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valerio magrelli e libreria

“L’arte della miopia” di Valerio Magrelli. Autocommento e nota

Poeti d’oggi è una rubrica dedicata alla poesia contemporanea. Ospita riflessioni sull’insegnamento della poesia e una selezione di testi con autocommento degli autori. Il primo intervento della rassegna è un autocommento di Valerio Magrelli alla poesia L’arte della miopia (da Ora serrata retinae, 1980), scelta dall’autore per la nostra rubrica. Seguono una nota critica e un profilo bibliografico. 

Valerio Magrelli, L’arte della miopia 

Sto rifacendo la punta al pensiero,

come se il filo fosse logoro

e il segno divenuto opaco.

Gli occhi si consumano come matite

e la sera disegnano sul cervello

figure appena sgrossate e confuse.

Le immagini oscillano e il tratto si fa incerto,

gli oggetti si nascondono:

è come se parlassero per enigmi continui

ed ogni sguardo obbligasse

la mente a tradurre.

La miopia si fa quindi poesia,

dovendosi avvicinare al mondo

per separarlo dalla luce.

Anche il tempo subisce questo rallentamento:

i gesti si perdono, i saluti non vengono colti.

L’unica cosa che si profila nitida

è la prodigiosa difficoltà della visione.

V. Magrelli, Ora serrata retinae, Feltrinelli, 1980¹; Einaudi, 1996.

Autocommento

E’ celebre la pagina in cui Leonardo consiglia di osservare i rilievi degli intonaci e delle pareti per rintracciarvi forme e invenzioni “mirabilissime”. Altrettanto lo è il passo di Sung Ti, che suggerisce di distendere un panno di seta bianca su un vecchio muro in rovina per tentare di scorgervi infiniti paesaggi animati. Meno nota, invece, la testimonianza del Vasari su Piero di Cosimo, crudo e sgomento brano in cui si legge: “Fermavasi talvolta a considerare un muro dove lungamente fusse stato sputato da persone malate, e ne cavava le battaglie de’ cavagli e le più fantastiche città e più gran paesi che si vedesse mai; simil faceva de’ nuvoli dell’aria”. Che schifo e che portento, vedere come la pura fiamma dell’immagine divampi da una materia tanto bruta!

Per molto tempo mi sono appassionato a tali questioni, via via indagate da artisti, filosofi, storici, studiosi della percezione. Le nubi di cui parla Shakespeare in Antonio e Cleopatra, o le clecsografie di Justinus Kerner (che in un volume di versi dell’Ottocento cercava di rintracciare i profili di uomini, demoni o falene dissimulati in semplici macchie d’inchiostro) mi ripetevano sempre la stessa cosa: forme tra forme. Solo più tardi, tuttavia, ho afferrato l’autentico motivo di un interesse così peregrino. Quei pittori, quei teorici, parlavano del modo in cui io stesso, in quanto creatura affetta da miopia, cerco di captare ciò che mi circonda.

Senza occhiali, cioè, il mio sguardo malato, agisce in un modo costitutivamente indiziario e metamorfico. Io non vedo figure: le indovino. Dal mio campo visivo emergono soltanto venature, ectoplasmi, larve, organismi vibranti. Dove l’ombreggiatura si dirada, scorgo linee sinuose, serpentine, sul punto di indicare un oggetto preciso ma insieme reticenti. Reticenti e riluttanti: ecco i termini più esatta. Il mondo-schermo, interrogato, prende tempo e cerca di eludere una risposta circostanziata. La sua fisionomia rimane sulla soglia dell’apparizione. Tergiversa. Se qualche segno giunge ad essere identificato, gli altri restano indietro, appena abbozzati, fossili ottici, impronte, lineamenti trattenuti sotto il pelo dell’acqua, pronti a affiorare benché ancora indiscernibili. Così, mi muovo in uno stato di perenne pre-comprensione e allerta.

La mia banale e lieve patologia fa sì che l’attenzione venga spontaneamente rivolta non alle cose, bensì alle loro condizioni di visibilità. Tutto il mio sforzo, infatti, consiste nel cogliere il momento in cui il segnale, uscendo dal rumore di fondo, si lascia individuare. Io do la caccia al transito percettivo, all’irruzione dell’indistinto entro il cono di luce del senso, al suo farsi figura. Gli strani ideogrammi che popolano questo paesaggio da miope corrispondono all’alfabeto di una lingua in procinto d’essere decifrata, immobilizzata nello spazio magico che precede ed annuncia la concezione del significato come compimento della traduzione.

Ricordo con orrore l’ordine che un coraggioso comandante dava, in un vecchio film, ai propri fucilieri: “Sparate solo quando vedrete bene il bianco negli occhi del vostro nemico”. Altro che sclera: in una truppa simile, io verrei sempre ridotto all’arma bianca.                                                                  

Valerio Magrelli

Nota critica di Maria Borio

Ora serrata retinae è la prima raccolta di Valerio Magrelli. Il libro viene pubblicato nel 1980 e rappresenta una novità rispetto alla poesia degli anni Settanta. Nel clima post-neoavanguardia, infatti, si diffonde la tendenza generale all’espressione dei sentimenti e delle passioni soggettive, all’effusione emotiva incontrollata con accenti spesso mistici. La poesia di Ora serrata retinae, invece, è basata sul rapporto intellettuale che il soggetto ha con la realtà e con se stesso, sviluppato attorno alle parole chiave «cervello» e «pensiero». Il tema della vista, centrale in L’arte della miopia, è uno dei migliori esempi di come Magrelli affronta il problema della percezione e della conoscenza: la vista è lo strumento attraverso cui la ragione si interroga sulla natura delle cose, sulla sua capacità di comprenderle e rappresenta una metafora meta-poetica per descrivere come nasce la poesia e quale è il suo ruolo. Il funzionamento della vista viene indagato tramite una riflessione che ha spesso un tono saggistico, che usa frequenti similitudini, una sintassi lineare con preferenza per la paratassi e un linguaggio medio con molti termini tratti dal mondo della scienza. Vicina a Valéry e ai poeti metafisici inglesi del ‘600, la scrittura di Ora serrata retinae è caratterizzata da una trasparenza espressiva che esplora i meccanismi della ragione come fossero concreti, quasi materici, alla portata di tutti e, al tempo stesso, acuti, raffinati, sublimi. Il dilemma della conoscenza trova un equilibrio perfetto.

Profilo biografico e bibliografia

Valerio Magrelli (Roma, 1957) insegna Lingua e Letteratura francese all’Università di Cassino. Ha tradotto Valéry, Verlaine, Debussy, Beaumarchais, Koltès, Barthés. Dal 1986 al 1992 ha diretto la collana “Poeti della Fenice” di Guanda. Dal 1993 al 1999 ha diretto per Einaudi la serie trilingue della collana “Scrittori tradotti da scrittori”. Ha curato l’antologia Poeti francesi del Novecento, Roma, Lucarini, 1989.

Opere poetiche

Ora serrata retinae, Milano, Feltrinelli, 1980; Nature e venature, Milano, Mondadori, 1987; Esercizi di tiptologia, Milano, Mondadori, 1992; Poesie (1980-1992) e altre poesie (comprende le tre raccolte precedenti e testi inediti), Torino, Einaudi, 1996; Didascalie per la lettura di un giornale, Torino, Einaudi, 1999; Disturbi del sistema binario, Torino, Einaudi, 2006.

Opere in prosa

Il viaggetto, Brescia, L’Obliquo, 1991; Nel condominio della carne, Torino, Einaudi, 2003; La vicevita. Treni e viaggi in treno, Bari-Roma, Laterza, 2009; Genealogia di un padre, Torino, Einaudi, 2013.

Opere saggistiche

Profilo del Dada, Roma, Lucarini, 1990; La casa del pensiero. Introduzione all’opera di Joseph Joubert, Pisa, Pacini, 1995; Vedersi vedersi. Modelli e circuiti visivi nell’opera di Paul Valéry, Torino, Einaudi, 2002; Il lettore ferito. Cinque percorsi critici: Larbaud, Apollinaire, Lamartine, Perec, Breton, Roma, Teatro di Roma, 2005; Che cos’è la poesia? La poesia raccontata ai ragazzi in ventuno voci, Roma, Sossella, 2005; Sopralluoghi, Roma, Fazi, 2006; Il violino di Frankestein. Scritti per e sulla musica, Firenze, Le Lettere, 2010; Nero sonetto solubile. Dieci autori riscrivono una poesia di Baudelaire; Bari-Roma, Laterza, 2010. 

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