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Formazione di compromesso e migranti. Una replica a Pontolillo

Pubblichiamo la replica di Valentino Baldi all’intervento di ieri di Giovanni Pontolillo, intervento che a sua volta rispondeva al pezzo di Valentino Baldi “Qualche considerazione su formazione di compromesso e crisi dei migranti“.

 

Un grande temporale
per tutto il pomeriggio si è attorcigliato
sui tetti prima di rompere in lampi, acqua.
Fissavo versi di cemento e di vetro
dov’erano grida e piaghe murate e membra
anche di me, cui sopravvivo. Con cautela, guardando
ora i tegoli battagliati ora la pagina secca,
ascoltavo morire
la parola d’un poeta o mutarsi
in altra, non per noi più, voce. Gli oppressi
sono oppressi e tranquilli, gli oppressori tranquilli
parlano nei telefoni, l’odio è cortese, io stesso
credo di non sapere più di chi è la colpa.
Scrivi mi dico, odia
chi con dolcezza guida al niente
gli uomini e le donne che con te si accompagnano
e credono di non sapere. Fra quelli dei nemici
scrivi anche il tuo nome. Il temporale
è sparito con enfasi. La natura
per imitare le battaglie è troppo debole. La poesia
non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi.

Rispondo con una poesia famosa di Fortini ed una breve nota alla lunga replica di Giovanni Pontolillo, che ringrazio molto per aver letto con tanta serietà quello che ho scritto e per aver risposto in modo così appassionato e completo. Ci tengo molto a rispondere anche perché temevo già, mentre scrivevo, che la tesi di fondo del mio scritto su migranti e formazione di compromesso potesse essere “rischiosa”. Pontolillo ha infatti subito colto una mia preoccupazione quando scrive, in apertura, che lasciare voce, anche per un attimo, a chi parteggia per i “respingimenti” dei migranti possa essere pericolosamente vicino alle posizioni della destra xenofoba. Ecco io penso che, da questo punto di vista, le posizioni di chi sostiene l’apertura incondizionata e quelle di chi, invece, sposa la tesi opposta di una chiusura delle frontiere siano davvero inconciliabili, di lì l’aspetto utopistico della formazione di compromesso con cui mi proponevo di leggere il fenomeno. Scrivevo anche in un momento in cui erano ancora fresche le immagini di una Germania che apriva le sue frontiere a qualche centinaio di profughi, sotto le telecamere e con gli auspici di una folla acclamante che brandiva cartelloni con scritte meravigliosamente ipocrite come “siate i benvenuti”. Una bella dimostrazione di tolleranza da parte di una potenza che tiene in scacco da anni l’Unione Europea, in particolare quel mercato dell’Europa orientale a cui non ha mai smesso di guardare e da cui attinge da decenni forza lavoro. Quelle immagini mi avevano estremamente impressionato, visto che, a proposito della necessità di andare alle radici dei problemi, l’apertura di un fronte “orientale” nell’Europa dell’immigrazione aveva anche riaperto ferite che risalgono a un secolo fa, o anche di più. Penso al problema di una Germania che ha sempre premuto politicamente, economicamente e militarmente su popolazioni polacche, slovene e ceche, vittime di un’occupazione violenta e sanguinosa durante il secondo conflitto mondiale. Ancora oggi la questione tedesca è una ferita aperta per quei popoli, che per i tedeschi lavorano, ma che mal tollerano la vicinanza geografico-economica: dunque la posizione di una Germania che, in nome di un’Europa monetaria, impone agli slovacchi (per fare un solo esempio) un’accoglienza forzata, un imperativo umanitario grottesco – visto che non c’è modo di rifiutarlo – mi ha fatto ripensare alle posizioni che ho sempre avuto, che sono, in sostanza, identiche a quelle di Pontolillo, così come a quelle di molti con un po’ di buon senso. Mentre scrivo, lo scenario è di nuovo mutato, la Svezia ha appena fatto sapere di aver sospeso gli accordi Schengen per questioni di sicurezza fino a dicembre, così ha fatto Malta, che fino al 5 dicembre sarà fuori dai medesimi accordi “per questioni di sicurezza” ed ora chissà quali saranno le reazioni di Parigi dopo i nuovi attentati a cui abbiamo appena assistito. Vivo da sei anni sull’isola di Malta ed è ovvio che questa posizione geografica mi ha molto sensibilizzato. Non ho mai studiato il fenomeno da un punto di vista statistico, l’ho seguito sui quotidiani e sulle riviste a disposizione del grande pubblico, però sono anni che visito gli open centers e i detention camps, intervisto guardie ed ex-detenuti oggi in libertà, mi informo sulla situazione locale, specchio di un fenomeno mostruoso e molto ampio. Dunque sono sei anni che mi interesso di simili questioni da una prospettiva strana, di chi è parte colpevole dell’Europa dei vantaggi, ma che vive da straniero in una terra in cui non è nato e di cui non parla la lingua (semitica).

L’idea che mi ha mosso nella scrittura di quel pezzo è stata uno sforzo di comprensione, un tentativo di entrare dentro un punto di vista quanto mai lontano dal mio. Forse è stata una forma di masochismo, oppure un tentativo strano di trovare una mediazione: la scena della cena che ho inserito nel pezzo è vera. E non posso che ribadire il mio imbarazzo nel trovarmi davanti a persone che sostengono che “non c’è posto per i migranti”, ma l’imbarazzo è lo stesso che provo per chi, aproblematicamente, urla il contrario. Dal mio punto di vista la questione è così seria che è necessario capirne le ragioni profonde (questo lo riconosce Pontolillo) che spingono migliaia di persone a rifiutare di aprire le frontiere e dare ospitalità a flussi che continuano a susseguirsi copiosi, in altre parole devo, voglio, sforzarmi di capire quelle posizioni che sento così lontane dalle mie. Il punto critico è proprio l’Unione Europea, che è unione di monete e non di popoli. Fino ad oggi l’Europa è stato lo spauracchio di cui i politici nazionali hanno abusato per risolvere le questioni locali: ci sono troppi migranti? È colpa dell’Europa! Siamo in difficoltà economica? È colpa dell’Europa! Perdiamo il lavoro? È colpa dell’Europa e degli stranieri che vengono a prendercelo. Come straniero che va a prendere il lavoro di altri dico che così non può continuare: la crisi dei migranti sta mettendo in luce tutte le debolezze di simile sistema. È inutile e anche sbagliato prendersela con chi, a causa di problemi immediati e contingenti (di cui chi ci governa ha solo una vaghissima idea), protesta contro i migranti. L’unica cosa da fare è premere per un’unione politica effettiva, per un governo centrale europeo che possa davvero agire compatto, al di là degli interessi (economici) dei singoli paesi. Ma non ho visto Renzi, Merkel o Hollande guardare a questo: solo a soluzioni a brevissimo termine, mentre guardano la popolazione che subisce sulla propria pelle l’arrivo di un fiume di disperati. Quando senti che anche in città italiane con una tradizione di sinistra secolare la gente inizia a lamentarsi perché non si può più vivere nei centri storici, perché le ragazze non possono più girare sole, perché aumentano i disordini e precipita la qualità della vita, non mi sembra possibile chiudersi nelle proprie convinzioni (per quanto giuste) e ribadire all’infinito quello in cui si crede: la verità non basta da sola, il nostro è un esercizio di dialogo e conflitto, ma il dialogo è il punto iniziale in cui è fondamentale capire le ragioni dell’Altro, sia quando l’altro è un siriano affamato che ci chiede di sopravvivere, che quando si tratta di un cocciuto e poco tollerante vicino di casa sordo ai problemi umanitari. Chi paga veramente la crisi dei migranti? Non credo Renzi, e nemmeno chi vive in quartieri di lusso: la pagano, spesso, le classi più base, chi è proiettato in una convivenza che non ha la forza di combattere. Radicalizzarsi non farà che aumentare il disagio, aumentare la xenofobia e arricchire le schiere di Alba Dorata, Lega o Movimento 5 Stelle (che è da sempre stato un movimento molto ambiguo sul problema dei migranti, dato l’ampio il bacino di estrema destra da cui attinge): è necessario capire che fra i tanti che rifiutano i migranti non c’è solo ignoranza o interesse, ma paura. È necessario fargli capire che anche noi abbiamo paura, ma che la nostra paura si può orientare nella giusta direzione. Noi intellettuali (non trovo una parola più adeguata, ma forse è questa la parola che dovremmo ricominciare ad utilizzare) dovremmo essere in grado di capire che chi paga immediatamente il prezzo delle migrazioni è spesso incapace di capirne le ragioni profonde e si lascia guidare da una irrazionalità oceanica e simmetrica: è qui che si focalizzava il mio discorso. Il nostro compito è convincere loro, sono loro il nostro pubblico, ripetere come litanie a noi stessi le cose che sappiamo già non ci porterà da nessuna parte. Prima di schierarci, o meglio, prima di urlare a nostra volta che le posizioni di chiusura sono inaccettabili, sarebbe auspicabile discutere, convincerli che siamo dalla stessa parte e che le nostre tante particolarità possono comporsi in una protesta finalmente nella direzione giusta. Forse questo è un modo errato di vedere la questione, ma è anche quella stupenda formazione di compromesso che leggo nel finale di Traducendo Brecht: fra i nomi dei nemici scrivi anche il tuo, è quello che ho sempre cercato di fare. Per combattere assieme, dunque, e non soli contro il mondo.

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