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Le avventure dell’autore avventizio/2

Pubblichiamo la seconda delle cinque puntate del “Diario di un autore avventizio”, che Romano Luperini ha scritto in occasione della pubblicazione del suo nuovo romanzo: “La rancura”. Gli articoli verranno pubblicati ogni venerdì e si concluderanno con l’anticipazione di un brano del romanzo. La prima parte si può leggere qui.

A Mondadori sono arrivato per caso, e seguendo la trafila naturale di un autore avventizio. Una mia ex allieva, che lavora nella editoria a Londra e a cui avevo chiesto lumi per orientarmi, mi aveva fornito diversi mesi fa due indirizzi elettronici: quello di Carlo Carabba per Mondadori e quello di una ragazza che lavora presso Rizzoli, seppure in un settore estraneo alla narrativa. Ho mandato il testo a entrambi, e dal secondo indirizzo non ho avuto alcun riscontro. Viceversa Carabba mi ha risposto subito dicendomi che non si occupava di narrativa e indirizzandomi a Giulia Ichino.

Cosa che ho fatto subito. Dopo due o tre mesi Ichino mi ha scritto in modo incoraggiante, dicendomi che i lettori della casa editrice e lei stessa, dopo aver esaminato il romanzo, erano orientati positivamente. Subito dopo ho ricevuto una telefonata di Franchini, direttore del settore della narrativa, che mi proponeva la pubblicazione. Faccio notare che prima di quel momento non aveva la minima conoscenza né di Carabba, né di Ichino, né di Franchini.

Nei giorni successivi mi ha colpito che Franchini fosse molto presente, mi telefonasse frequentemente, rispondesse subito a ogni dubbio. Mi ha colpito anche, in un incontro milanese con Ichino e Franchini, che entrambi avessero letto con attenzione il manoscritto e si rifacessero anche a una precedente relazione scritta elaborata da un “lettore” della casa editrice. Da tutto ciò si può dedurre che normalmente la trafila della selezione di un romanzo passi attraverso tre fasi: dapprima la relazione di uno o più “lettori”, poi il giudizio del responsabile della collana, infine l’approvazione definitiva da parte del direttore della narrativa.

Poi, improvvisamente, silenzio. Quando ho letto sui giornali che Franchini passava a Giunti, ne ho capito la ragione. C’è stato un intermezzo in cui mi sono sentito abbandonato anche perché la fusione di Mondadori con Rizzoli ha prodotto, immagino, una certa confusione e la necessità di una riorganizzazione interna alla casa editrice. È in questo intermezzo che è intervenuta l’agenzia libraria (Agenzia Letteraria Internazionale di Milano) a cui mi ero rivolto, ed è stata così risolta la controversia con Transeuropa/Feltrinelli di cui ho già parlato. Infine le cose si sono sistemate con la nomina del nuovo direttore della narrativa, quel Carlo Carabba a cui mi ero casualmente rivolto all’inizio della vicenda e che ho avuto poi modo di conoscere personalmente nella sede Mondadori di Roma.

A questo punto è intervenuto l’editor, Nicoletta Reboa. L’editor ha il compito di uniformare il testo alle esigenze e alle norme, anche grafiche, della casa editrice. Nel mio caso, però, gli interventi sono stati molto sobri, rivolti soprattutto a “normalizzare” il testo, riducendo al minimo i regionalismi toscani, evitando inutili ripetizioni ed errori nella cronologia della trama e soprattutto aiutando il lettore nella comprensione attraverso rapidi raccordi o interventi di spiegazione della trama. Ho accettato spesso (ma non sempre) le modifiche proposte, perché mi sono sembrate perlopiù giustificate e sensate. Ma in ogni occasione mi è stata lasciata completa libertà di accogliere o rifiutare le proposte innovative.

L’ultimo atto è stato quello di scegliere la copertina. La casa editrice ha proposto una foto elegante e raffinata, anche se non del tutto pertinente al tema del romanzo, e io ho avanzato la possibilità di sostituirla con un’altra foto, quella di cui parlo nel corso del romanzo, una foto del dicembre 1943, spedita a mio padre partigiano in Istria, che rappresenta mia madre in tempo di guerra, seduta nell’erba alta con un viso magro, e un bambinetto (il sottoscritto) che l’abbraccia schiacciando le labbra sulla sua guancia sofferente e orgogliosa. La casa editrice ha fatto varie prove e ha scelto la foto proposta inizialmente. Tutto sommato, meglio così: la foto di mia madre preferisco resti un fatto privato. E poi, se è vero che l’immagine scelta ha un’aura surreale estranea all’atmosfera che circola nel mio romanzo, tuttavia è anche vero che quell’omino alla Magritte che guarda nel vuoto interrogandosi sul senso della vita non è molto lontano dalle figure del padre e del figlio che il lettore incontrerà leggendo il romanzo.

Insomma come autore avventizio di un romanzo ho fatto un’esperienza nuova, ignota al saggista. Come autore di studi e di saggi avevo avuto a che fare indubbiamente con i problemi della selezione, dell’editor e della copertina, ma in modo molto diverso. Prendiamo quello della selezione. Per uno studioso conosciuto esso non si pone quasi più, e, ammesso che insorga, viene quasi sempre risolto con l’intervento finanziario di qualche istituto (università, enti locali, banche o addirittura – questa è l’”editoria” accademica italiana! – pagando di tasca propria), ma, se questo stesso studioso diventa autore di narrativa, deve passare (tranne rare eccezioni in cui entrano in gioco risonanza televisiva o appoggi e conoscenze altolocati, e questo non è il mio caso) attraverso le forche caudine di una vera selezione a cui presumibilmente non era più abituato. Inoltre l’editor della saggistica si limita a interventi grafici e alla correzione dei refusi, mentre la scelta della copertina coinvolge poco o nulla l’autore (perché è quasi sempre determinata dalla collana in cui il libro rientra) e comunque ha una importanza molto minore e quasi sempre trascurabile. La vicenda editoriale dell’autore di un romanzo è insomma assai più varia e complessa, anzi, direi, più avventurosa.

A questo punto immagino che il lettore si porrà una domanda. Poiché io ho una certa notorietà come studioso e critico della letteratura, questa circostanza può aver favorito il giudizio positivo da parte della casa editrice? La risposta è: no. Anzi, ritengo che uno studioso e critico letterario venga visto con un certo sospetto e che questa preliminare diffidenza sia sostanzialmente giustificata. Non sono pochi infatti i casi di miei colleghi che hanno provato a saltare il fosso e a cimentarsi nella narrativa, e in genere i risultati non sono stati certo brillanti. Non solo infatti un professore si porta dietro il peso di uno stile e di una identità di cui non è facile liberarsi (posso dirlo anche per diretta esperienza personale), ma ha un rapporto con la realtà troppo limitato e indiretto perché troppo filtrato dai libri e dalla stessa gestione del potere accademico.

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