Una risposta a Valentino Baldi sull’immigrazione
Pubblichiamo un intervento di Giovanni Pontolillo in risposta al pezzo di Valentino Baldi uscito il 21 settembre 2015.
Una questione urgente
Il tono scarsamente conciliante di questa risposta si deve all’urgenza dei problemi suscitati ma lasciati in ombra da un articolo che Valentino Baldi ha dedicato al fenomeno delle migrazioni di massa, letto freudianamente come formazione di compromesso. Questa la tesi: «la mia formazione di compromesso è questa: sbaglia chi dice “tornate a casa vostra”, e questo era forse abbastanza scontato, e sbaglia chi dice “venite qui, c’è posto per tutti”».
Dire no alla ospitalità può consentire spazi di manovra alle destre xenofobe, che organizzano il consenso popolare rintracciando nei flussi migratori la causa economica, politica, sociale dei conflitti. La negazione del bisogno di accoglienza si risolve solitamente nell’utilizzo di barriere fisiche, inerti o umane. Alle spalle del Mediterraneo, su un fazzoletto di terra vasto non più di 20 chilometri, si estende la città di Ceuta, formalmente spagnola ma de facto in territorio marocchino. Il 6 febbraio 2014 la Guardia Civil lancia fumogeni in direzione dei migranti che provano a superare la barriera di confine tra il territorio spagnolo e quello marocchino. Raffiche di spari con proiettili di gomma provocano la morte per annegamento di 15 uomini che si tenevano a galla grazie a degli pneumatici. I 23 superstiti sono stati respinti e mandati indietro. Costruita in posizione nevralgica, all’ingresso dello stretto di Gibilterra, Ceuta è da sempre terreno di conflitti. Il 22 agosto 1415 Enrico il Navigatore la conquista strappandola ai Merinidi. È il primo possedimento portoghese in Africa. Nelle acque della «Manica mediterranea», ricorda Braudel, i portoghesi sperimentano la navigazione transoceanica: è da Ceuta che gli esploratori europei si lanceranno alla conquista del Nuovo Mondo. L’imperialismo rimosso ritorna nella forma perturbante dei cadaveri galleggianti di Ceuta, dei morti di Lampedusa, degli sgomberi di Ventimiglia, dei volti disperati alla stazione di Budapest. È questo il represso che dobbiamo ricondurre a una logica, a cui dobbiamo dare una risposta.
La necessità della chiarezza
I fatti di Ungheria illuminano chiaramente la via del rifiuto dell’accoglienza decisa da alcuni paesi. Nuove mura stanno per essere edificate ai confini del Castello, per difendere la legittimità dei consumi e dello sfruttamento. Dal punto di vista di Baldi è «miope attaccare a testa bassa i migranti senza rendersi conto delle origini dei problemi», ma al tempo stesso «è rischioso ostentare un’apertura totale senza essere davvero pronti ad assumersene tutti i rischi». Un maestro, György Lukács, ci ha insegnato la necessità della chiarezza. Perché si capisca «dove siamo, dove porta lo sviluppo, che cosa possiamo fare per influenzare il suo corso» bisogna nominare quelle «origini» e rilevare le contraddizioni di quanti sono causa degli spostamenti di massa. Mentre scrivo la Slovenia ha annunciato di voler costruire una barriera al confine con la Croazia. Il parlamento ungherese ha approvato l’invio di 3500 soldati ai confini con la Serbia autorizzandoli ad usare gas lacrimogeni, pallottole di gomma e granate assordanti per respingere i profughi. La barriera di filo spinato che segna il confine tra Ungheria e Serbia è compiuta, ma Orbàn già prevede l’estensione del diritto di segregazione fino alle frontiere romene e croate. Mi chiedo cosa succederà quando la chimica e il ferro non saranno più sufficienti ad allontanare quanti reclamano la possibilità di vivere in contraddizioni diverse da quelle che quotidianamente sperimentano. Angela Merkel ha fatto pubblica promessa di accoglienza, salvo poi ritrattare, specificando che l’ospitalità è riservata unicamente ai “profughi” – e non ai cosiddetti “migranti economici” – provenienti “da paesi insicuri”. Il Regno Unito ha seguito la direzione della cancelliera tedesca; le altre nazioni del gruppo Visegrad (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia) e i paesi del Baltico si rifiutano, ormai da anni, di accogliere chicchessia.
Isolamento, sfruttamento
Non sbaglia chi dice «venite qui, c’è posto per tutti». È nell’errore chi progetta l’omogeneizzazione forzata, chi attraverso facili mitologemi contribuisce a rendere gli uomini tutti indistintamente funzionali al profitto. Sentiamo ripetere sempre più spesso che “non c’è posto e lavoro per tutti”; sembra lecito chiedersi se questo dipenda o meno da determinate scelte di politica economica. È compito di quanti intervengono pubblicamente contestualizzare i fatti umani mettendoli in relazione a scelte economiche più ampie, analizzandone i moventi politici, storicizzando i movimenti umani su un arco temporale di lunga durata. Significa nominare i nemici, perché tutti possano conoscerne i volti e comprendere le ragioni che li muovono. È previsto che i migranti localizzatisi su un territorio siano – quando non sono rispediti nei territori d’origine – detenuti nei “centri di accoglienza” o sospinti in direzione delle periferie, dove individui di provenienza e culture differenti interagiscono in modo necessariamente conflittuale con quegli strati della popolazione che occupano i quartieri periferici. Se questi esercitano la violenza è per necessità (sopravvivere agli scontri tra bande) o reazione all’emarginazione lavorativa, sociale, sessuale, politica a cui sono sottoposti. L’isolamento è funzionale allo sfruttamento: i migranti accolti dal volto buono di Angela Merkel saranno presto utili ad oliare la macchina economica tedesca o utilizzati strategicamente da Schäuble per organizzare il consenso attorno al proprio partito. Se la Germania neoliberista del Cdu-Csu deciderà una politica di accoglienza lo farà unicamente per evitare lo spostamento di voti a sinistra o l’emergere di partiti nazional-populisti, che sulla scia del nostro Movimento 5 Stelle potrebbero acquisire consensi. Non possiamo aspettarci dall’Unione Europea e dagli attori che gli gravitano attorno una politica comune che vada in direzione dell’ospitalità. Non dobbiamo aspettarci nessuna disponibilità o apertura dall’Europa che ha organizzato la disfatta della sinistra greca, rea di aver messo in questione le politiche economiche che oggi decidono assai più spesso della morte che della vita di milioni di uomini e donne.
Via mare dalla Libia
In Europa non si dà alloggio, ma si confiscano le case dei tanti inconsapevoli sottoposti al giogo del debito, alle fluttuazioni del mercato, alle divisioni sul lavoro. Non ci si unisce per cooperare ma per offendere le barche degli scafisti, che colano a picco – insieme ad alcune decine di uomini e donne – al largo delle coste libiche. Hanno chiamato EuNavForMed l’operazione che ha lo scopo di ridurre il flusso migratorio via mare dalla Libia verso il Mediterraneo centrale. Gli stati europei prevedono interventi militari via terra, con lo scopo dichiarato di arginare le operazioni degli scafisti; non si escludono azioni dirette nei pressi delle riserve petrolifere, che sono – ci insegna la storia di quel paese – il punto cruciale di queste guerre spacciate come operazioni di controllo delle frontiere. Ciò che si tenta di tutelare sono gli «scambi forzati», gli interessi commerciali dell’una e dell’altra parte. Quattro anni fa si decise di risolvere “il problema degli immigrati” inviando qualche decina di caccia a supportare i bombardamenti sulle postazioni di Gheddafi, mentre lo stesso raìs veniva assassinato dai miliziani ribelli, non senza il prezioso aiuto dei servizi francesi.
Le migliaia di migranti libici che attraversano il Mediterraneo sono solo una esigua parte dei milioni di profughi che nell’ultimo decennio si sono spostati in massa da altre regioni dell’Africa subsahariana: esseri in fuga dalle dittature, dalle violenze, dalla fame. Tanti di questi uomini e donne sono stati spinti a trasferirsi in territorio libico dalla svolta africanista di Gheddafi, che una dozzina di anni fa decise di cambiarsi il vecchio costume di custode del panarabismo per mettere in scena la nuova farsa. Da alfiere del terrorismo internazionale di matrice islamica a “protettore dei popoli d’Africa”. La costante ricerca di lavoratori sottoqualificati da impiegare nella piccola e media impresa lo ha spinto a richiamare uomini dalla Nigeria, dal Ciad e dal Sudan. In questo modo, egli si è illuso di poter svincolare l’economia libica dagli smottamenti del prezzo del greggio, salvando la nazione dalla crisi generale. È la disperazione dell’ingiustizia che ha mosso i giovani dei movimenti protagonisti delle rivolte arabe del 2010-2012. Sull’onda di quanto accadeva in Tunisia e in Egitto, i libici hanno innescato delle insurrezioni armate. Gli oppositori di Gheddafi si sono organizzati per lanciare un appello alla popolazione, sfociato nel “giorno della collera”. Dopo la rivolta, i media internazionali hanno presentano la guerra civile libica come uno scontro impari tra popolazione oppressa e un regime violento e oppressore. Sui termini del secondo non nutro alcun dubbio. Tuttavia, i ribelli “oppressi” non erano inermi, ma hanno ricevuto il supporto delle forze speciali e i servizi di intelligence americani, inglesi e francesi. Gli oppositori si sono compattati in un Comitato nazionale, supportato tatticamente dalle forze Nato, mentre Tripoli veniva assaltata da milizie che si richiamano al salafismo radicale e armato. Ne fanno parte ex mujahidin, attivi in territorio libico fin dal ritiro sovietico dall’Afghanistan (era il 1989). La dura repressione delle contestazioni provenienti da gruppi collocabili nell’orizzonte dell’islamismo moderato ha prodotto negli anni Novanta una brutalizzazione della politica e il ricorso al terrorismo come unica possibilità di contestazione nei confronti del regime. È successo in Tunisia, Nigeria, Egitto, Palestina, Iraq e nel resto del mondo arabo. Questi gruppi hanno potuto proliferare in Libia anche grazie alle concessioni dei gheddafiani, che ne hanno permesso la libera circolazione, fino al giorno prima della “collera”. È la necessità di scatenare il disordine pur di non perdere il controllo del Palazzo. Al-Asad e Mubarak hanno attuato questa strategia in Siria ed Egitto, amnistiando centinaia di criminali per creare scompiglio nei movimenti.
Per due anni il Congresso libico ha governato con maggioranza liberale e relativamente laica. Sembrava compiersi il disegno “democratico” degli Stati Uniti e dei suoi alleati europei, che hanno spinto la loro longa manus sulle rivolte arabe nel tentativo far sfociare i conflitti in governi pseudodemocratici con cui tessere accordi e scambi commerciali. Dove non ci sono riusciti hanno preferito ritirarsi e finanziare i golpisti, o lasciare spazio ai monarchi del Golfo, con la consueta trafila di armi e finanziamenti ai gruppi terroristici. In Tunisia, dove la rivoluzione è nata con il sacrificio nel fuoco di Mohamed Bouazizi, si gode di una relativa socialdemocrazia. Nel resto del mondo arabo la reazione non ha tardato a mietere vittime. In Egitto le proteste di piazza Tahrir e le rivolte successive hanno avuto una genesi eminentemente borghese, non violenta, e dichiaratamente a-ideologica (ciò non significa che non vi siano state una o più ideologie a guidare la rivolta). Quindi necessariamente distante da qualsiasi riferimento all’Islam. I giovani egiziani auspicavano per la propria generazione e per quelle successive la separazione dei poteri, la fine del controllo repressivo, un uso possibile del proprio presente diverso dal futuro che altri avevano previsto per loro. In alcuni paesi del mondo arabo la transizione dal modello economico sovietico a un capitalismo liberista è segnato da colpi di stato (Ben Ali nell’87 aiutato dai nostri servizi segreti), diffusione della corruzione, esaltazione delle differenze di classe, assottigliamento del ceto medio e condanna dei potenziali intellettuali (laureati, esperti di nuovi media, ecc.) ad una vita di stenti – nel migliore dei casi – o all’esilio, carcere, tomba. È il vecchio modello “Cile 1973” che torna attualissimo. Lo abbiamo visto in azione in Egitto, dove in seguito alle proteste contro il neopresidente Morsi, l’esercito guidato dal generale al-Sisi ha preso il potere con un colpo di stato, finanziato dagli 1,3 miliardi di dollari annuali che gli USA hanno versato all’Egitto da Camp David ad oggi. Da quando gli Stati Uniti hanno stabilito che Israele deve essere l’ago della bilancia del Medio Oriente hanno cercato costantemente di mantenere viva la santa alleanza tra egiziani e israeliani. Il generale al-Sisi, alfiere dell’antislamismo, ha inaugurato il regno con il massacro di Rabaa. La polizia egiziana ha sparato sulla folla dei manifestanti, simpatizzanti dei Fratelli Musulmani che chiedevano la riabilitazione di Morsi, ammazzando oltre duemila uomini e donne. Non sarà, per caso, che alcuni sopravvissuti abbiano pensato di lasciare l’Egitto per la Libia e la Libia per Lampedusa? Durante le rivolte, una delle parole chiave che echeggia da piazza Tahrir a piazza delle Perle è karama. In arabo significa dignità.
Strategie, semplificazioni, rivoluzioni
L’attuale strategia americana di controllo dei conflitti intende evitare l’interventismo sbilenco alla Bush. Si preferisce aspettare che gli attori locali si scannino a dovere, intervenendo direttamente solo quando una potenza diventa egemone. Oppure si fa guerra per ragioni puramente mediatiche (gli americani e l’Europa devono difendere la democrazia dagli attentatori ecc.). Quando Asad ha mandato a morte a migliaia di persone usando le armi chimiche si è evitato l’intervento solo “grazie” all’intromissione della Russia, che ha scaricato la responsabilità della strage di Gutha sui ribelli. “Per fortuna” ora le scorie delle armi chimiche sono nel Mediterraneo a fare compagnia a centinaia di migliaia di cadaveri. Possiamo dimenticarci delle due guerre che hanno straziato il secolo breve, dove non era troppo complicato individuare vinti e vincitori. Dopo la parità atomica è difficile che un conflitto si risolva in uno scontro diretto. Quando non si organizzano raggiri e strozzature economiche si fa guerra per procura.
È accaduto in Libia, dove Qatar, Arabia Saudita e Emirati hanno combattuto la loro guerra fredda. I primi hanno finanziato il jihadismo, i secondi hanno usato il pretesto della lotta al “terrorismo islamico” per spezzare il consenso dei Fratelli Musulmani, che durante le rivolte hanno avuto un ruolo di primo piano. I sauditi e i loro alleati hanno interesse a mantenere lontane dalle terre del petrolio le idee di libertà, dove è necessario che nessuno si sposti di un millimetro dagli indottrinamenti del wahabismo ortodosso. Quando il Congresso libico è diventato a maggioranza filoislamica, il Napoleone di turno ha portato a termine un colpo di stato con l’aiuto degli ex-ufficiali di Gheddafi. I militari hanno l’hanno definita Operazione Karama. Il generale Haftar è stato ai vertici dell’esercito di Gheddafi e fin dagli anni Ottanta ha svolto servizio di consulenza per la CIA. Dopo le successive elezioni, da cui i partiti islamisti sono usciti sconfitti, la Libia si è definitivamente spaccata in due blocchi, ad est e ovest del paese. Al centro della Libia, nella «mezzaluna petrolifera», lo Stato Islamico manovra e controlla i pozzi. La serpe dell’ostilità antislamica, anche rispetto all’Islam moderato, si è mossa dall’Egitto golpista all’Africa settentrionale. La macchina mitologica di alcune delle monarchie del Golfo ha prodotto l’assimilazione in blocco delle tendenze moderniste dell’Islam al lottarmatismo jihadista. Allo stesso tempo, il governo dell’Arabia Saudita ha finanziato il salafismo armato per allontanarlo da casa propria – visto che ne ha subito i contraccolpi durante gli anni Ottanta e Novanta – e per colpire la diffusione dello sciismo, con lo scopo ultimo di mantenere l’egemonia del Golfo.
Quando la “primavera araba” ha risvegliato i siriani, le proteste erano esplicitamente non violente. Il regime ha dovuto ammazzare molti uomini e donne prima che alcuni gruppi di protesta decidessero di imbracciare le armi. Alcuni di questi sono confluiti nell’ESL (Esercito siriano libero), che ha catalizzato la maggioranza dell’opposizione sunnita. Questa si è scatenata dopo che Asad ha colpito i luoghi sacri del sunnismo, per alimentare l’odio religioso tra alawiti e sunniti siriani, che nella narrazione del regime punterebbero a rovesciarlo per imporre la propria confessione. La verità è un’altra. Le rivolte arabe non avevano come fine ultimo l’istaurazione di una confessione religiosa, diversamente dalla rivoluzione khomeinista. Sebbene l’Islam sia presente come visione del mondo di una parte consistente dei ribelli, gli slogan sono altri, puntano alla restituzione dei valori violati. Le richieste sono di libertà, giustizia e dignità della persona. La strategia della tensione di Asad, che ha attribuito una serie di attentati dinamitardi ai “fondamentalisti islamici”, ha offerto ai finanziatori del jihadismo la narrazione adeguata alla sua diffusione: la minoranza sunnita (i ribelli) sono repressi da un regime sciita (gli alawiti) alleato dell’Iran.
Questo mito semplificato ha permesso allo Stato Islamico di avanzare semi-indisturbato in Siria, dove ha trovato l’unica opposizione nei curdi del Rojava. L’avanzata dell’islamismo militarizzato ha provocato flussi migratori di migliaia di persone, in fuga verso la Turchia. Erdogan, quando non è impegnato ad attribuire ai jihadisti la colpa di indiscutibili stragi di stato, lascia che i miliziani siano liberi di attraversare il confine turco-siriano. Le stragi di Diyarbakir, Suruc e Ankara sono avvenute durante manifestazioni pacifiche della sinistra curda, che negli ultimi anni ha progressivamente guadagnando consensi elettorali. Li ha persi di colpo dopo le ultime elezioni. Erdogan ha vinto creando un clima di instabilità e insicurezza, riuscendo ad attirarsi le simpatie e i voti dei nazionalisti. Il sultano vorrebbe prendere il posto vuoto che Asad dovrebbe lasciare dopo la caduta. Parlo al condizionale perché non credo che Asad cadrà a breve. La spaccatura all’interno dell’opposizione è troppo forte e gli USA non hanno alcuna intenzione di perdere un importante fattore stabilizzante rispetto ad Israele, che continua abusivamente ad occupare 2/3 delle alture del Golan. L’intervento russo cancella ogni possibilità di risoluzione della crisi. Con il supporto dell’asse sciita, gli aerei russi con il pretesto dell’IS stanno colpendo i ribelli dell’ESL, coprendo l’avanzata dell’esercito lealista, che sta riguadagnando posizioni. Dopo il primo atto ucraino, che si è concluso con la federazione di alcune regioni al blocco russo e la ristrutturazione del debito di Kiev da parte dell’FMI, stiamo assistendo alla seconda parte della guerra fredda tra la Russia e il vecchio blocco atlantico. Rivediamo, come in un déja-vu, le immagini di un conflitto che noi – nati dopo il 1989 – abbiamo potuto conoscere solo attraverso i libri di storia, e ne intuiamo chiarissime le ragioni.
Una vecchia intervista di Fortini e la necessità di organizzare il dissenso
Non abbiamo nessun bisogno di essere rassicurati sul fatto «che alla seconda o terza aggressione il [nostro] punto di vista sull’immigrazione cambierà sensibilmente». La constatazione di un alto livello di conflittualità sul territorio non deve impedire di ragionare sui motivi politici che presiedono alla organizzazione umana di un determinato quartiere. Nella visione di Baldi la conoscenza politica dei fatti – preludio necessario a una scelta, a una presa di posizione – è rimandata alla coscienza morale dei singoli individui. Ma il problema non sta nella coscienza dei singoli individui, ma nella comprensione collettiva di quelle «origini» storiche che egli non si cura di nominare.
Dice Franco Fortini, in una vecchia intervista a Maggiani: «Viviamo contemporaneamente nell’universo della razionalità scientifico-tecnologica e nella non razionalità, che è quella, direbbe Matte Blanco, della logica simmetrica, secondo la quale una cosa è se stessa e l’inverso di se stessa, l’una e l’altra, eliminando il processo dialettico. Tutto è dominato o dall’identificazione (la vita è la morte, la morte è la vita) o dall’universo della logica formale di tipo cibernetico o elettronico per la quale gli impulsi sono 0 e 1, sì e no». Deve finire la pratica intellettuale che tende a ridurre l’interpretazione a una questione binaria. Si deve evitare accuratamente l’analisi sociologica che ha la pretesa di decostruire oggettivamente senza scegliere una posizione politica. Mi rendo conto dell’attuale impossibilità di riconoscere delle forze che aprano spazi politici di contestazione dell’ideologia neoliberista e capitalista. Tuttavia, ritengo che non dobbiamo limitarci a denunciare l’incoerenza e l’altrui volgarità. Piuttosto è necessario riconoscere che questa diffusa impossibilità è il risultato di una sconfitta su cui dobbiamo tornare a ragionare. Gli interventi che si svincolano dal tentativo di chiarire l’attualità dei conflitti storici contribuiscono indirettamente alla produzione di una ideologia della non ideologia, di una non-scelta che è la scelta di curarsi unicamente del privato, contribuendo all’alimentazione del mondo in cui viviamo.
Sono ugualmente destinate ad essere sconfitte, oggi, quelle forme di militanza che persistono nella pratica quotidiana e specifica, nel senso delle lotte territoriali. Il rispetto che si deve al lavoro delle persone che quotidianamente usano la propria vita non deve esimerci dall’osservare la frammentazione di questi gruppi. Lo dico senza una punta di ironia, l’azione a corto raggio – se non è accompagnata da più ampi coordinamenti – paga unicamente in termini di divisione e isolamento. È necessario unire le forze, unirsi in gruppi, usare le proprie energie mentali, abilità particolari, specializzazioni per rifunzionalizzare ogni spazio di discussione e intervento culturale, per informarsi a vicenda, tra gruppi e organizzazioni locali, avviando percorsi collettivi di autoformazione e intervento pubblico. Organizzarsi e organizzare il dissenso a partire dal disagio quotidiano, dagli spazi dove c’è aria (anche stantia) di cultura (scuola, università, ecc.), tenendo gli occhi ben aperti ai possibili spazi di lotta, che necessariamente torneranno ad aprirsi.
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