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diretto da Romano Luperini

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Algeri e un romanzo

Lo scrittore Amara Lakhous ci parla di Algeri, del fondamentalismo, della dittatura, di una società in crisi. E di come abbia attraversato e raccontato la crisi di una civiltà e di una generazione nel suo primo romanzo, Un pirata piccolo piccolo. Il romanzo è la storia di un uomo che si accorge all’improvviso di come la sua età e la sua stessa esistenza gli siano state rubate. Ripubblichiamo qui un testo «caro» all’autore, già pubblicato come introduzione al romanzo (Edizioni e/o, 2011).

 

Algeri, 1993

Algeri, 1993. Avevo ventitré anni. Il terrorismo stava entrando con prepotenza a far parte della nostra vita quotidiana, e la situazione non prometteva niente di buono: i militari, attraverso l’imposizione dello stato d’emergenza, intervenivano per “salvare la neonata democrazia”, in realtà i propri interessi personali. I fondamentalisti, autoinvestitisi di una missione salvifica, tentavano di instaurare una teocrazia talebana sulle rive del Mediterraneo.

Ogni giorno che passava lasciava morte e sangue per le strade, pessimismo e disfattismo nel cuore. Bastava un briciolo di lucidità per rendersi conto che ci trovavamo nel bel mezzo di una guerra civile e che il peggio doveva ancora arrivare. Gli ex combattenti della guerra di liberazione si erano impossessati della rivoluzione vinta contro la Francia colonialista. Avevano creato una casta di privilegiati e trasformato l’Algeria in un bottino di guerra. I fondamentalisti, a loro volta, si erano impossessati dell’Islam, e consideravano tutti coloro che la pensavano diversamente come dei miscredenti da combattere.

Nell’89 mi ero iscritto alla facoltà di Filosofia dell’università di Algeri perché avevo voglia di iniziare a riflettere da solo, di pensare con la mia testa. Le risposte che la società mi dava non mi convincevano, avevo bisogno di elaborare una mia personale visione del mondo. Mi dovetti confrontare con una realtà molto contraddittoria: una religione in crisi, una politica in crisi, un intero paese in crisi, una società in crisi, un codice della famiglia che penalizza fortemente la donna. Da questo confronto nacque un romanzo che queste crisi racconta.

Ricordo che, ultimato il primo capitolo, lo feci leggere a un mio professore, Abdelbaki Hazerchi, uomo di grande cultura. Hazerchi m’incoraggiò, mi disse che avevo trovato una chiave narrativa originale. Quando finii di scrivere il romanzo lo feci leggere a un editore algerino, a cui piacque molto. «Ma non posso pubblicarlo» mi disse, «perché entrambi rischieremmo la vita». Giunse al punto di dirmi che mi avrebbe dato lui i soldi per stamparlo a mie spese… Insomma, a mio rischio e pericolo.

Anche gli amici a cui l’avevo dato in lettura mi dicevano che non sarei riuscito a trovare un editore in Algeria o nel mondo arabo, e così è stato. Il mio amico e scrittore Bachir Mefti scrisse a mia insaputa una recensione che fu pubblica-a su El Khabar, il più importante quotidiano algerino, nella quale – tra le altre cose – sosteneva che «la letteratura algerina esiste, anche se ora non può essere letta. Ma lo sarà in futuro».

Nel 1994 mi laureai e iniziai a lavorare alla radio algerina. Come tutti gli altri giornalisti e intellettuali, in quel periodo fui più volte minacciato di morte. Poiché non avevo nessuna intenzione di rimanere inerte ad aspettare il mio assassino, l’esilio diventò l’unica via per continuare a vivere – e a scrivere. Nell’ottobre 1995 scappai in Italia e misi nello zaino anche il manoscritto, pur sapendo che avrei rischiato grosso alla dogana. Ma non potevo lasciarlo ad Algeri. Era parte di me, quel romanzo.

Nel 1998, a Napoli, incontrai Francesco Leggio, un arabista che conosce l’arabo meglio di noi arabi, il traduttore italiano di un capolavoro della letteratura araba contemporanea, La stagione della migrazione a Nord del sudanese Tayeb Salih (Sellerio 1994). Francesco lesse il manoscritto in arabo, gli piacque e iniziò a tradurlo. Io gli feci da consulente, soprattutto per alcune espressioni del dialetto algerino di cui il romanzo è pieno, e il caso ha voluto che Francesco stesse preparando proprio in quel periodo la sua tesi di dottorato sul dialetto nel romanzo maghrebino.

Per stampare il mio manoscritto spesi tutti i soldi che avevo risparmiato. Decisi di pubblicarlo in entrambe le lingue, arabo e italiano, per una sorta di obbligo morale nei confronti dei miei amici assassinati. Il libro è uscito nel 1999 presso un piccolo editore di Roma con il titolo Le cimici e il pirata. Mille copie di tiratura, ma nessuna distribuzione.

Nascere il 29 febbraio

L’idea di base di questo romanzo mi è stata suggerita da mio fratello minore Hamid, un ragazzo geniale, dotato di una grande capacità di leggere la realtà in maniera semplice e al tempo stesso profonda. Hamid mi pone spesso delle domande curiose, particolari. Un giorno mi guarda e mi dice: «Chi nasce il 29 febbraio vive il tempo in un modo davvero strano: salta da 4 a 8, da 8 a 12, e così via». Questa considerazione mi è stata di grande stimolo proprio rispetto a quello che volevo raccontare: la storia di un personaggio che entra in crisi perché all’improvviso sente che la sua età, la sua stessa esistenza, gli sono state rubate.

Ne è venuto fuori Hassinu, un impiegato delle poste che ha quarant’anni ma non lo sa, appunto perché è nato il 29 febbraio: senza preavviso passa dai trentasei ai quaranta e si sente, come molti della mia generazione, in qualche modo scippato della propria vita. I quarant’anni son o un’età molto delicata per gli uomini, perché rappresentano una fase di passaggio: nella tradizione musulmana sono l’età della profezia, Maometto riceve la rivelazione divina a quarant’anni. Dovrebbe essere l’età della maturità, della piena realizzazione, della stabilità. Ma Hassinu ci arriva impreparato, spaventato, non sa cosa fare.

Giunto alla soglia dei quaranta Hassinu è ancora scapolo, una situazione che la società araba di fatto non ammette, poiché suscita da sempre il sospetto di omosessualità o d’impotenza, e che con il passare degli anni è diventata anche un indice di povertà, dal momento che l’uomo, tradizionalmente, è tenuto a sostenere tutte le spese connesse al fidanzamento e al matrimonio. Hassinu si ritrova in una grande città come Algeri senza poter offrire un alloggio alla futura moglie. L’istituzione del matrimonio è vista come mercato, una specie di asta in cui vince il miglior offerente: a un estremo i ricchi, che possono permettersi mogli giovani e belle; all’altro i meno fortunati, ai quali non resta che frequentare di tanto in tanto qualche prostituta. Relazioni mercenarie, amori a pagamento che a volte sconfinano in veri e propri legami affettivi.

Tagliato fuori dal matrimonio, Hassinu è un escluso da tutto. Non può vantare raccomandazioni, non può offrire servizi in cambio di qualcos’altro in una società in cui vige lo scambio di favori che inglobano in sé diritti, doveri, privilegi e persino atti illeciti, senza andare troppo per il sottile. In una società così corrotta non può sussistere uno stato di diritto. Le dittature esistono anche perché dei popoli le hanno permesse, i dittatori non nascono dal nulla, ma da contesti “favorevoli”.

Nelle società arabe la categoria di uomini a cui appartiene Hassinu si è via via allargata. Attorno al potere si è andata a poco a poco costituendo un’oligarchia ricchissima, sempre più circoscritta ai parenti del presidente, dei ministri e dei potenti di turno, mentre la maggioranza della popolazione è diventata come Hassinu: isolata, priva di appoggi e di punti fermi. Hassinu si sente minacciato quotidianamente, ha paura di essere licenziato e cacciato dal buco di casa dove vive.

Il dormiente, il bambino, il pazzo

In questo romanzo sono ben presenti i tre tabù della società arabo-musulmana, con i quali Hassinu si confronta: la politica, la religione, la sessualità. Ne viene fuori il ritratto di un’intera generazione e di un paese, l’Algeria, che ha anticipato in qualche modo tutto quello che sta succedendo oggi nel mondo arabo: gli arabi vogliono il pane, la dignità e la libertà.

La religione è una costante storica nella quale si cerca rifugio soprattutto nei momenti di smarrimento e fragilità. Ci si chiede spesso perché gli arabi siano così manifestamente, a volte ossessivamente, attaccati alla religione, o quantomeno ai suoi aspetti più prescrittivi e formali. Bisognerebbe cercarne la ragione anche nella natura dittatoriale del potere. Forse meno dittatura comporterebbe anche un minor peso della religione.

Quasi per dare una chiave di lettura ho citato in epigrafe la tradizione di Maometto che dice: “Tre sono quelli su cui è sospeso ogni giudizio: il dormiente finché non si sveglia, il bambino finché non raggiunge la pubertà e il pazzo finché non rinsavisce”. Hassinu, non riuscendo a fare i conti con la realtà di un paese dove la corruzione e la repressione la fanno da padrone, indossa tre maschere – del dormiente, del bambino e del pazzo – che sono le tre condizioni per cui nessun essere umano può essere sottoposto a giudizio, e di conseguenza a punizione, nel momento in cui vengono a mancare i presupposti della libertà di scelta e di decisione.

Nel sonno non si rischia nulla, il sonno non è la realtà, ma piuttosto una fuga dalla realtà. Quando la realtà non la puoi fronteggiare il sonno ti permette di nasconderti. La condizione del bambino è di felicità, incoscienza, innocenza. Quella del pazzo – Hassinu sfiora a un certo punto la pazzia – è una condizione di libertà illusoria. Il pazzo paga un prezzo altissimo: nessuno gli dà retta e la gente gli ride in faccia.

Mi ricordo che da piccolo, ad Algeri, incontravo spesso un uomo che camminava per la strada, poi a un certo punto si fermava e cominciava a vomitare critiche molto pesanti verso l’ex presidente della Repubblica Houari Boumedienne. Nessuno lo rimproverava o gli diceva niente, dato che era pazzo. Le cose che urlava in strada quel matto, a casa mia le dicevano tutti, mio padre, i miei zii… ma di nascosto. Da bambino questa cosa mi colpì molto, e mi chiesi già allora se fosse necessario esser pazzi per essere davvero liberi.

Ho costruito il personaggio di Hassinu su un doppio canale di comunicazione: tutto quel che Hassinu non ha la forza o il coraggio di mettere in discussione in pubblico gli ricade addosso nel privato, nel monologo interiore che diventa a volte dialogo con un alter ego, il suo membro virile, a cui dà il nome di Fertàs, “il calvo”, che diventa l’unica “persona” di cui si può fidare. Hassinu è affascinato dalla storia del suo antenato corsaro Reis Hamidou. Hassinu vorrebbe essere un pirata, per rimane un pirata piccolo piccolo.

In un paese democratico i cittadini hanno fiducia nelle istituzioni, nel parlamento, nella magistratura, nella stampa. Hassinu non ha fiducia in niente e ha paura di tutto. Teme la dittatura, non osa neanche nominarla, ci gira intorno e porta avanti un monologo ossessivo dove si confondono storia e mitologia, sogno e incubo, realtà e finzione. In questo contesto Hassinu sembra un folle, un malato di mente. E questa era proprio la mia impressione: vedevo tutt’intorno a me una massa di gente senza qualità. Le dittature producono masse di impauriti, di malati, di umiliati. Sotto le dittature i popoli tirano fuori il peggio del peggio di loro stessi, inventano modi patologici di sopravvivenza come l’autocensura, l’autore-pressione, l’autoumiliazione.

Mi ritorna in mente una barzelletta algerina della metà degli anni Ottanta. La barzelletta è una valvola di sfogo sotto i regimi totalitari. L’ex presidente algerino Chadli Bendjedid, deposto dai militari nel gennaio ’92, un giorno chiama arrabbiatissimo il segretario generale del partito unico, l’FLN, e gli mostra i giornali stranieri, Le Figaro, Le Monde, il New York Times, il Washington Times, il Guardian e altri. Parlano tutti male di lui, lo descrivono come uno spietato dittatore che opprime il suo popolo e soffoca ogni voce di dissenso. Proprio mentre in Tunisia la gente scende in strada per protestare. Chadli pensa che il fatto che in Algeria nessuno esca per le strade a manifestare il dissenso nei confronti del regime lo metta in cattiva luce. Il presidente vuole a tutti i costi delle rivolte popolari per azzittire la stampa estera. Il segretario dell’FLN gli consiglia di fare come in Tunisia: alzare il prezzo del pane. Chadli si attiene al suo consiglio, ma dopo una settimana non è successo ancora nulla. Allora il presidente chiama di nuovo il segretario, e questi gli dice di aumentare ulteriormente il prezzo del pane. Passa un’altra settimana, ma non si vede ancora nessuno che manifesti per le strade. Poiché i giornali stranieri continuano a parlar male di lui, non sopportando di essere il presidente di un popolo di vigliacchi fa radunare il popolo in piazza dei Martiri, la più grande di Algeri. Lì tiene un discorso in cui insulta la folla e dichiara che il popolo algerino non si merita un presidente come lui. Anzi, dal momento che non è sceso in piazza a manifestare, questo popolo gli ha mancato di rispetto, e quindi lui ha preso la decisione di impiccare tutti, nessuno escluso.

Se fino ad allora nessuno aveva fiatato, a un certo punto, in lontananza, si alza una mano. Il presidente, contento che vi sia qualcuno che abbia il coraggio di farsi avanti, invita il cittadino a salire sul palco per parlare con lui. L’uomo, timidamente, sale sul palco. Chadli lo sprona a parlare e quello gli dice che vorrebbe un semplice chiarimento: dato che dovranno essere tutti impiccati, la corda per il cappio gliela fornirà il presidente o dovranno portarsela da casa?

Senza memoria, senza verità

Questa barzelletta era l’emblema dello stato di rassegnazione in cui versava il popolo algerino. Poi, nell’ottobre 1988, i giovani scesero in strada e distrussero i simboli dello stato corrotto: ministeri, sede del partito unico e commissariati. Purtroppo in quel periodo non c’era ancora Internet quindi solo dopo parecchi giorni all’estero si è saputo quel che era successo nel paese. Allora il potere riuscì a sedare la rivolta in pochi giorni, ricorrendo ad arresti e torture. L’esercito sparò sui manifestanti e questo determinò una frattura insanabile. Di fronte alla rivolta popolare la nomenklatura decise di creare una parvenza di sistema democratico, ma non si preoccupò di risolvere i problemi veri del paese, come la corruzione, il nepotismo, la concentrazione della ricchezza. E l’Algeria è rimasta un paese ricco con una popolazione di poveri.

Quattro anni dopo, nel 1992, in Algeria scoppiò la guerra civile. In sette anni morirono più di centocinquantamila persone. Chi le ha uccise e perché? Come dice Sciascia: “Il nostro è un paese senza memoria e verità”. Questo vale an-che per la mia Algeria. Il caso algerino è stato usato dai regimi arabi per mandare un messaggio chiaro all’opinione pubblica nazionale e internazionale: instaurare la democrazia significa consegnare il paese al caos, e ai fondamentalisti. Il ricatto ha funzionato per anni.

Hassinu può essere considerato il padre dei giovani arabi che oggi hanno trovato il coraggio di fare la rivoluzione in Tunisia e in Egitto, anche se il contesto è cambiato rispetto agli anni passati. Questi giovani vivono nell’era della globalizzazione, non a caso si è parlato molto dell’importanza di Internet, e soprattutto di social network come Facebook e Twitter. I giovani tunisini, egiziani, algerini, yemeniti, marocchini, siriani e tanti altri, sono in contatto continuo con i loro coetanei di tutto il mondo, comunicano attraverso canali che sfuggono ai controlli della censura. Si chiedono perché altri ragazzi tedeschi, statunitensi, inglesi, francesi possano andare a protestare, avere un blog e scrivere ciò che vogliono mentre a loro è vietato farlo. Si chiedono: perché non posso manifestare contro la tortura? Perché non posso denunciare un ministro, un funzionario, un sindaco che ha rubato?

Questi interrogativi hanno favorito l’esplosione di una rabbia che ha trovato finalmente il modo di esprimersi. Quando questi giovani hanno cominciato a urlare di volere la caduta del regime la gente li ha presi per pazzi, o per adolescenti, sognatori, idealisti. E invece loro hanno continuato ad andar dritti per la loro strada: in Egitto sono rimasti a piazza Tahrir, che forse non a caso significa “liberazione”, hanno dormito, mangiato e persino cantato lì, pacificamente, anche se poi i servizi di sicurezza hanno cercato di militarizzare il dissenso usando le armi. Ma è un fatto che i giovani sono rimasti sempre a favore della non-violenza. Questo cambiamento di mentalità è un evento straordinario rispetto alla generazione di Hassinu.

Censura ufficiale e censura interiore

Nella stesura di questo romanzo ho cercato a tutti i costi di resistere alla tentazione di autocensurarmi. La censura, nel mondo arabo, è di due tipi: c’è quella ufficiale (il libro viene letto da una commissione che decide se pubblicarlo o meno). Poi ce n’è un’altra, ben peggiore: la censura interiore. Lo scrittore sa cosa non può dire, cosa non sarà mai pubblicato, e quindi si autocensura. Ecco, questo libro mi ha insegnato a dar voce al pazzo, al bambino e al dormiente che sono dentro di me, ma soprattutto mi ha insegnato a non aver paura di farlo.

Italo Calvino diceva che nel romanzo dell’esordio c’è tutt’intero il “programma” di uno scrittore, tutto quello che verrà dopo, la genesi creativa di un progetto letterario. Un pirata piccolo piccolo rappresenta la prima tappa del mio percorso di autore. In seguito si sono aggiunte altre due stazioni: Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio e Divorzio allislamica a viale Marconi. Un amico, dopo aver letto la storia di Hassinu, mi ha detto: «Il tuo romanzo mi ha fatto piangere e ridere allo stesso tempo». Sento spesso questo commento da parte dei lettori. Ecco perché mi sento di poter definire “commedia nera” il genere letterario in cui i miei libri si inseriscono.

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