Nativi digitali o digitali consumatori?
Ho appena terminato di leggere un articolo, pubblicato sulla home page di tiscali, che bolla come “cedimento alla lobby degli editori” la scelta del ministro Carrozza di fermare la digitalizzazione dei libri. Nell’articolo Di Placido (CODACONS) sostiene che la scelta del neo ministro è stata una delusione enorme e relativamente al problema delle conseguenze negative derivanti dall’uso delle nuove tecnologie digitali afferma: E’ un discorso teorico. Io penso che sia semplicemente ridicolo tentare di arrestare con una legge l’avanzamento delle nuove tecnologie nella società. Sul piatto della bilancia bisogna poi mettere anche il fatto che lo stop penalizza maggiormente gli studenti delle famiglie svantaggiate che hanno nella scuola l’unica opportunità di alfabetizzazione digitale”. Ritengo che la risposta sia superficiale e condizionata dal sentito dire piuttosto che da riflessioni consapevoli. Cercherò di fare un po’ d’ordine.
Sono un’insegnante di quarant’anni, che non può essere definita una nativa digitale ma che può vantare una discreta conoscenza nell’uso delle metodologie informatiche alle quali bisogna assoggettarsi pena l’esclusione sociale e comunicativa. Nel mondo della scuola, poi, mostrare perplessità sulle nuove linee guida imposte dalla società multitecnologica equivale ad attirarsi strali di biasimo per l’incapacità di rimanere al passo con i tempi, l’etichetta di prof. Vintage ( termine attualmente abusato, a riprova del fatto che tutto è moda) perché timidamente si sostiene che il libro interattivo, il tanto blasonato e-book non risolleverà lo stato di mediocrità in cui versa la scuola italiana e non contribuirà a motivare alunni sempre meno pronti ad impegnarsi nello studio.
Le ragioni delle mie perplessità sono molte, condivido l’analisi fatta dal prof. Marchese nell’articolo pubblicato sul blog. Ma c’è di più, chi ha letto Contro il colonialismo digitale. Istruzioni per continuare a leggere di Roberto Casati sa cosa intendo. Si è diffusa l’idea che l’insegnante possa facilmente essere sostituito perché nel processo di dequalificazione che ha subito, è percepito dalla società come mero trasmettitore di conoscenze. Con una metafora calzante Casati lo definisce nel testo sopra menzionato un nastro trasportatore e sottolinea come tale idea condizioni i processi di digitalizzazione della scuola; ma l’insegnante non può essere sostituito perché non è solo un trasmettitore di sapere. L’insegnamento è un processo di formazione in cui vengono coinvolti diversi aspetti, non ultimo quello emotivo.
Non solo, lo slogan che accompagna l’introduzione della tecnologia consentirebbe di velocizzare i tempi di lettura, non di ottimizzarli. Leggere non significa soltanto decodificare nel minor tempo possibile i segni grafici posti sulla pagina. Per far proprie quelle informazioni, per “salvarle” nel cervello, disco fisso della macchina uomo, e consentire l’attivazione di una serie di link, occorre un investimento personale che comporta che l’informazione sia trattata in modo complesso. Il libro cartaceo consente lo sviluppo di questa capacità di trattamento cognitivo. I nostri ragazzi sono bravissimi ad attivare app e icone, se poi gli chiedi quale processo hanno utilizzato non sono in grado di rispondere, ciò accade perché non sono più abituati a riflettere, a metabolizzare i dati, a rielaborare le informazioni per farle proprie. E non penso alla fascia di studenti compresa fra i 17 e i 20 anni, essi sono ancora in grado di gestire un libro. Penso ai più giovani il cui costante utilizzo delle tecnologie informatiche ha impedito di sviluppare spirito di osservazione e capacità critica.
Che dire poi del fatto che studiare sul pc oltre che oneroso, e quindi poco democratico,offre innumerevoli spunti di distrazione. Leggere richiede concentrazione, che viene necessariamente a mancare quando si sbircia costantemente in basso a destra (è stato definito occhio diagonale) per controllare se gli amici chattano o hanno inserito nuove informazioni.
Se la società è votata alla digitalizzazione, la scuola non dovrebbe come un carrozzone seguire acriticamente il solco lasciato dal tragitto della società. L’istituzione scolastica dovrebbe porsi come alternativa formante, ma non vedo, in nessuna delle riforme attuate negli ultimi anni, un progetto ponderato che tenga conto dei bisogni formativi dei ragazzi, ma solo strategie di adeguamento alla società che cambia, che proprio perché non seguono una logica, se non quello di adattarsi ai tempi, banalizzano l’uso delle tecnologie, che possono affiancare, non sostituire la prassi didattica. La scuola, come ambiente deputato alla formazione, dovrebbe stimolare, non subire la società.
Il problema rimane quale tipo di società vogliamo costruire per le future generazioni. Se l’idea è quella distopica alla quale sembriamo ineluttabilmente proiettati, la società della omologazione sociale e culturale dove non conta sapere ma saper fare, allora non ha senso attribuire alla scuola il compito di formare soggetti attivi e consapevoli, in questo caso non ci sarebbe ragione di opporsi alla colonizzazione digitale della scuola, che diverrebbe un appendice della società; se invece si crede ancora nella possibilità di costruire una società migliore, più equa di quella attuale, allora bisogna investire nella scuola come luogo di formazione in cui non è necessario utilizzare le tecnologie già abusate dalla società, un luogo in cui i contenuti disciplinari siano strumenti per lo sviluppo delle potenzialità di ciascun individuo, un luogo che ha come obiettivo la formazione di CITTADINI CONSAPEVOLI che riescono a lavorare e ragionare anche attraverso l’utilizzo dei mezzi multimediali, dei quali non devono diventare succubi.
Credo che considerazioni più attente, non indottrinate dagli spot pubblicitari che presentano l’utilizzo delle tecnologie multimediali come la panacea di tutti i mali, porterebbero il signor Di Placido a considerare la scelta del ministro Carrozza frutto di ponderate riflessioni e non semplice cedimento alle lobby editoriali.
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