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Verità senza vanità. Massimo Raffaeli su “L’uso della vita”/17

La letteratura sul ’68 è un sottogenere, oramai, tanto della memorialistica quanto dell’invenzione narrativa. La sua qualità è inversamente proporzionale all’incremento quantitativo, i sentimenti della nostalgia e dell’indulgenza, i molti casi dell’autoindulgenza, sono corrispettivi a quelli che ne fanno viceversa l’annus horribilis e l’inizio della fine, dunque la premessa ai cosiddetti anni di piombo: così il mito della Meglio gioventù, celebrato in un film di Marco Tullio Giordana, può paradossalmente trasmigrare nella tesi di chi nel ’68 legge una pura richiesta di modernizzazione (liberazione del corpo, edonismo, rigetto delle angustie provinciali, bigotte) da parte dei figli borghesi nei confronti dei padri borghesi e perciò lo ritiene una resa dei conti all’interno della società affluente. Se Pasolini, per esempio, dopo i fatti di Valle Giulia, aveva proclamato di schierarsi dalla parte dei poliziotti perché figli di proletari, Edoardo Sanguineti avrebbe sostenuto che i Sessantottini erano fatalmente destinati, per motivi di ceto e di cecità ideologica, a prendere il posto degli stessi padri che presumevano di contestare. E’ una tesi, quest’ultima, che deve per forza di cose separare il ’68 degli studenti e dei piccoli-borghesi da quello degli operai-massa, il quale sfocerà nell’”autunno caldo” dell’anno successivo e in un decennio ben diverso, per la ricchezza degli apporti teorici e per il fervore della mobilitazione politica, dalla sua attuale iscrizione nel senso comune.

Quanto a questo, la memoria in forma di romanzo L’uso della vita. 1968 è un libro che si annovera fra le eccezioni e colpisce il lettore per almeno due buoni motivi: per lo spirito di verità e perciò l’assenza di vanità con cui Romano Luperini l’ha scritto come per la limpidezza morale e intellettuale con cui l’ha concepito. Si tratta di un’opera evidentemente autobiografica, il cui epicentro topografico è Pisa e la scansione cronologica va dai primordi della lotta (inverno-primavera del ’68, ancora al chiuso dell’università) alle prime azioni di massa (quella, celeberrima, per il Vietnam vide diversi incarcerati) fino alla clamorosa dimostrazione di operai e studenti davanti alla “Bussola” di Viareggio, Capodanno del ’69, quando le forze di polizia aprirono il fuoco ad altezza d’uomo colpendo il giovane Soriano Ceccanti, che ne restò paralizzato. In uno stile secco senza essere refertuale, volutamente decolorato e sorvegliatissimo nei dialoghi, Luperini, il cui portavoce proiettivo ha nome Marcello, costruisce il più classico dei Bildungsroman. La vicenda politica, un vento improvviso di insubordinazione, gli stessi personaggi, che talora hanno un riconoscibile profilo (Adriano Sofri, Massimo D’Alema, Franco Fortini), non sono infatti una cornice o tanto meno dati esterni e additivi: il rapporto conflittuale con il padre (un militante del PCI, ex partigiano), la scoperta progressiva e non meno drammatica dell’universo femminile, l’adesione alla lotta e i rovelli etico-politici che essa comporta (il carcere, la perdita del lavoro, l’accettazione di un declassamento e del disdoro sociale) sono le stazioni e le necessarie diversioni di un romanzo dell’apprendistato il cui modello è ovviamente L’éducation sentimentale di Flaubert.

Ma se nell’esito di quel grande modello era iscritta a priori la catastrofe personale e politica con un senso di totale glaciazione dell’essere al mondo, L’uso della vita persegue la nettezza e l’umiltà di una sola ed essenziale cognizione. Che ne è di un uomo, ancora un ragazzo, costretto a uscire fuori da se stesso con la velocità imprevista di un détour? Che ne è di lui, dal momento in cui metabolizza i benefici ma anche la violenza e il dolore di quella stessa svolta? Scrive Luperini a un certo punto: “Non si sentiva né un intellettuale e basta, né un rivoluzionario e basta, e viveva così, a mezza strada, come spinto e strattonato dagli eventi, alla ricerca di un cambiamento che a tratti aveva intravisto e di una intensità che di tanto in tanto, sia pure per pochi istanti, era riuscito davvero a vivere”. E’ il modo più onesto e più limpido per esprimere lo stato di reale necessità ma anche di difficoltà da parte di chi non accetta lo stato di cose esistenti e cerca di dare un senso differente alla propria vita. Luperini sa che la frase, poi divenuta uno slogan, secondo cui “il personale è politico” ha avallato distorsioni e dubbie commistioni, così come sa che la massima posta per i subalterni (certamente gli operai e gli studenti, ma oggi si potrebbe dire tutto il genere umano) è dare forma compiuta a un vivere che invece è atomizzato, disgregato o mistificato nella falsa conciliazione dell’apparire e del consumare. Il titolo del romanzo è infatti un omaggio al poeta che, nel privilegio di adire a una forma, vedeva il tramite dell’utopia. Va da sé che “forma” era, per lui, il nome in codice del comunismo.

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NOTA

Questa recensione è apparsa in “L’indice”, n. 9 settembre 2013.

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