Il sogno dell’uomo di fuoco: “La madre” di Tozzi
Presentiamo ai nostri lettori l’adattamento didattico, in due parti, di un saggio di Romano Luperini da proporre alla classe con l’ausilio della LIM o di un videoproiettore. L’autore analizza due sogni con lo stesso tema (l’uomo di fuoco), desumendoli entrambi da narrazioni in prosa, una di Tozzi, l’altra di Defoe. Nella lezione che segue Luperini commenta e interpreta il sogno descritto nel racconto La madre di Federigo Tozzi.
La madre: un incunabolo dei temi principali di Tozzi
Il racconto La madre è uno dei primi scritti da Federigo Tozzi (risale al 1910). Insieme al racconto Il padre, scritto negli stesso mesi, è fortemente autobiografico e può essere considerato una sorta di incunabolo dei temi portanti dell’arte tozziana: alcune delle maggiori novelle, come Un giovane, Vita, La capanna, il libro Bestie e almeno due romanzi, Con gli occhi chiusi e Il podere ne riprenderanno i motivi centrali: la figura minacciosa e prepotente del padre, la sua relazione con una serva, l’ambivalenza affettiva della madre, il podere in campagna e la trattoria in città, la malattia di tifo del giovane protagonista, i suoi turbamenti nel contrasto con i genitori, le sue angosce, i suoi sogni o incubi. In questo racconto il materiale onirico è inoltre particolarmente ricco: il sogno dell’uomo di fuoco su cui mi soffermerò in modo particolare è infatti preceduto da un’allucinazione e seguito da una fantasticheria o sogno a occhi aperti.
L’ambivalenza affettiva della figura materna
Il protagonista, Vittorio, è un adolescente che trascorre la convalescenza (è stato ammalato di tifo ed è ancora molto debole) nel podere del padre, assistito dalla madre che vive con lui, mentre il padre va e viene con il calesse fra la campagna e la trattoria di cui è proprietario in città, e approfitta della lontananza dalla moglie per tradirla con una serva. Vittorio desidera i gesti di affetto della madre, che sottopone a vere e proprie “prove d’amore,” ma poi li respinge con atti e parole scostanti.
Una sera, al crepuscolo, la donna, che ha già avuto coscienza dell’adulterio del marito, lo scorge mentre torna in città portando sul calesse la giovane amante, e ha «un baleno d’odio». Poi, mentre il figlio va in camera a dormire, si ferma all’aperto, seduta su una panca sotto la luna, «all’ombra del susino». Vittorio intanto, sdraiato sul letto, sta pensando alla madre, e infine la chiama per sottoporla a un’ennesima prova d’affetto. Ma la serva gli risponde che la signora è uscita a prendere il fresco. Allora il ragazzo si sente abbandonato e si chiede se la madre «lo amasse da vero». Chiama di nuovo e questa volta la serva si decide ad andare ad avvisarla. Finalmente la madre «salì le scale faticosamente, s’indugiò all’uscio della camera: sembrava che avesse voluto andare altrove. Egli disse, malvagiamente: ”Perché non vieni subito?”. “Se non hai bisogno di qualche cosa, perché devo venire da te?”». La donna sembra non capire quale sia il vero «bisogno» del figlio e lesina perciò le manifestazioni di tenerezza. Non riesce dunque a rappresentare una vera alternativa affettiva rispetto alla figura paterna. Ella dipende infatti completamente dal marito, che non tollera rivali (e dunque, come si vede dalle prime pagine di Con gli occhi chiusi, non sopporta le carezze della moglie al figlio) ed esige totale subalternità ai propri voleri. Anzi, proprio l’ambivalenza dei segni che ella manda al figlio (manifestazioni di affetto e improvvisa ritrosia a mostrarlo, amore e ostilità) determina una situazione di “doppio legame” che ne rende indecifrabili i messaggi, condannando Vittorio all’incertezza e all’errore sia che risponda ai loro significati espliciti sia che reagisca invece a quelli latenti, opposti. E in questo caso, infatti, il figlio ne coglie, con acuta “malvagità” («malvagiamente»), l’atteggiamento ambivalente.
I significati del sogno
Alla risposta deludente della madre Vittorio
pianse di stizza. Pensava: “Perché mi ha risposto così?”. E tra le lacrime la candela gli sembrava che danzasse sul comodino, bruciando le bottiglie delle medicine, più rossa.
Ma la madre, senza rispondergli, aveva messo il capo sopra a lui. Allora Vittorio sentì le sue chiome sopra la fronte; e si addormentò. E sognò che un uomo di fiamma lo toccasse in tutte le parti del corpo. Ma, per ogni trafitta di dolore, la madre diceva una parola incomprensibile; e allora aveva nell’anima la voglia di farsi bruciare. E non vedeva più quell’uomo.
(F. Tozzi, Giovani e altre novelle, a cura di R. Luperini, Rizzoli, Milano 1994, pp. 339-40).
Secondo Sergio Finzi, la figura del corpo del figlio disteso dinanzi alla madre chinata su di lui sarebbe «tipica di una posizione incestuosa verso la madre» (S. Finzi, La scienza dei vincoli. Opus reticulatum: reti e vincoli in psicoanalisi, Moretti e Vitali editori, Bergamo 2000, p. 230). Comunque sia, la carezza dei capelli materni sulla fronte basta a favorire il sonno del ragazzo, che si addormenta. Il fuoco della candela si trasforma dapprima nell’allucinazione della sua propagazione alle medicine sul comodino e poi nel sogno di un «uomo di fiamma» che lo trafigge dolorosamente. A contrastare la pena, sulla scena del sogno interviene la madre. L’avversativa «Ma», che apre il periodo, segnala appunto la positività della sua presenza contrapposta all’allucinazione e al sogno dell’uomo di fuoco. Però è una positività subito controbilanciata dalla negatività della parole, che risultano incomprensibili. Nel contempo, viene posta in scena la situazione familiare: da un lato un padre distruttivo e brutale (l’uomo di fuoco), dall’altro una madre le cui manifestazioni di affetto risultano ambigue e comunque al di sotto della richiesta del figlio. Più difficile invece spiegare quanto segue:«e allora aveva nell’anima la voglia di farsi bruciare. E non vedeva più quell’uomo». Non aiuta molto l’interpretazione di Gioanola, che pure ha analizzato il sogno ma che si limita a trovare in esso la conferma del carattere non edipico dei fantasmi tozziani, i quali avrebbero i tratti «più arcaici dell’invidia e della gelosia» ed evocherebbero «la presenza del nemico, del persecutore» (E. Gioanola, Con gli occhi chiusi di Federigo Tozzi, in Psicoanalisi, ermeneutica e letteratura, Mursia, Milano 1991, p. 136). Si possono avanzare alcune ipotesi, non necessariamente in contraddizione fra loro. A una prima spiegazione (ma ne darò più avanti anche un’altra) si può giungere collocando il testo nel macrotesto del corpus novellistico e collegando la scena del sogno a una situazione ricorrente anche in altre novelle, come le già citate Un giovane, Vita e Una capanna. In esse scatta sempre una spinta all’immedesimazione e all’identificazione con la figura maschile proprio quando questa si rivela nella sua minacciosa aggressività. D’altronde far sparire la paura del persecutore proiettandosi in lui è la reazione di difesa implicita nella figura dell’“identificazione con l’aggressore” che ritorna con frequenza nella narrativa tozziana. Di qui la coincidenza, nel sogno, fra il desiderio di farsi bruciare (corrispondente a quello di farsi battere dal padre nei racconti sopra citati) e la scomparsa della figura dell’aggressore. Si potrebbe anche supporre che, come spesso accade nella logica della rappresentazione onirica, la raffigurazione sia invertita e che il sogno tragga la propria origine dalla sua conclusione e cioè dal desiderio negato di essere come il padre (d’essere “cattivo” verso la madre come lo è stato lui che è appena passato sotto i loro occhi a fianco dell’amante), desiderio messo in moto dalla reticenza della madre a manifestare l’affetto verso il figlio e da uno scatto vendicativo di quest’ultimo.
L’adolescente tozziano teme e insieme desidera di diventare cattivo come il padre. E’ chiuso in una trappola senza scampo: prova senso di colpa sia obbedendogli e somigliandogli, sia disobbedendogli e rifiutando d’essere come lui. La tendenza masochistica, che nasce dall’aggressività nei confronti del padre e dal conseguente senso di colpa e che in molti racconti si esprime nel moto d’affetto verso di lui proprio quando questi lo percuote, è tutt’uno con l’identificazione sadica. L’alternativa penitenziale fra diventare adulto e cattivo o restare bambino e buono può risolversi solo nell’immaginazione di Vittorio, come si vede nel sogno a occhi aperti che conclude il racconto. In esso Vittorio immagina di essere il brigante Tiburzi, e di condurre come lui una «vita selvaggia» fuori di ogni regola e tuttavia di essere amato da tutti «per la sua bontà». Nel sogno a occhi aperti la reintegrazione dell’io si dà significativamente come coincidenza di cattiveria e di bontà.
L’immagine del fuoco
Resta l’immagine dell’uomo di fuoco. L’ambivalenza del rapporto con il padre è quella stessa del fuoco, che è insieme simbolo di purificazione e di peccato, di energia salvifica (anche in senso religioso) e di forza distruttiva. La «voglia di farsi bruciare» sembra implicare anche una spinta alla purificazione e all’espiazione e al sollievo conseguente (e infatti la figura maschile che infigge trafitture di fuoco alla fine sparisce chiudendo l’incubo e favorendo il ritorno alla tranquillità del sonno).
Che poi qui ci si riferisca alla figura paterna, sembra scontato. Il padre, con la sua violenza e con gli espliciti riferimenti alla virilità maschile, è costantemente presente nelle opere di Tozzi. Qui, per giunta, è appena apparso sul calesse, con a fianco la serva, «femmina giovane e attraente», gettando nello sconforto la moglie, confermando la propria immagine di aguzzino e, in lei, quella della vittima e riaffermando agli occhi del figlio il legame fra virilità e “cattiveria”. D’altronde il fuoco, come è noto, è anche un’immagine dell’elemento maschile e dell’atto sessuale. E’ evidente il nesso fra l’uomo di fuoco e la figura dominante del padre colta nell’immagine mitico-simbolica di portare via l’amante guidando il cavallo. Il fuoco della passione si presenta al ragazzo in tutta la sua potenza distruttiva. C’è un legame fra il complesso di Prometeo e quello di Edipo : entrambi implicano un divieto riguardante l’esercizio del potere, dell’autorità, della conoscenza.
NOTA
Questo testo riproduce in parte il saggio di R. Luperini, Il sogno dell’uomo di fuoco, in L’autocoscienza del moderno, Liguori, Napoli 2006, pp. 83-89.
L’immagine riproduce Rosso Plastica (1962) di Alberto Burri.
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