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Da che parte cominciare. Risposta a Pietro Cataldi sulla scuola di tutti

Caro Pietro,

dopo aver letto il tuo lungo saggio sulla storia moderna della scuola italiana, mi sembrava che lì tu avessi detto tutto. Hai interpretato, mentore il poeta del pastore errante, il nostro smarrimento di insegnanti di Italiano, l’hai ipostatizzato e nobilitato. Tuttavia, rispecchiandomi nel doppio movimento che colgo nella tua riflessione, della nostalgia per la passione civile necessaria in un mestiere come il nostro, e della tristezza per l’insignificanza politico-sociale a cui oggi gli insegnanti – divenuti tecnici della conoscenza – sono condannati, continuo a pensarci. La recente legislazione sull’obbligo scolastico ci ha rinnovato l’ammonimento al dovere costituzionale di aprire la scuola pubblica “a tutti”, senza però curarsi di come possiamo renderla davvero “di tutti”. E nessuno sa da che parte cominciare, in molti persuasi – tra insegnanti, nella comunità scientifica e nella società civile – che il prolungamento dell’istruzione sia uno sforzo per così dire vano, come se una scuola e una università di massa significassero una ulteriore dequalificazione di tutto il sistema dell’istruzione, non un avanzamento in civiltà di questo paese.

Sentendo anche io questa sfiducia, sempre più disincantata sul valore delle resistenze individuali quando manchi – come oggi nella scuola e sulla scuola – un qualche imperativo categorico di tipo kantiano a orientare i comportamenti individuali, tuttavia voglio accogliere la sollecitazione che ci lanci a «riprendere il controdiscorso della modernità, sia pure con i suoi limiti e le sue contraddizioni […] per dare ancora a tutti il diritto di fare alla luna le domande del pastore leopardiano». Dunque, con qualche imbarazzo, provo a proporre alcune osservazioni.

  1. Attualmente l’affermazione del modello pedagogico delle competenze, insistente su un ben riconoscibile e misurabile valore d’uso delle discipline piuttosto che su un loro incontestabile ma astratto valore culturale, costituisce una nuova sfida sul piano professionale per noi insegnanti. Il dibattito sulla centralità della lettura nell’ultimo decennio ha chiarito che il canone della scuola è fatto soprattutto di grandi opere, sulle quali deve convergere una doppia attenzione, quella centrata sull’opera/testo e quella sul lettore/studente. Ma oggi la didattica della letteratura nella scuola delle competenze ci chiede un ulteriore impegno in senso metadisciplinare. Fondamentale, infatti, diventa cosa possiamo fare con la letteratura, visto che l’efficacia della scuola si misura soprattutto sulla sua capacità di coinvolgere attivamente gli studenti in tutte le fasi del processo di insegnamento-apprendimento e di sollecitarli a una continua trasferibilità delle conoscenze apprese in contesti diversi.

  2. Da insegnanti osserviamo – come Massimo Recalcati, da te citato, osserva nella clinica psicologica – quell’aumento dei disturbi alimentari e dell’assunzione di antidepressivi da parte dei giovani. In questa situazione, al di là della retorica delle certificazioni di competenza che la scuola è chiamata ad assicurare, per l’insegnante di letteratura, la centralità dello studente s’impone con assoluta precedenza su qualsiasi altra ragione. La condizione per ritrovare un senso al nostro stare in classe è di domandarci se e come, in quanto insegnanti di letteratura appunto, possiamo “fare da ponte” tra i nostri allievi che, liberati dal peso della Tradizione e degli Ideali (con la lettera maiuscola) sono assediati dalla coazione al vuoto del presente in cui vivono, privo di memoria e di futuro, e un corpus di testi consacrati dall’istituzione scolastica come classici, per la carica di significati e la loro qualità formale.

  1. Il modello socio-costruttivista della conoscenza oggi è dominante nella scuola e si è imposto anche attraverso le nuove tecnologie. Esso ci chiede di considerare la disciplina non come un fine ma come un mezzo: e non per una supina resa delle pratiche pedagogiche alla logica pragmatico-funzionale dell’economico, bensì anche perché intercetta – mi sembra – un diffuso tratto culturale dell’oggi. Se la “svolta linguistica” in filosofia, nel passaggio alla “società post-industriale”, ha escluso modelli didattici disciplinari perfettamente chiusi ed unitari, l’insegnamento, a livello della scuola secondaria di secondo grado, non può non scontare la permeabilità dei confini disciplinari sempre meno rigidi. Se anche noi, come persone ben prima che come insegnanti, siamo costretti a fare la spola tra conoscenza scientifica ed ermeneutica, tra argomentazione e modalità metaforiche del discorso, i nostri studenti crescono in questa permeabilità, di cui forse imparano a riconoscere forme e limiti con varie manipolazioni dei testi.

  2. Il blog “la letteratura e noi” indica una strada certamente interessante e militante per gli insegnanti di Italiano, individuando nell’insegnamento “culturale” della letteratura una difesa dallo spaesamento che oggi minaccia tutti, giovani e meno giovani. Ma calandoci nello specifico delle trasformazioni in atto nella scuola, tra riformulazione dei curricoli di studio e adozione delle tecnologie multimediali nella didattica d’aula, la questione ineludibile resta che cosa a uno studente si può e si deve chiedere di fare su e con i testi. Se a livello di scuola secondaria superiore accettiamo di parlare di competenza letteraria, come parliamo di competenze linguistiche, matematiche, fisiche ecc., cioè se applichiamo il concetto di per sé trasversale e “strumentale” di competenza alle disciplinarità specifiche, forse possiamo dire che la competenza letteraria nella e della scuola è principalmente competenza interpretativa. Il problema che ne deriva è come i lettori-studenti possano esercitarla, nel rispetto della storicità delle opere, entro pratiche didattiche sempre più incentrate sull’operatività.

  1. Infine, tu citi l’articolo 34 della Costituzione per rimarcare l’obbligo costituzionale di qualificare la scuola pubblica. Ma a incalzare l’insegnante è anche l’art. 3, che mobilita la responsabilità individuale dei singoli docenti e dei singoli istituti nella specificità dei loro territori. Rispetto a 10 o 15 anni fa, per «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e la uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese», la scuola, che non dispone più delle stesse risorse economiche di allora, necessiterebbe di professionalità altamente qualificate, capaci di interpretare domande culturali, emotive e creative spesso opache, corrispondenti ai diversificati bisogni delle nostre società. A questi bisogni il neoliberismo propone risposte fittizie e sbagliate, ma tuttavia coerenti con un modello spietato di competizione economico-sociale. Gli insegnanti di lettere, portatori del valore della lentezza, necessaria per la formazione critica e la conoscenza di sé, restano i meno attrezzati a concorrere all’educazione alla cittadinanza delle nuove generazioni, marginalizzati per cosa e come insegnano. Perciò la definizione di un nuovo paradigma didattico per l’insegnamento della letteratura presuppone una riflessione – dentro e fuori dei TFA – su che cosa significhi oggi formare un docente di lettere, su che cosa debba puntare la formazione iniziale dei giovani insegnanti e quella permanente dei docenti in servizio, nella consapevolezza che l’arroccamento in una routine difensiva non favorisce nessuno: né la scuola né la letteratura né noi.

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