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L’intensità e le contraddizioni del Sessantotto. Clotilde Bertoni su “L’uso della vita”/14

«L’intensità […] a portata di mano», cifra classica degli stati d’eccezione, è il Leit-Motiv del nuovo romanzo di Romano Luperini, L’uso della vita. 1968 (Transeuropa, pp. 144, E 12,90), che, com’è tipico dei romanzi storici, mescola personaggi e fatti autentici ad altri immaginari o ricreati, raccontando l’anno cruciale della contestazione attraverso lo specifico focolaio dell’università di Pisa e la vicenda di ispirazione autobiografica del giovane insegnante Marcello. E il libro risulta a sua volta singolarmente intenso: perché, diversamente da tante altre rievocazioni, non chiude l’epoca in questione nella coerenza posticcia di immagini univoche (euforica rottura dei freni, preludio della violenza terrorista), ma tende piuttosto a inseguirne – lungo una sequenza di rapidi scorci e scene serrate – le incoerenze, le contraddizioni, le fratture.

Innanzitutto quelle del movimento pisano, di cui la narrazione inquadra i vari orientamenti (dai residui delle logiche partitiche ai programmi di rivoluzione immediata), riuscendo inoltre a rappresentare i dissensi tra le sue figure chiave, non tanto mediante le citazioni delle loro parole o dei loro scritti, quanto con la restituzione dei loro difformi atteggiamenti: la pacata disponibilità di Luciano Della Mea, la riflessione incessante di Fortini, accesa di trasporto e anche di collera, il dogmatismo invece calmo, e intransigente, che curiosamente accomuna due leader in erba apparentemente contrapposti, il D’Alema già politicante e il Sofri provocatorio enfant terrible.

Alle dissonanze che segnano la protesta si intrecciano quelle che agitano il protagonista, turbato da nodi familiari irrisolti, diviso tra l’ebbrezza del mutamento e un persistente senso di impaccio e inquietudine, da un’esperienza all’altra: il periodo in carcere seguito a una manifestazione, di cui il testo ripercorre con toccante sobrietà (e con il lieve inciampo di un anacronismo, il giudice istruttore definito Gip) tutte le tappe, dalla completa vulnerabilità iniziale, all’avvio di una straniata routine, alla solidarietà con gli altri detenuti; un legame sentimentale sia intellettualmente che eroticamente difficilissimo, eppure pieno di amore reciproco, indirizzato invano verso una scelta definitiva (l’«esco e la sposo» pronunciato in prigione con richiamo al Metello di Pratolini, che, come il modello echeggiato, non si cura affatto della volontà della donna, ma, diversamente da quello, dovrà poi farci i conti); i contrasti (un po’ manierati) con i padri attaccati all’ortodossia comunista, da quello vero ai gelidi esponenti del partito; la sollecitudine intrisa di affettuosa invidia per un allievo diciassettenne insieme brioso e serio, che è il Soriano Ceccanti di lì a poco reso paraplegico dai colpi sparati dalla polizia durante gli scontri alla Bussola di Viareggio su cui si chiuse il Sessantotto pisano – e su cui anche il romanzo si arresta.

La trama sottolinea l’inasprimento della repressione, accenna alle prime ipotesi di militanza clandestina, delinea dunque un vistoso crescendo di angoscia. Ma evita ogni morale conclusiva e anzi ogni vera conclusione, restando sospesa sul dubbio circa la possibilità di una lotta al tempo stesso protesa a una meta e continuamente capace di ridiscutersi; dubbio d’altronde affiancato da un’implicita certezza, l’impegno strenuo e appassionato nel lavoro intellettuale e didattico, che scandisce tutto il percorso del protagonista, e che ha contrassegnato tutta la vita dell’autore.

NOTA

Questa recensione è uscita su Alfabeta n.29.

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