
Machiavelli in classe. Il saggio come discorso su di sé e sul mondo
Cari lettori e lettrici, la redazione di LN si prende una pausa estiva per tutto il mese di agosto. Durante questo mese, ripubblicheremo alcuni articoli già usciti nel corso dell’anno. Ci rivediamo a settembre.
Chi si affaccia oggi alla critica letteraria deve prendere atto dell’evaporazione di due attributi essenziali: la sacralità ed il carattere collettivo. Il primo è un fenomeno di cui ha parlato a lungo Bourdieu: il rapporto fra autore, testo e pubblico riflette quello che unisce profeti, sacerdoti e fedeli secondo un meccanismo che consente di attribuire senso e tenere in ri-uso il discorso critico. Il carattere collettivo della scrittura saggistica, invece, ci porta molto indietro nel tempo, alla nascita di questa forma e ad alcune sue caratteristiche fondamentali. In quanto genere letterario argomentativo, il saggio non può liberarsi da un certo tasso di parzialità: i primi saggisti moderni hanno abbracciato la particolarità del proprio punto di vista facendo affidamento a ragione e stile. Ragione, stile e individualità che si realizzano su un piano collettivo sono le forze che muovono uno dei primi esempi di saggismo moderno: Il Principe di Machiavelli. Già in alcuni passaggi della «Dedica» sono percepibili tutti i caratteri che assumerà la scrittura saggistica successiva:
[5] Né voglio sia imputata prosunzione se uno uomo di basso e infimo stato ardisce discorrere e regolare e’ governi de’ principi; perché così come coloro che disegnano e’ paesi si pongono bassi nel piano a considerare la natura de’ monti e de’ luoghi alti e, per considerare quella de’ luoghi bassi, si pongono alto sopra ‘monti, similmente, a conoscere bene la natura de’ populi, bisogna essere principe, e, a conoscere bene quella de’ principi, conviene essere populare. […]
[7] E se vostra Magnificenza da lo apice della sua altezza qualche volta volgerà li occhi in questi luoghi bassi, conoscerà quanto io indegnamente sopporti una grande e continua malignità di fortuna (pp. 5-6).
Il discorso di Machiavelli è nuovo, clamoroso e inaudito. Questi brani sono scomponibili in tre parti che ci parlano, rispettivamente, di democrazia, straniamento e individualità. Sostenere che la natura del Principe possa essere compresa solo da chi la guarda “dal basso” della scala sociale è un oltraggio che annulla le differenze di casta ed esalta l’indistinzione fondata sulla ragione. La similitudine col cartografo, che deve sempre trovarsi fuori da un qualunque sistema per descriverlo adeguatamente, è una metafora dello sguardo straniato del critico e sembra anticipare le parole con cui Benjamin guarda alla modernità della poesia baudeleriana: il critico è un osservatore liminale, deve stare sia dentro il che fuori dal fenomeno di cui vuole parlare. Questa marginalità (la condizione infima, angusta, bassa dell’intellettuale-Machiavelli) diventerà lo statuto naturale della critica: l’intellettuale è l’escluso a cui tocca sublimare ed allegorizzare la propria condizione. L’ultima, clamorosa, infrazione sta in quelle parole finali in cui ritorna il movimento alto/basso, con il basso che è il punto di arrivo di una dolorosa e personalissima catabasi che ci parla dell’esperienza privata del Machiavelli uomo, allontanato da Firenze ed isolato all’Albergaccio. Rifiutando di piegarsi alle regole della retorica, l’autore inserisce un riferimento a quella personalissima malignità di fortuna che sembra perseguitarlo dal 1512. La fortuna, però, è anche il fiume carsico che si muove fra le pagine di tutto il trattato: è la forza immensa che favorisce e poi distrugge Cesare Borgia, che minaccia i dominatori di stati nuovi o misti e che mette in crisi l’equilibrio del Principe nel venticinquesimo capitolo. La condizione individuale è dunque una sineddoche che permette di leggere il mondo e il destino dell’uomo. Come ha spiegato Luperini, rifacendosi ad un’idea della saggistica che eredita proprio da Machiavelli, ma che si realizza con Lukács:
Il carattere privato, individuale e particolare viene travalicato non già attraverso la sua negazione e l’assunzione di un punto di vista astratto e universale, ma lavorando proprio su tale particolarità e sublimandola con lo stile e con la forza o il timbro della pronuncia. A differenza degli scritti scientifici, il soggetto, con le sue scelte stilistiche, le sue impuntature e sprezzature, resta sempre presente sia quando il saggio assuma la forma di un massimo di asistematicità —per esempio, quello degli appunti (magari di lettura) e degli aforismi—, sia quando miri invece a un massimo di sistematicità espositiva (p. 19).
Sono immagini che si prestano bene ad illustrare una sintesi fra sistematicità e personalismo che si uniscono a creare un’opera unica per coerenza e potenza, una lezione di metodo per chiunque voglia intraprendere, ancora oggi, una ricerca in campo umanistico. Una lezione difficile da impartire, soprattutto in un momento storico in cui le discipline umanistiche si adattano sempre di più a metodologie di provenienza scientifica. Il nostro compito delicato è dimostrare come individualità e parzialità non significano sempre anarchia, ma hanno costituito anche l’inizio di quella rivoluzione culturale e sociale che ancora oggi chiamiamo modernità.
Bibliografia
Niccolò Machiavelli, Il Principe, edizione a cura di Giorgio Inglese, Torino, Einaudi, 1995, pp. 5-6.
Romano Luperini, Il dialogo e il conflitto. Per un’ermeneutica materialistica, Bari, Laterza, 1999.
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