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diretto da Romano Luperini

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La riorganizzazione “meritocratica” e i saperi dissonanti. Cosa è accaduto all’Università

Nell’ambito del dibattito sulla valutazione pubblichiamo questo intevento di Francesca Coin scritto nel 2010 quando era in via di definizione la riforma Gelmini dell’Università. Le pratiche valutative dell’ANVUR e l’ideologia meritocratica vengono esaminate all’interno di quella prospettiva culturale divenuta egemone dopo la sconfitta politica dei movimenti della conoscenza.

La fondazione Mark Gable

«Lei potrebbe creare un istituto, con un finanziamento annuale di quaranta milioni di dollari. I ricercatori che abbiano bisogno di capitali potrebbero rivolgersi a questo istituto, purché presentino tesi convincenti. […] Prima di tutto, i migliori scienziati sarebbero in questo modo allontanati dai loro laboratori e occupati nel lavoro dei comitati preposti all’assegnazione dei finanziamenti. Secondariamente, i ricercatori scientifici bisognosi di capitali si concentrerebbero su problemi ritenuti promettenti e tali da condurre con sicurezza a risultati pubblicabili. Per qualche anno ci sarebbe un forte incremento della produzione scientifica, ma ragionando a lume di naso, questo sarebbe proprio il sistema adatto per inaridire la scienza. […] Sarebbe una questione di moda. Chi segue la moda, ha i prestiti. Chi non la segue, no. E vedrà che faranno in fretta a imparare a seguir la moda anche loro».

Il processo qui dipinto con ironia è descritto da Leo Szilard nel suo racconto La fondazione Mark Gable, in cui spiega le modalità più efficaci per distruggere la scienza. I finanziamenti, in questo contesto, non premiano la qualità, ma la produttività “alla moda” e quantitativa del lavoratore cognitivo. La competizione per ottenere finanziamenti innesca inoltre deformazioni sostanziali nelle finalità stesse della scienza: il modo migliore per compromettere la scienza, infatti, è introdurre dinamiche di dipendenza economica nella ricerca.

 L’elogio dell’efficienza da Taylor a Maria Stella Gelmini

Le trasformazioni introdotte dalla Legge Gelmini nel sistema universitario italiano vanno per l’appunto in questa direzione e così vorrei iniziare a leggerle attraverso la lente, in parte anacronistica, di Frederik Taylor, l’Organizzazione Scientifica del Lavoro. Ciò che mi spinge a questo tentativo è il desiderio di verificare le ragioni e le conseguenze dell’applicazione del concetto di efficienza nell’ambito universitario, un ambito storicamente statale, oggi messo a valore da quella che Federico Caffè avrebbe considerato come «un concentrato di retoricume neo-liberista». Mi interessano le modalità con cui il concetto di efficienza interviene all’interno di un’istituzione accademica per riorganizzarne gli spazi, i tempi e i saperi, sino a causare un restringimento graduale delle sfere di pensiero e di azione oggi considerate legittime. Desidero comprendere anche se, almeno in parte, ciò che viene spesso giudicato come la svalorizzazione delle humanities nell’università contemporanea, nasconda in realtà un processo più complesso, una trasformazione organizzativa che porta con sé un cambiamento qualitativo nel concetto stesso di formazione e conoscenza, una trasformazione che non solo rischia di minare alle sue fondamenta la capacità del pensiero di ispirare nuovi paradigmi di vita collettiva, ma, nell’attuale congiuntura storica, sposta nelle accademie le stesse contraddizioni sottese al default economico, in un cortocircuito di sapere-potere che restringe gli spazi di sapere legittimo esattamente quando sarebbe opportuno rigenerarli e valorizzarli.

Premetto di procedere a questa analisi con una certa autocritica: i principi tayloristi sono infatti piuttosto lontani nel tempo, e, sebbene descrivano il principio ispirante dell’intero ventesimo secolo, certamente non consentono di penetrare adeguatamente quella che viene oggi considerata, in un affascinante ossimoro, la società della conoscenza. D’altro canto la logica della L. 240/2010 riprende sin dalle prime righe l’ispirazione taylorista, al punto che, già nel titolo, si presenta come un insieme di «norme in materia di organizzazione dell’università, di personale accademico e reclutamento», «per incentivare la qualità e l’efficienza del sistema». Questo passaggio, in parte sibillino, esplicita già il nodo centrale della Legge Gelmini, poiché estrinseca, dietro ai principi di «efficienza, efficacia, trasparenza dell’attività amministrativa», il passaggio dell’accademia da luogo formativo a spazio produttivo. L’utilizzo della lente taylorista nell’analisi della Legge Gelmini è dunque forse anacronistico dal punto di vista del lavoro, ma diviene interessante nell’analisi del passaggio dell’accademia da luogo di formazione a luogo di produzione, un passaggio notoriamente simbolizzato da uno degli interventi più controversi della legge: il passaggio del potere decisionale vincolante nelle decisioni della comunità accademica dal Senato Accademico a un Consiglio di Amministrazione esterno.

Intelligenze in appalto

In questo contesto, l’ispirazione taylorista si riconosce nella riorganizzazione dell’accademia in un luogo di produzione cognitiva, ove il controllo verticale si diparte dall’amministrazione centrale ai dipartimenti, ai laboratori, ai centri di ricerca, ad ogni unità di ricerca sino agli studenti, scandendo l’erogazione di lavoro cognitivo sino a trasformarlo in una quantità definita di energia mentale e corporea da erogare in ogni periodo di tempo. È subito evidente che lo scopo della Legge non è la conoscenza in sé, ma la sua organizzazione produttiva. Ai fini dell’«efficienza, l’efficacia, la trasparenza dell’attività amministrativa», la Legge 240/2010 prevede così presso ogni università un collegio di disciplina, istituisce presso il Ministero un fondo speciale finalizzato a valutare gli studenti mediante criteri nazionali standard, istituisce l’Anvur, Agenzia Nazionale di Valutazione dell’Università e la Ricerca, e in generale offre linee guida per riorganizzare gli atenei italiani «senza maggiori oneri per la spesa pubblica», come recita per sedici volte il testo di legge.

La razionalizzazione del lavoro accademico è simbolo di una trasformazione sostanziale delle finalità dell’accademia, che non è più semplicemente spazio di formazione o ricerca, bensì più propriamente spazio di produzione cognitiva. Abravanel la chiama «deliverology», trasformazione della ricerca in un know how al servizio del committente. In generale, l’esternalizzazione del finanziamento pubblico all’università, la sua compensazione con finanziamenti privati, crea un processo di eterodirezione nella conoscenza in grado potenzialmente di deformare ricerca e formazione insieme.

Mauro Comes Franchini, ricercatore di chimica organica all’Università di Bologna, al convegno Saperi che Servono sull’utilità della ricerca umanistica, spiegava, il 14 settembre 2011, come al seguito dell’approvazione della Legge 240, i ricercatori di chimica industriale dell’Università di Bologna si fossero trasformati per un certo tempo in operatori di callcenter, il cui scopo era chiamare le aziende e cercare nuovi finanziamenti, nuove modalità con cui fare interagire la ricerca e l’industria. Tesisti e tirocinanti, ha spiegato Franchini, trasformano per un certo tempo la soluzione dei problemi aziendali nello scopo stesso della loro ricerca. Certo, un impoverimento nelle finalità della ricerca, e tuttavia uno strumento “concreto” per consentire alla ricerca scientifica di sopravvivere in un tale momento di crisi. La contraddizione rilevata da Franchini è un esempio semplice della trasformazione in corso, delle finalità dell’accademia, che non è più semplicemente spazio di conoscenza, bensì, tendenzialmente, servizio di appalto cognitivo a progetto.

Merito e salario

I concetti di merito e valutazione divengono centrali in questo processo. Il salario al merito, per citare Deleuze, è uno dei capisaldi della riforma, inaugurando un processo che sostituisce il finanziamento pubblico con il finanziamento privato in base al merito, tanto nel diritto allo studio quanto nella ricerca. Come nel lavoro taylorista il salario al merito era funzione della produttività del lavoratore manuale, così oggi il merito è funzione della produttività cognitiva.

Non vi è, purtroppo, il tempo necessario per soffermarsi nei dettagli sull’Anvur, Agenzia Nazionale di Valutazione dell’Università e la Ricerca da poco istituita. Fatto sta che il concetto di valutazione elaborato dall’Anvur si inserisce esattamente in questo contesto. Com’è noto, l’Anvur ha il delicato compito di valutare, con grossi problemi di copertura finanziaria, la ricerca di 70 mila studiosi italiani in circa 18 mesi. Povera di personale ed impegnata ad utilizzare criteri interamente bibliometrici, l’agenzia basa la valutazione della ricerca su: «il criterio della mediana, [che] per la sua intrinseca natura, soddisfa l’obbiettivo di far crescere nel tempo la qualità scientifica della classe dei docenti». Dietro alle richieste di trasparenza, efficienza e visibilità, si attua pertanto una valutazione della ricerca che avviene interamente a livello quantitativo, ove la quantità di citazioni prodotte nel tempo stabilisce la qualità della ricerca. In generale, la riduzione della qualità in quantità rischia di svuotare la scienza dei suoi stessi contenuti. Il merito, in questo contesto, non premia la qualità, ma la produttività quantitativa del lavoratore cognitivo. L’utilizzo di parametri fordisti nella valutazione del merito innesca, inoltre, deformazioni sostanziali nelle finalità della scienza, in un processo del tutto simile a quanto descritto con ironia da Leo Szilard nel suo racconto citato all’inizio.

Autonomia della ricerca e risorse

Il modo migliore per compromettere la scienza, scriveva Szilard, è infatti introdurre dinamiche di dipendenza economica nella ricerca. A lungo presentata come un dispositivo meritocratico funzionale a premiare l’eccellenza, la valutazione si trasforma così non solo in un concetto vuoto di contenuti, ma in un de-formatore potenziale delle finalità scientifiche della ricerca che sembra attanagliare la comunità accademica in una crisi d’identità.

Oggi la difficoltà economica oggettiva dell’accademia italiana sembra stringere la comunità scientifica anche in un dilemma etico, dove si pone da un lato la necessità di risorse, e dall’altro la difesa della propria autonomia. Un esempio è il documento Anvur del 25 Luglio 2010. Mentre il documento affida il giudizio della qualità della ricerca agli indici bibliometrici, annovera tra i requisiti “qualitativi” necessari all’avanzamento di carriera la capacità di attrarre finanziamenti. Lungi dall’aver facile risoluzione, questo processo pone un dilemma etico alla comunità accademica. Oggi non è più il merito ad attrarre il salario, ma il salario a produrre il merito. È la capacità di attrarre finanziamenti a testimoniare la qualità scientifica, sembra suggerire il documento, in una definizione ambigua del concetto di valutazione su cui si innesca una potenziale deformazione tutta delle finalità della ricerca.

Le scienze umane a rischio estinzione

Questo processo chiama direttamente in causa le scienze umane. La nuova forma di management intellettuale che traduce la qualità della ricerca nella quantità di dati prodotti, colpisce il senso stesso della ricerca umanistica. L’irrisolvibile grattacapo della valutazione della ricerca umanistica, in questo senso, sembra risiedere nella contraddittorietà che divide la definizione classica di umanesimo dalle finalità dell’accademia attuale. Il problema non sono le humanities in loro stesse, ma la finalità qualitativa stessa della formazione e della ricerca. L’idea humboldtiana di istruzione universitaria come spazio di interazione tra didattica e ricerca finalizzato al dispiegamento della soggettività singolare, diventa secondario nell’università attuale. Oggi, l’accademia non è più funzionale al dispiegamento di qualità, nella ricerca né nella didattica. Come scrive Abravanel: «la pubblica educazione […] deve avere due grandi obiettivi: creare alcune poche università eccellenti a livello nazionale che diventino fabbriche di eccellenza […] e monopolizzare l’accesso ai migliori posti di lavoro e alle più alte opportunità di reddito da parte di chi ha il pezzo di carta». La pubblica educazione, scrive Abravanel, non ha valore per sé, la valorizzazione avviene nel mercato. In questo senso, ricerca e formazione non sono dei fini in sé, trovano finalità nella valorizzazione, in un processo che estende alla formazione le stesse contraddizioni e gli stessi pericoli che abbiamo rilevato nella ricerca.

In questo contesto, le scienze umane soffrono particolarmente la riorganizzazione accademica inaugurata dal Bologna Process. La subalternità del concetto di qualità nell’organizzazione taylorista dei saperi mette in discussione la stessa ragion d’essere della ricerca umanistica, stretta tra la necessità di cercare strumenti di valorizzazione, e l’analisi critica dello stesso concetto di valorizzazione. In questo processo, la riaggregazione dei settori disciplinari avviene senza alcuna programmazione scientifica: semplicemente i settori disciplinari meno finanziati, e con un numero di ordinari inferiori ai trenta o cinquanta, diventano settori «a rischio». Ecco che la riorganizzazione della conoscenza pone le humanities «a rischio di estinzione», come ha denunciato Cambridge, e rischia di rendere subalterni quegli stessi saperi dissonanti che oggi più avrebbero la responsabilità di liberare dinamiche di produzione di significato, in una fase storica contraddistinta notoriamente a un tempo dall’egemonia e dal default.

La L. 240/2010 ha aperto in seno all’università italiana una crisi d’identità strutturale, ove la riorganizzazione dei saperi rimuove la conoscenza dalle sue finalità critiche, sociali, storiche e pedagogiche, esattamente nella fase storica in cui queste sarebbero più stringenti. Forse è tempo che queste questioni divengano prioritarie nella discussione pubblica, prima che il sapere e il potere diventino entrambi un riflesso delle stesse contraddizioni sociali.

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NOTE

Una versione più estesa, diversamente titolata e articolata di questo articolo è apparsa su menodizero.eu 

Anno II, Numero 6, Luglio-Settembre 2011 , pp. 1-8, 2011 di menodizero.eu

Leo Szilard, La voce dei delfini, Milano, Feltrinelli Editore, 1962, p. 119.

Di Taylor cito il noto saggio Organizzazione Scientifica del Lavoro.

Rammento che in linea con la riorganizzazione produttiva delle università, alcuni atenei, a seguito della Legge 240/2010 hanno avanzato proposte di regolamento volte a standardizzare l’attività didattica.

La citazione di Roger Abravanel è tratta da Meritocrazia, Milano, Garzanti, 2008, p. 297. Dallo stesso libro provengono anche i successivi richiami.

Gilles Deleuze ha analizzato le dinamiche che interessano merito e salario in La Società del controllo, Da «l’autre journal», n. 1, maggio 1990, ora in Gilles Deleuze, Pourparlers (1972-1990), Minuit, Paris 1990, pp. 240-247.

Sul tema dell’estinzione delle scienze umane si è tenuta la conferenza The Arts and Humanities: an endangered species?, Conferenza organizzata a Cambridge il 25 Febbraio 2011.

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