che anche un registro elettronico è troppo complicato e che pure in questo caso la colpa è tutta sua. Perché lavoriamo bene se ne abbiamo voglia, ma se non ci va (e può non andarci per un anno intero, per anni interi, per una vita intera) riusciamo a parcheggiare classi difronte a ore di film senza senso sulla LIM o a fargli produrre presentazioni in Ppt tanto al chilo. Perché improvvisiamo lezioni svuotando di senso l’unica occasione di crescere concessa a tanti ragazzi. Perché scodelliamo valutazioni umorali senza avvertire il peso di squadrare l’informe di una persona che inizia a vivere. Perché non sappiamo parlare. Perché non ci piace quelle che insegniamo. Perché ci annoia quello che insegniamo. Perché non leggiamo un libro da anni. Perché abbiamo smesso di studiare. Perché siamo ignoranti. Perché tutte queste affermazioni generano solo fastidio e nessuna domanda. Perché «come ti permetti, parla per te».

Perché sì

Mi giro e guardo i ragazzi. Sono belli i ragazzi, sono tutti belli i ragazzi dentro la Scuola. È vero, la Scuola è un posto particolare. Provo a ridomandarmi se qui dentro l’”io so” abbia ancora cittadinanza. Se qui dentro abbia ancora senso parlare di destini generali, se qui dentro abbia ancora senso parlare di futuro, se abbia senso parlare della funzione di noi insegnanti. Inizio a fantasticare. Se davvero come negli anni Settanta potessi oggi entrare nella mia classe e pronunciare il mio editoriale a voce sul fatto del giorno, questo muoverebbe le coscienze dei ragazzi? Certo che lo farebbe. Lo ha fatto tantissime volte solo quest’anno appena trascorso. E non ci sarebbe nemmeno necessità di scomodare chissà quale Processo alla classe politica di turno o analisi sulla contemporanea mutazione antropologica. No, all’insegnante potrebbe bastare raccontare il Medioevo. O risolvere una disequazione, sì, risolvere una disequazione. Perché poi è vero che noi insegnanti ci meritiamo di essere detti intellettuali. Perché continuiamo nonostante tutto ad entrare in classe. Perché riconsegniamo verifiche corrette sapendo quanto è importante. Perché a volte lo facciamo tirando la notte fino a tardi. Perché non diamo solo la colpa al collega, al dirigente, al ministro, al sistema. Spesso la diamo a noi stessi. Perché vediamo il mistero dei ragazzi, delle loro famiglie, della loro provenienza. Perché sappiamo usare un pc anche se ci basterebbe giusto la parola. Perché lavoriamo bene, perché facciamo di tutto per farlo. Perché rincorriamo da una vita la lezione perfetta, portando continuamente secchiate di senso all’unica occasione di crescere concessa a tanti ragazzi. Perché tremiamo difronte alle valutazioni avvertendo il peso di squadrare l’informe di una persona che inizia a vivere. Perché sappiamo parlare, soprattutto sappiamo ascoltare. Perché ci piace quelle che insegniamo. Perché non ci annoia quello che insegniamo. Perché leggiamo montagne di libri e non abbiamo mai smesso di studiare. Perché vogliamo conoscere e vogliamo far conoscere. Perché tutte queste affermazioni generano voglia di tornare immediatamente in classe e aprire il manuale. Perché «permettiti pure, parla per noi».

Ritorno a casa

Ho salutato Luperini. Ho visto qualche ragazzo farsi autografare il manuale. Del resto in questi tre anni quello è forse il libro che più di ogni altro hanno letto. In auto verso Perugia ripenso all’incontro, poi all’improvviso dal bagaglio della memoria mi torna in mente un ricordo vecchio quindici anni. Il mio primo anno da insegnante, un istituto professionale, proprio ad Assisi. Una scuola difficile, classi terribili. Conobbi un’insegnante veneta ad un anno dalla pensione. Per vent’anni era rimasta in quella scuola. Vent’anni. Una persona mite, dal tono di voce pacato, molto riservata. Una signorilità d’altri tempi. Eppure era famosa perché riusciva a mantenere la calma in classi davvero fuori controllo in altre ore. Io l’avevo ammirata, stralunato e da lontano, per mesi. Alla fine dell’anno ruppi gli indugi e le feci la domanda che mi ero portato dietro tutto l’anno.

«Ma scusa Anna. Avrai un punteggio altissimo. Ma perché non ti sei fatta trasferire da un pezzo al Liceo? Chi te lo fa fare di rimanere qui?».

Lei mi regalò un sorriso, questo lo ricordo nitidamente. Ricordo anche che disse che era stata una scelta consapevole che avrebbe rifatto mille volte. E poi, sarà la suggestione della mattinata con Luperini, sarà l’emozione del ricordo, ma a me a distanza d’anni pare proprio che ad un certo punto concluse con queste parole «e poi, ricordalo, siamo intellettuali e ci dobbiamo comportare come tali».

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Fotografia: G. Biscardi, Busto di gesso

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