Skip to main content
Logo - La letteratura e noi

laletteraturaenoi.it

diretto da Romano Luperini

KIF 1812

Tra restauri e conversioni: storia e politica negli spazi de I viceré

Ne I viceré (1894) De Roberto rappresenta il passaggio dalla Monarchia borbonica al Regno d’Italia sabaudo attraverso lo spostamento progressivo dell’asse della narrazione verso la politica. Con il procedere della trama, di pari passo con le vicende della storia, si assiste a una graduale ma inesorabile “politicizzazione” di nobiltà e clero, le due parti della società storicamente in crisi. Questo processo è osservabile puntando lo sguardo sugli spazi del romanzo antistorico(1) e sulle loro funzioni.

Soglia del palazzo, soglia del romanzo

L’esordio, ex abrupto, si svolge all’ingresso del palazzo catanese della nobile famiglia Uzeda di Francalanza. Lì, nel palazzo avito, la narrazione procede, per buona parte del primo capitolo della prima parte; e del palazzo, in più punti, viene illustrata la struttura architettonica. Il portone è la soglia sulla quale si riceve la notizia della morte della principessa capostipite del casato dei Francalanza. E l’annuncio della morte avvenuta nella residenza di campagna, il Belvedere, comporta la chiusura, in segno di lutto, del portone del palazzo avito di Catania. Il messaggio di estrema negatività espresso dalla morte della principessa viene così ribadito da un elemento spaziale. Se la narrazione inizia con la morte del personaggio principale (la Principessa), così il luogo d’azione principale (il palazzo) si chiude ai passanti. La funzione dell’apertura e chiusura di una porta, come indicatore di inizio e fine di un passo descrittivo, sembra qui alterata dal significato simbolico (il lutto), che evidenzia la forza negativa dell’evento iniziale e “causale” della narrazione.

Dentro” e “fuori”: protagonisti e non

La stessa chiusura del portone non è immediata: l’esitazione nella chiusura è espediente narrativo per rimarcare l’importanza di tale gesto. Vale la pena ricostruirne le fasi, narrate in discorso diretto e indiretto libero con un’intonazione spiccatamente colloquiale: «“Il portone?… perché non chiudete il portone?” (2); Il portone restava spalancato (p. 415)»; «E Baldassarre, Baldassarre dove diamine aveva il capo, se non ordinava di chiudere ogni cosa? (p. 415)»; «Giuseppe in quella confusione, non sapeva che fare: chiudere il portone per la morte della padrona era una cosa, in verità, che andava con i suoi piedi; ma perché mai don Baldassarre non dava l’ordine? […] Del resto, neppur gli scuri erano chiusi su al piano nobile; e poiché il tempo passava senza che l’ordine venisse, qualcuno cominciava ad accogliere un dubbio e una speranza nella corte: se la padrona non fosse morta? (p. 416)»; «“Giuseppe, il portone! Non hai chiuso il portone? Chiudete le finestre della stalla e delle scuderie…dite che si chiudano le botteghe. Chiudete tutto!” […] E come, spinto da Giuseppe, il portone girò sui cardini, i passanti cominciarono ad accrocchiarsi: “Chi è morta?… La principessa?… al Belvedere?” (p. 417)» (3).

La prima parte del capitolo è così trasversalmente scandita dal processo di chiusura del portone che svela la composizione del sistema dei personaggi. La chiusura del portone del palazzo avito di Catania, entro cui si svolgerà gran parte del romanzo, indica anche la separazione tra i personaggi protagonisti, la famiglia Uzeda di Francalanza, e il resto della società. Una separazione che mette in luce il prestigio, la nobiltà, ma anche la decadenza della stirpe vicereale. Nella “folla” dei personaggi si distinguono più parti: una prima linea di demarcazione è tra chi abita il palazzo e chi ne è escluso, chi sta “dentro” e chi sta “fuori” (4). La divisione gerarchica per classi è poi ribadita – nello spazio – in molti modi all’inizio del romanzo.

Alto” e “basso”: nobili e famigli

Riflettendo sulla corrispondenza tra personaggi e luoghi e sulle funzioni che i luoghi hanno nei confronti dei personaggi, va detto che attraverso la descrizione della struttura architettonica del Palazzo avito il narratore esplicita lo status sociale dei protagonisti. Se i piani alti del palazzo sono abitati dai membri della famiglia nobiliare, la corte è dominata dalla servitù. Agli aristocratici protagonisti fanno dunque da controvoce “servi e famigli”. Più che antagonista, la servitù, nel sistema dei personaggi, costituisce una voce narrante distanziata, che offre al lettore una prospettiva rovesciata del mondo rispetto a quella dei protagonisti. Tale prospettiva è rafforzata simbolicamente dalla posizione che i “famigli” occupano nel palazzo. La prima parte del primo capitolo è dunque simbolicamente costruita su forti polarizzazioni spaziali. Alla prima linea di demarcazione tra chi sta “dentro” e chi sta “fuori” se ne aggiunge una seconda che separa chi sta in “alto” e chi sta in “basso” (5). Tenuto fuori dal palazzo, costretto a indugiare sulla soglia di quello che sarà uno dei principali scenari d’azione, il lettore apprende la notizia della morte della Principessa che passa di bocca in bocca dalla strada al portone, dalla corte alle finestre; e in tale rincorrersi di voci, il lettore nota che la polarizzazione alto-basso serve a rappresentare una società nettamente divisa in classi: «dall’arco del secondo cortile affacciaronsi servi e famigli (p. 413)»; «Una vociata, dall’alto dello scalone, interruppe subitamente il cicaleccio (p. 414)»; «Tutta la servitù s’era raccolta nel cortile, commentava la notizia, la comunicava agli scritturali dell’amministrazione che s’affacciavano dalle finestre del primo piano o scendevano anch’essi giù addirittura (p. 414)»; «I discorsi morirono una seconda volta, e tutti s’impalarono cavandosi i berretti ed abbassando le pipe, perché il principe in persona, tra Baldassarre e Salvatore, scendeva le scale (p. 414)».

Successivamente, con le visite di condoglianza, l’attesa in diverse sale del palazzo chiarisce il grado di parentela e la gerarchia (di classe) dei personaggi: «Il maestro di casa riceveva nell’anticamera dell’amministrazione le persone di riguardo, lasciando al portinaio i servitori». E infine ordinata in modo gerarchico è la distribuzione dei personaggi nella chiesa dei Cappuccini durante le esequie. Cosicché nella chiesa l’intera società è presente e occupa i posti assegnati a seconda del proprio rango.

Personaggi e habitat: a ogni Uzeda uno spazio

Un ulteriore elemento di carattere spaziale, dimostrazione dell’esattezza di De Roberto(6), narratore ordinato e volto a raggiungere effetti di organicità (7), è l’attribuzione a ogni membro della famiglia di un guscio spaziale. In primis con l’eredità a ogni personaggio viene attribuito uno spazio; successivamente, con flash-back narrativi sulla storia pregressa, ogni personaggio viene presentato assieme al suo habitat (8). Il testamento, la cui lettura avviene nel secondo capitolo della prima parte, crea legami biunivoci tra i personaggi e gli spazi. A ogni personaggio corrisponde un guscio spaziale che ne rafforza l’identità e ne spiega il ruolo nell’intricata trama del romanzo. A quella che Antonio Palermo ha definito «folla» dei personaggi si può dire corrisponda una “folla” di ambienti.

Nel terzo capitolo la narrazione va a ritroso per raccontare, uno per uno (9), la storia di tutti membri della famiglia Uzeda e per dare conto di come ognuno sia giunto in possesso di ciò di cui dispone al momento del testamento. I possedimenti lasciati in eredità dalla Principessa sono oggetto di aspre e incessanti contese. La corrispondenza fra personaggi e luoghi in cui hanno vissuto, che hanno ereditato o a cui aspirano, ci permette di tracciare una dettagliata piantina fatta di dimore, chiese, terre e di personaggi che vi si muovono come pedine: Don Blasco, Don Lodovico d’Oragua e il convento benedettino di S. Nicola; Teresa e la Badia di S. Placido; Don Ferdinando e la Pietra dell’Ovo; Donna Ferdinanda, il fondo del carrubo e l’acquisto della casa; il duca Gaspare, il Gabinetto di lettura e il Casino dei Nobili. Ma anche, uscendo dall’immediata cerchia degli Uzeda: la servitù e i partiti del cortile; i Giulente e il Municipio. Come vedremo più avanti, attraverso alcuni personaggi “viaggiatori” si esce poi dai domini di famiglia: don Eugenio ha dei trascorsi a Napoli; Raimondo soggiorna spesso nel «continente»; grazie al duca Gaspare siamo informati della storia recente con episodi a Catania, Taormina, Messina. Con Consalvo la narrazione fa tappa a Roma e si spinge fino a Parigi e Londra.

Le due dimore: schieramenti contrapposti e plebiscito

Se tra i nobili e tra gli uomini di chiesa vi sono due fazioni contrapposte, i conservatori e i progressisti, i filo-borbonici e i filo-garibaldini, i reazionari e i liberal-democratici; anche nello spazio la logica è quella degli schieramenti contrapposti con coppie oppositive di ambienti per ogni schieramento. E con il procedere della trama i singoli ambienti vengono investiti da un’inesorabile onda di politicizzazione che ne trasforma le funzioni e il colore politico.

All’interno del palazzo avito, la sala gialla e la galleria dei ritratti, nella prima parte accolgono rispettivamente la lettura delle volontà per le esequie e il testamento della defunta capostipite, assolvendo una funzione di carattere privato, familiare; durante la seconda parte invece la sala gialla diviene luogo di ritrovo del «partito dei nobili» (la nobiltà, da etichetta sociale, è divenuta etichetta politica), mentre la galleria dei ritratti accoglie il circolo dei democratici.

L’altra dimora, Il Belvedere, alle pendici dell’Etna, che costituisce l’altrove rispetto alla residenza urbana di Catania, se nella prima parte accoglie gli Uzeda in fuga dalle ripetute ondate di colera, diviene nella seconda parte il luogo in cui viene rappresentato il referendum con «plebiscito» per l’annessione al Regno d’Italia. Alla vigilia del plebiscito per la «monarchia costituzionale di Vittorio Emanuele» una parte della famiglia si trova al Belvedere:

Il Principe aveva fatto tracciare anche lui un gran sul muro della Villa, per precauzione, e la folla dei contadini scioperati, giù in strada, batteva le mani […] mentre, dentro, don Eugenio dimostrava, con la storia alla mano, che la Sicilia era una nazione e l’Italia un’altra (p. 672).

È in quel contesto agreste che i Francalanza rinnegano la loro fede borbonica. Per opportunismo e per timore dei linciaggi, i Vicerè sono costretti a sbandierare la loro adesione. Simbolica, in questo caso, la facciata della villa, che espone una verità diversa da quella, reale, che si muove all’interno della villa. Il grande sí, scritto sul muro, cela al suo interno gli Uzeda reazionari ultraborbonici.

Per entrambe le dimore, a una funzione di carattere privato, assolta nella prima parte del romanzo, subentra nelle successive una di carattere pubblico, politico, storico.

Il cronotopo del convento

La progressiva politicizzazione dei luoghi, che va di pari passo con il procedere della trama, è lampante in un caso: il Convento Benedettino di S. Nicola all’Arena(10). Si tratta di uno dei principali luoghi d’azione del romanzo, dal momento che numerosi membri del casato, di diverse generazioni vi soggiornano in veste di novizi o monaci. Il Monastero, in un costante processo di restauri e conversioni, muta continuamente funzione e da luogo sacro – o del non sacro – diviene sempre più luogo della politica(11). Come ha evidenziato Di Grado, «il Monastero dei Benedettini costituisce, in definitiva, l’unico luogo dei Vicerè che possa ambire allo statuto e alla funzione di “cronotopo”» (12). Efficace cronotopo, accoglie eventi di rilievo della storia che ne stravolgono le funzioni. Con la notizia dello sbarco dei garibaldini a Marsala e poi dell’assedio di Palermo, a Catania il Convento è un luogo di rifugio, una fortezza in cui si asserragliano gli oppositori della rivoluzione e i nobili spaventati: è cioè luogo della conservazione dello status quo. Ma poco dopo il convento vede stravolta la sua funzione e diviene luogo di elaborazione della svolta politica. Successivamente Garibaldi in persona andrà a porre il suo quartier generale proprio a San Nicola (13). Poi un ulteriore evento storico di massimo rilievo sconvolge la vita del Convento: l’abolizione della mano morta, lo scioglimento degli ordini monastici e la confisca dei beni della Chiesa. La soppressione degli ordini religiosi determina una sostanziale modifica del convento, che, perduta definitivamente la sua funzione religiosa, resta protagonista, divenendo a tutti gli effetti luogo della propaganda politica. Infine, trasformato in scuola, sarà lo scenario del celebre discorso elettorale di Consalvo.

Le sedi ufficiali: la Corte, il Municipio e il Parlamento

Veniamo dunque alle sedi ufficiali del potere politico. Prima del plebiscito, che è registrato alla fine della prima parte, la Corte borbonica, alla cui corona i Francalanza sono legati, è la sede ufficiale dei vertici del potere politico. L’incontro di Consalvo con Francesco II avviene durante il suo «viaggio di formazione» quando il Borbone è già in esilio a Parigi. Il resoconto di quel viaggio è filtrato da una lingua imprecisa, scorretta, dialettale, oltre che da impressioni volutamente sproporzionate e distorte del maestro di casa Baldassarre. L’incontro parigino con il re viene svalutato attraverso l’inadeguatezza del personaggio-narratore. E in un’occasione Baldassarre allude all’intento restauratore del giovane Principe: «So Maistà abbia fatto una grande festa a So Eccellenza, e quando ci abbia stretto la mano ci ha addomandato chi sa quando ci arriveremo; e So Eccellenza mi ha contato So Paternità che ci abbia risposto: “Maistà, ci arriveremo in Napoli, nel palazzo reale di Vostra Maestà” (p. 913)».

Ma la visita alla corte di Napoli non avrà mai luogo e il Palazzo Reale non sarà scenario di narrazione, rimanendo implicitamente sullo sfondo come sede di un Regno ormai decaduto.

Sede ufficiale del potere politico locale è il Municipio di Catania. Prima di assumere la funzione di rilievo narrativo, quella più propriamente politica, e prima di divenire frequente scenario delle beghe politiche, il Municipio è presentato nella funzione di luogo dell’amministrazione civile urbana, con la celebrazione di matrimoni. Con l’annessione al Regno, la gestione della politica locale è legata a doppio filo a quella nazionale. Emblema della politica locale, il Municipio è continuamente paragonato al Parlamento, emblema della nuova politica nazionale. Tale confronto mette in luce e denuncia la perifericità della Sicilia nel nuovo assetto politico nazionale. Da un lato i nuovi deputati al Parlamento continuano a occuparsi delle questioni municipali, e dall’altro il Municipio è trampolino di lancio per il Parlamento. La gestione del potere è tutta personale e il deputato del Regno usa il Municipio come piccolo feudo locale. Il duca è il potente di turno e ciò implica responsabilità su scala nazionale e locale, ma proprio il Municipio necessita di una gestione forte. Questa è una denuncia della débacle della Sicilia a seguito dell’annessione al Regno borbonico.

Nella terza parte, Consalvo, a soli ventisei anni divenuto sindaco di Catania, esercita il suo potere sulla stessa fetta di territorio sul quale la famiglia lo ha storicamente esercitato. Ecco perché il Municipio di Catania, sede locale del nuovo assetto politico nazionale, anche dopo l’unità d’Italia resta l’edificio politico maggiormente ritratto nella trama. Con Consalvo sindaco, e prefigurandone l’elezione a deputato, il narratore descrive gli ambienti del Municipio e li paragona a quelli del Parlamento. Il Municipio diventa il laboratorio dove esercitarsi prima di giungere in Parlamento.

Uno dei primissimi provvedimenti del giovane sindaco, appena insediato al municipio, era stato quello relativo alla costruzione di un’“aula” per le riunioni consiliari. All’antica saletta fu sostituito un gran salone provvisto di due file di banchi che, per gradi, si elevavano dal suolo ad anfiteatro, con tre ordini di posti per ciascuna fila. […] Nel centro del salone, un gran banco per le commissioni; più oltre, tavole per “la stampa”; dirimpetto al pulpito sindacale la tribuna pubblica: “Un Parlamento in miniatura!” dicevano quelli che erano stati a Roma; e le adunanze del consiglio, sotto la presidenza di Consalvo, prendevano ora un vero carattere parlamentare (p. 994).

In Consalvo, dunque, l’autore convoglia le doti necessarie al successo in politica e alla sopravvivenza del casato, creando, in tal modo, a dispetto della folta schiera di personaggi dissennati e perdenti, un unico e solido personaggio che porta il casato nel nuovo Regno. Se Consalvo, ex borbonico, è vincente, chi verrà sacrificato è allora il rappresentante della “borghesia”: Benedetto Giulente. Sono ancora i nobili a tenere le redini della Sicilia, territorio periferico del nuovo Regno. La classe nobiliare, rappresentata dalla «razza degenerata» degli Uzeda, è sopravvissuta, grazie all’astuzia e al potere economico che continua a darle vantaggio rispetto al ceto medio che non riesce ad affermare la propria supremazia e a cui viene negato un posto nella società. I nobili siciliani, da abitanti privilegiati della sede del Regno Borbonico, divengono sudditi che abitano un territorio periferico e lontano dalla sede dirigenziale del nascente Regno d’Italia.

La geografia del romanzo: Sicilia vs Continente

Per concludere vorrei fare un breve accenno alla geografia del romanzo. Catania costituisce il centro geografico della narrazione. Siracusa è menzionata come città di provenienza di Giulente. Palermo è il laboratorio per gli eventi storici: ogni novità avviene prima a Palermo e da lì la notizia giunge a Catania. Messina è invece, per ovvie ragioni, la città che assume il valore simbolico di ponte tra isola e penisola, tra territori borbonici e non. Da Messina si riceve la notizia dell’arrivo di alcuni personaggi di spicco. I movimenti registrati sono più in entrata che in uscita e le notizie raggiungono l’isola, con direzione continente-isola, altro piccolo indizio della centralità della Sicilia nella narrazione a dispetto della spinta centrifuga provocata dal processo di nazionalizzazione. In un’ottica siciliocentrica spesso con “continente” si allude a un generico territorio senza distinzione di nazionalità. Le capitali europee Parigi e Londra sono visitate da Consalvo nel suo viaggio di formazione. È lí, non riconosciuto, che si accorgerà della perifericità della Sicilia. Dell’Italia, non è un caso che siano nominate le città capitali: Napoli, Torino, Firenze e infine Roma. Se nelle prime due parti Roma è un altrove urbano dove si svolgono alcune vicende secondarie, nella terza parte, quando l’unificazione della Sicilia al Regno Sabaudo è ormai avvenuta, e la città papale è divenuta capitale del Regno, essa entra a pieno titolo nella narrazione divenendo polo geografico complementare a Catania.

Alla fine del romanzo, dopo aver pronunciato il discorso elettorale (14), Consalvo, parla con zia Ferdinanda agonizzante, e le racconta la storia recente scimmiottando la lingua dello storico del casato, il Mugnos (15). Tale giocosa prospettiva ribaltata della narrazione di eventi futuri, profetizzati da una voce del passato, indica Roma come sede centrale della gestione del potere, denunciando la perdita di controllo da parte del potere locale sulla Sicilia, e insieme pronosticando la forza della vecchia casta nobiliare, che una volta apprese le nuove regole del gioco, allarga il proprio dominio a un territorio più ampio, quello appunto nazionale.

________________

NOTE

Questo articolo è tratto da Ilaria de Seta, Tra restauri e conversioni: storia e politica negli spazi de I vicerè, in Il discorso della nazione nella letteratura italiana, a cura di Rosaria Iounes-Vona e Daniele Comberiati, Firenze, Franco Cesati editore, 2012, pp. 99-115. Si ringraziano editore, autore e curatori per la gentile concessione.

L’immagine ritrae il Convento dei benedettini di Catania.

1) Bertacchini è stato tra i primi a parlare di «antistoria, che lungi dal circolare come sentimento astratto, spirito di fatalismo inerte e teorico, assume equivoche e corpose parvenze nel guadagno, nel vantaggio economico, nell’addomesticatura rissosa e feudalmente paesana cui riducono la storia ‘nazionale’ gli Uzeda», RenatoBertacchini, Il romanzo italiano dell’Ottocento. Dagli scottiani a Verga, Roma, Editrice Studium, 1964, pp. 152-153. Carlo Alberto Madrignani ha parlato di «romanzo storico che nega la storia non solo nella sua accezione idealistica, ma anche a livello dell’evoluzionismo confortato dalla scienza ufficiale», Federico De Roberto l’inattuale, in «Belfagor», 3 (1981), pp. 334-342, p. 337. Pietra miliare sull’argomento è il celebre studio di Vittorio Spinazzola, Il romanzo antistorico, Milano, Editori Riuniti, 1990.

2)Federico De Roberto, I Viceré in Romanzi, novelle e saggi, a cura di Carlo Alberto Madrignani, Milano, Milano, 1984, pp. 411-1103; p. 414. Di qui in avanti le pagine saranno indicate in parentesi tonde nel testo.

3) Con la chiusura del portone e con l’esitazione nella chiusura sembra quasi che il narratore voglia burlarsi del lettore e creare suspense nel celargli il microcosmo in cui verrà inghiottito nel corso delle settecento pagine di romanzo. È ironico che, dopo sei pagine di attesa, la narrazione entri nel palazzo con i due «lavapiatti»: «salirono per lo scalone con Baldassarre che risaliva anch’egli in quel punto dalla corte […] Traversando la fila delle anticamere dagli usci dorati ma quasi nude di mobili», Federico De Roberto, I Viceré, p. 419.

4) Lotman, parlando dello spazio artistico, dice: «Il confine che separa lo spazio in due parti deve essere ermetico, mentre la struttura interna di ciascuno dei sottospazi deve essere diversa» (Jurij M. Lotman, Lastruttura del testo poetico, Milano, Mursia, 1976, p. 272). «L’opposizione ‘aperto-chiuso’ è un indizio essenziale di organizzazione della struttura spaziale del testo. Lo spazio chiuso, venendo interpretato nei testi sotto varie forme spaziali delle cose di tutti i giorni: una casa, una città, la patria, ed attribuendosi determinati segni come ‘nativo’, ‘caldo’, ‘sicuro’, si oppone al chiuso spazio ‘esterno’ e ai suoi segni: ‘estraneo’, ‘nemico’, ‘freddo’» (ivi). «Il caso in cui lo spazio del testo è diviso da un certo limite in due parti e ogni personaggio appartiene a una di esse, è il caso base e il più semplice. Tuttavia sono possibili anche casi più complessi» (ibid., p. 273).

5) «La sintagmatica interna degli elementi all’interno del testo diventa lingua di simulazione spaziale (…) Di qui la possibilità di simulare in senso spaziale concetti che di per sé non hanno una natura spaziale. In parecchi casi (…) il ‘basso’ si identifica con la ‘materialità’ e l’’alto’ con la ‘spiritualità’» (Jurij M. Lotman, Lastruttura del testo poetico, cit., pp. 262-263). «La cultura, la coscienza, sono tutti aspetti della spiritualità comuni all’’alto’, mentre il principio animalesco, non creativo, costituisce il ‘basso’ del sistema dell’universo» (ibid., p. 267).

6) Si veda in proposito Giovanni Maffei, De Roberto e il valore dell’esattezza, in La civile letteratura. Studi sull’Ottocento e il Novecento offerti ad Antonio Palermo, I, L’Ottocento, Napoli, Liguori, 2002, pp. 319-340.

7) Si veda in proposito Carlo Alberto Madrignani, Illusione e realtà nell’opera di Federico De Roberto, Bari, De Donato, 1972, p. 105.

8) Mi riferisco alla nozione di habitat evidenziata da Philippe Hamon, che a proposito di un certo tipo di descrizioni presenti nel romanzo realista parla di rapporto «habitat-abitante». Semiologia, lessico, leggibilitàdel testo narrativo, Parma-Lucca, Pratiche, 1977, p. 80 e p. 200, n. 47.

9) I personaggi si presentano al lettore: «uno alla volta, esibendosi dunque, per così dire, in una serie di assolo, ovvero di paragrafi se non addirittura di capitoli di volta in volta singolarmente egemonizzati» (Antonio Palermo, La folla dei “Vicerè”, cit., p. 358).

10) Sulla rilevanza del Convento nella struttura del romanzo si veda Sipala (Paolo M. Sipala, Introduzione a De Roberto, Roma-Bari, Laterza, 1988, p. 58). Di Grado, d’altro canto, salda il nesso tra biografia e finzione: Antonio Di Grado, La vita, le carte, i turbamenti di Federico De Roberto gentiluomo, cit., pp. 53-54).

11) Si rimanda in proposito a Ilaria De Seta, La dissacrazione dei luoghi di culto. Anticlericalismo ne I viceré, I vecchi e i giovani e Il gattopardo, in«Pirandelliana», 5 (2011), pp. 95-104.

12) Antonio Di Grado, La vita, le carte, i turbamenti di Federico De Roberto gentiluomo, cit., p. 230. Cronotopo è un termine nato in ambito scientifico, con le teorie sulla relatività di Einstein, ed è poi stato trasferito da Bachtin nella teoria della letteratura. «Significa letteralmente “tempospazio” […] l’interconnessione sostanziale dei rapporti temporali e spaziali dei quali la letteratura si è impadronita artisticamente» (Michael Bachtin, Estetica e romanzo, Torino, Einaudi, 1997, p. 231). In esso «ha luogo la fusione dei connotati spaziali e temporali in un tutto dotato di senso e di concretezza. Il tempo si fa denso e compatto e diventa artisticamente visibile; lo spazio si intensifica e si immette nel movimento del tempo, dell’intreccio, della storia. I connotati del tempo si manifestano nello spazio, al quale il tempo dà senso e misura. Questo intersecarsi di piani e questa fusione di connotati caratterizza il cronotopo artistico» (ibid., p. 232).

13) Cfr. Renato Bertacchini, Garibaldi nella narrativa dell’Otto e del Novecento, in «Le ragioni narrative», 6, 1960, pp. 31-65, in particolare alle pagine 45-49. Uno sguardo critico sulla rappresentazione di Garibaldi lo fornisce Natale Tedesco, La norma del negativo: De Roberto e il realismo analitico, Palermo, Sellerio, 1981, pp. 101-104.

14) Al discorso elettorale ha dedicato un intero saggio Carlo Alberto Madrignani, Retorica e rettorica nei discorsi politici di Consalvo, in «Galleria», 31 (1981), pp. 78-86.

15) «Nel dire le prime tre parole dell’immaginato aggiornamento del Mugnòs Consalvo segue dunque moderni criteri di equivalenza, cioè pronuncia v il segno V iniziale dell’antica grafia Vzeda e surroga con f il non più familiare segno della esse alta; emette quindi suoni consonantici contestualmente incongrui, che però gli servono da un lato a evocare grafie tipiche delle vetuste pagine del genealogista, dall’altro a segnare anche in questo modo la distanza tra sé e il mondo ormai rivolto della zia» (Alfredo Stussi, Storia linguistica e storia letteraria, cit., pp. 244-245).

{module Articoli correlati}

 

 

 

Comments (1)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Commenti recenti

Colophon

Direttore

Romano Luperini

Redazione

Antonella Amato, Emanuela Bandini, Alberto Bertino, Linda Cavadini, Roberto Contu, Daniele Lo Vetere, Morena Marsilio, Luisa Mirone, Annalisa Nacinovich, Stefano Rossetti, Katia Trombetta, Emanuele Zinato

Caporedattore

Daniele Lo Vetere

Editore

G.B. Palumbo Editore