Piccolo romanzo europeo
Ripubblichiamo qui un racconto dello scrittore fiammingo Koen Peeters, già apparso qualche anno fa nell’antologia “Scrittori d’Europa 2007″ (a cura di Domenica Perrone, Bonanno, 2007). “Piccolo romanzo europeo” è la storia di Theo Marchand, un ebreo-belga scampato alla persecuzione nazista, che colleziona parole e lingue per ricomporre la sua identità perduta. Attraverso gli incontri e le peregrinazioni di questo malinconico protagonista Peeters ci restituisce un ritratto dell’Europa, delle sue trasformazioni e delle sue contraddizioni.
Gli dissi che andavo in cerca di eventi, miei e d’altri, che volevo schierare in mostra in un Libro, per vedere se mi riusciva di convogliare ai profani il sapore forte ed amaro del nostro mestiere, che è poi un caso particolare, una versione più strenua, del mestiere di vivere.
Primo Levi, Il sistema periodico
1. Dublino
Bruxelles, alla fine degli anni Trenta.
Quando venne chiamato nella sala riunioni, il ragazzo stava studiando diligentemente. Quando gli venne comunicata la notizia, raggelò. Il tempo si fece incredibilmente solido, denso come un grumo. Attraverso la finestra aperta il freddo e il baccano della piazza De Brouckèresi si riversarono dentro la sala. Cos’era il minaccioso trambusto lì fuori? Un corteo, un’adunata? Era la marcia dei Rexisti, con bandiere, torce e braccia agitate in aria. Stavano in posa per una foto di gruppo? Erano ubriachi?
La notizia gli venne comunicata contemporaneamente in una decina di lingue. Sembrava che l’intera Europa si fosse raccolta lì. Il ragazzo capì a malapena. S’inginocchiò vicino al padre, tangibilmente morto. Vide sul petto una macchia di inchiostro rosso. Qualcuno invocò aiuto, ciascuno pianse il morto e probabilmente anche se stesso. Poi tutti si zittirono. Il ragazzo pensò: non saprò mai cosa è stato detto qui.
«Ci prenderemo cura di te», fu detto al ragazzo in lacrime. Un uomo mangiava pistacchi in modo nevrotico. Un tipo di Dublino cominciò a pregare e altri tre pregarono insieme a lui. Annuirono, bisbigliarono. Poi ad un tratto scoppiò una discussione animata, le voci si surriscaldarono, si mischiarono le lingue e si alzarono persino delle urla. Non si capivano o non erano d’accordo? Venti minuti più tardi la questione era chiusa. Il più anziano e più grigio di loro trasse di tasca la penna e scrisse: «Il ragazzo partirà per un viaggio e non dovrà farsi vedere in giro per un bel po’».
Nella valigia del morto furono trovati biglietti di grosso taglio avvolti in fascette, come nei film o in banca. C’erano anche azioni e titoli di Stato. Due uomini che avevano partecipato alla riunione fecero l’inventario: i soldi vennero contati, ricontati e divisi. Ognuno appose la propria firma. Poi avvertirono la polizia.
Quando il ragazzo fu di nuovo solo, poggiò la mano, bianca e fredda, sulla scrivania. Le dita si fermarono su un elenco di parole. Per un momento sentì il calore delle lettere.
Poco dopo scoppiò la guerra. Il ragazzo venne mandato via:
ah notre petit Theo,
der kleine Theo,
il piccolo Theo
Per quattro anni Theo fu sempre il figlio di qualcun altro. Il ragazzo andò in giro per l’Europa, e in questo modo scomparve. C’era e non c’era. Come nel gioco delle sedie, c’era sempre uno di troppo ma, finché risuonarono le note della marcia militare, nessuno sembrò farci caso.
2. Vilnius
Anni Quaranta, da qualche parte nel Sud.
Nei pressi della strada c’era un mulino ad acqua con un torre medievale e dei merli, come nei disegni dei bambini. Il canale era due chilometri più in là – una striscia che si snodava linda nel paesaggio. Dietro il mulino ad acqua c’erano eucalipti e platani. Gli eucalipti, scagliosi come se dovessero comunicare qualcosa con urgenza; i platani, con la loro scorza rosea e scortecciata. Quasi tutto in questi alberi si agitava: non il fusto, ma il primo ramo un poco, il secondo di più e, in cima, le foglie turbinavano pazzamente. Strepitavano, si scatenavano. Theo doveva imparare a sopportare quel chiasso. Ma era un ragazzo di città e non si sarebbe mai abituato veramente allo scrosciare tumultuoso di quelle cascate di verde. Anche d’inverno gli alberi non tacevano: i rami rinsecchiti gemevano o crollavano per terra scricchiolando.
Theo abitava nel mulino presso una coppia di anziani. L’uomo e la donna erano cordiali ma terribilmente semplici. Theo si annoiava o studiava. Il suo soggiorno veniva pagato regolarmente e generosamente. Ogni mese passava qualcuno, e poi insieme facevano una passeggiata intorno al boschetto. Theo doveva rivolgersi al visitatore chiamandolo tutore, tuteur o tutor o guardian, ma erano uomini sempre diversi. Benevoli, nervosi. Ogni tutore gli spiegava come andavano i suoi affari, parlando con un tono didascalico. Gli parlavano d’import ed export, delle strategie di distribuzione, delle trattative. Ricevette così la sua prima formazione commerciale. Alcuni suggerimenti: mai dire per primo il prezzo. Discuti o fingi di accettare il prezzo ma poi chiedi di più per la stessa cifra. Chiedi uno sconto supplementare quando l’accordo è già praticamente concluso. Ricorda che puoi far saltarel’accordo a qualsiasi punto della trattativa.
Theo era già bravo nel fare calcoli; ora stava imparando a calcolare a mente le percentuali, come si guadagna e come si perde, come si investe a breve o a lungo termine. Capiva al volo, e ne dava prova. Ciò spingeva il tutore di turno a spiegare di più, e la sera, in camera, Theo appuntava tutte quelle lezioni: perché erano torbide, passionali e perfino illogiche.
«Hai il talento di tuo padre», gli disse uno dei tutori. «Hai la sua intelligenza, le sue astuzie. Per fortuna non ne hai la tristezza». Camminavano sotto gli eucalipti dalla scorza sottile e pallida. Sopra di loro le foglie ammiccavano e chiamavano. Anche nelle giornate assolate tirava vento, e i pochi momenti senza vento erano solo l’annuncio di una tempesta imminente. Giorno dopo giorno stendeva elenchi di parole, studiava le lingue. Theo caricò una nuova cartuccia nella stilografica, e scrisse in lettere lente e in blu scolaresco.
Vtzder, vater, father, père, padre.
Moeder, mutter, mother, mère, madre.
A volte i suoi pensieri salpavano, e intorno alla punta della stilografica cresceva sul foglio un fiordaliso. Con quell’azzurro fiacco, quell’azzurro all’antica, irreale e materno. Poco dopo la nascita di Theo, sua madre era morta, nei pressi di Vilnius. Lo sjtetl in cui abitavano era stato spazzato via, così gli aveva detto suo padre, e perfino il loro Dio allora era stato cancellato per sempre. Per questo era necessario che Theo studiasse molto.
In quegli anni venivano assassinati circa sei milioni di ebrei: gasati, fucilati, impiccati, sfiniti e alcuni costretti al suicidio. Nel frattempo Theo sfogliava una guida degli uccelli europei. Imparava a memoria i nomi degli uccelli in quattro lingue e in latino – un passatempo inutile. L’uomo del mulino gli indicava e nominava gli uccelli, e Theo traduceva all’impronta. Quando osservava gli uccelli, i nomi fluivano insieme al loro volo. Le rondini rasentavano la strada e nello spostamento d’aria si sollevavano hirondelles, swallows, Schwalben. Subito dopo in latino: hirundo. A volte le sue mani si agitavano imitandone svolazzi e volteggi.
Mus, moineau, Sperling, sparrow, passer, passero Kraai, Krahe, crow, corneillee, corvus, cornacchia.
Ilsvogel Eisvogel kingfisher, martin pécheur, Alcedo, martin pescatore.
Non c’era un ordine fisso nell’elenco delle parole e delle lingue, importava solo il ritmo. Le sue dita svolazzavano per incastrare le parole nelle loro posizioni. Non era una bella scena; era al lavoro un piccolo pazzo.
Leeuwerik, Lerche, lark, alouette, alauda, allodola.
Spreeuw, Star, starling, étourneau, sturnus, storno.
Per Theo la creazione, il mondo non erano che un dizionario, uno schema. Erano una mappa. Degli dèi romani sapeva gli equivalenti greci. Aveva memorizzato in olandese e in latino i nomi delle ottantotto costellazioni. Senza che nessuno glielo avesse chiesto elencava le capitali europee e, quando gironzolava intorno al mulino ad acqua, ripeteva fra sé gli elenchi cantilenando, ballando, saltellando. Ripeto, non era una bella scena.
Un giorno Theo avvistò un uomo immobile nella sua auto. Lo stava osservando? O aveva lo sguardo fisso nel nulla? Stava solo dormendo? Theo fuggì dentro terrorizzato snocciolando i suoi elenchi come una preghiera nevrotica. Cercava i legami di suono tra le parole.
Klink, klank, klonk.
Drink, drank, dronk.
Stink, stank, stonk.
Poi chanter une chanson, boire une boisson, e la toison d’or e le poisson d’avril.
E exhaustif è esauriente è erschopfend.
E Herz, cors, coeur, heart, cuore.
E nemo è latino per nessuno, nobody, personne, e via di seguito finché non ritornava tranquillo.
Theo conosceva a memoria l’albero genealogico delle lingue indoeuropee, compreso il segreto disegno dei rami che crescevano e si biforcavano. Ad ogni bivio nominava un anno e piegava le mani a forma di calice. Ripassava quelle nozioni coricato sotto l’eucalipto. Cominciava dal ramo baltico-slavo, per passare poi a quello germanico, a quello romanzo e a quello celtico. Raccontava la storia a se stesso ad alta voce: 3400 anni fa si separò un ramo baltico, da cui germogliarono il ramoscello lituano e quello lettone, oltre ad un ramo slavo che intorno al 1300 si divise in un ramo superiore con sopra lo Sloveno e sotto – movimento della testa e del braccio – un ramoscello che si geminòa sua volto nel serbo-croato da una parte e nel bulgaro e nel macedone dall’altro. E sempre nel 1300 – movimento della testa e del braccio – da una parte un ramoscello più alto con il sorbo e dall’altra un ramo con il ceco e lo slovacco e – movimento della testa – dall’altra il polacco proteso verso il russo che piega verso l’ucraino e il bielorusso. La testa di Theo dondolava, le mani si libravano nell’aria. Con le dita tracciava il disegno dei rami sopra di sé.
Come una scimmia ammaestrata.
Quando andava a dormire, si avvolgeva in una coperta immaginaria, larga come il letto, e vi gettava dentro le parole che aveva imparato. Quando una lingua si zittiva, un’altra le dava il cambio ciarlando. Di notte tutte le lingue erravano e mutavano, rubando parole. Avevano figli e figlie, e si separavano gradualmente. Le parole si disponevano in catene serpeggianti ed eloquenti.
Zing, zang, zong.
Sing, sang, sung.
Drink, drank, dronk.
Drink, drank, drunk.
Et qui a bu, boira.
La stanza si riempiva di un ardore raziocinante che nel sonno lo rendeva più intelligente. Al risveglio le sue pupille brillavano profonde e nere per via delle parole. Per Theo era un modo come un altro per fare del suo meglio. Così continuava a cercare: saltava su un piede, indovinava una risposta, contava parole e uccelli per sapere di più. Forse un numero, un rapporto, una connessione avrebbero potuto salvarlo. Solo per questo più avanti avrebbe fatto carriera, parlato le lingue, accumulato guadagni: per trovare un significato nei segni.
3. Roma
Anni Cinquanta.
Theo aveva fatto i conti, aveva discusso i nuovi obiettivi. Poi aveva annotato i ricavi del mese nel registro. Tutti erano diligentemente al lavoro. Sulla carta intestata il nome dell’azienda figurava in rosso acceso: MARCHAND, Rue de Livourne- Livornoscraat. Marchand, a caratteri cubitali. Ma quel ragazzo una volta non si chiamava diversamente? Marcus? Maerski? Marcowicz? O qualcos’altro ancora?
Dopo la guerra Theo fece buoni affari. Comprava e vendeva, era un imprenditore. Apparteneva a quel tipo di uomini, giovani e dinamici, che chiacchierano, bisbigliano o gridano platealmente; uno di quelli che inghiottono e tacciono o fanno un gran chiasso. Le parole, quando cerchi di agguantarle, scivolano via ombrose, i pensieri si accartocciano. In tutte le stagioni questi signori indossano un gessato senza età, una camicia bianca e una cravatta sintonizzata sulla moda del giorno.
Ogni volta che Theo telefonava a un collega d’affari, chiedeva com’era il tempo dall’altra parte della linea. A Roma un caldo rovente. A Londra cielo coperto. A Parigi pioggia.
«Tra poco arriverà la pioggia anche qui a Bruxelles», diceva allora Theo e,raccogliendo tutti quei messaggi internazionali, si sentiva ricco e libero. Per lui queste telefonate erano la libertà, il progresso, il benessere. Nel suo ufficio aveva appeso una carta geografica: gli uomini parlano con piùschiettezza, così pensava, quando alla parete c’è una carta geografica. Dava concretezza alle loro parole. «Navigare necesse est» diceva anche, dobbiamo navigare, dobbiamo esplorare il mondo. Vivere, agire, parlare senza pregiudizi. Parlava di prospettive più ampie, di grandi gesti.
Durante l’adolescenza aveva sempre scritto con inchiostro blu pallido; ora si serviva di un allegro turchino da dopoguerra. Ricordava il momento esatto in cui quel colore era apparso: scrivendo, per un attimo, il colore si era fatto verdastro, verde menta ed eucalipto, per poi stingersi in turchino. Si stendeva all’indietro con le mani dietro la testa e studiava il soffitto. La sua ambizione segreta era possedere una società anonima per la quale lavorassero cento persone. Cento: gli sembrava un numero gestibile, come un tempoil novero delle costellazioni o i rami nell’albero delle lingue.
Nel 1958 a Bruxelles si tenne l’esposizione universale. La città era invasa da stranieri vocianti. Eccoli i turisti: aperti, curiosi, allegri. Theo si stupì dell’ottimismo che il cemento e il metallo gli gridarono.
Alle Menschen werden Brüder! Brothers! Frères! Fratres!
Al Teatro americano, sotto i ciliegi giapponesi in fiore, apparvero delle lettere tra i rami. Una S serpeggiante, i rebbi della E, nell’incrocio di due rami la X. E X e ancora X. Theo s’innamorò di una donna, e arrivò finalmente il primo rapporto sessuale. I suoi pensieri si stinsero in un pallido rosa, in un cielo biancodella consistenza di un battito di ciglia.
Quel morbido, leggero fondo dell’essere.
Al momento di venire, fu travolto da un’ondata di parole. Ascoltò l’eco dell’eiaculazione. Quali parole erano? Non riusciva a capirlo. Emergevano dalla sua profondità più intima, dalle lacune e fessure dell’io. Venivano a galla solo per un attimo e poi svaporavano. Ogni volta che facevano l’amore, era preso alla sprovvista dall’affiorare di diparole che non riusciva a decifrare.
La ragazza lo trovava silenzioso. A volte asociale, pieno di sé, troppo assennato. E la sua rabbia crebbe.
La relazione finì. La seconda ragazza di Theo: gli annunciò di essere innamorata di lui. Andò tutto molto in fretta. Insistette perché lui restasse a dormire da lei. La mattina furono svegliati dalle voci dei bambini che giocavano in una scuola vicina. Fecero sesso e quando Theo venne, sentì soltanto le urla compulsive dei piccoli ossessi sul campo di gioco. Guardò fuori, osservò la risacca dei bambini. Era come se una mano invisibileavesse stesouno strato divernice fresca cancellando le parole. Theo voleva tornare a sentire quei messaggi indecifrati. Forse sarebbe dovuto tornare al mulino della sua adolescenza?
Anche questa relazione finì.
Quando un mese dopo Theo ritornò in macchina al vecchio mulino, sulla facciata era appesa un’insegna con il disegno naïf di un mulino ad acqua. Il mulino era diventato un ristorante. Sul retro c’era un piccolo giardino ornitologico. Theo seguì il padrone mentre spargeva mele e erba medica nelle gabbie. C’erano delle pernici e un’upupa, una gazza senza coda, un uccello rossastro proveniente dall’America. Sotto gli eucalipti venivano allevati dei fagiani di monte.
«Tetrao tetrix», disse Theo, e il padrone fu ancora più sorpreso quando giunsero alle gabbie in cui erano rinchiusi una cicogna, dei falchi e un cuculo malato, e Theo disse:
Ooievaar, stork, Storch, cigogne, ciconia.
Valk, Falke, folcon, foucon, falco.
Koekoek, cuckoo, coucou, Kuckuck, cuculus.
Nel ristorante Theo vide un ritratto del mugnaio e di sua moglie appeso alla parete vicino ai paralumi in pergamena.
«È questo il mugnaio?», chiese Theo.
«Sì, lo conosce?»
«No», mentì Theo, «ma era prevedibile che fosse una foto dell’antico proprietario».
«Stasera si ferma a mangiare da noi?» chiese l’oste. «Abbiamo un piatto di cinghiale o di Confit de canarcd».
Theo assicurò che sarebbe rimasto, ma poi tornò a Bruxelles senza fermarsi per strada.
4. Tirana
Theo parcheggiò la macchina in una traversa della Louisalaan. Dalla facciata di una grande casa signorile pendeva una bandiera rossa con un segno nero che lo fece rabbrividire. Un drago, un leone fascista? No, era la bandiera con l’aquila bicipite, sulla facciata, Ambassada e Republikes se Shqiperise. Era l’Ambasciata dell’Albania.
Capitale dell’Albania, si chiese. Tirana, si rispose.
Adelaar, Adler, eagle, aigle, adelaar, aquila.
Theo entrò nella sala di un hoteldella Louisalaan. Planò rapido, sicuro, con successo, tra la folla; non si fermò con nessuno, ma chiacchierò con tutti. Concludeva le sue conversazioni con: «Devo scappare». Oppure: «Corro a salutare un paio di amici». Theo chiacchierava frivolo e superficiale, con interesse o con ironia, talvolta discuteva accalorandosi in modo provocatorio. Parlò finché non ebbe imparato qualcosa. Più tardi poteva enumerare senza fatica i nomi delle cinquantasei persone con cui aveva parlato. Mentalmente rimescolava i biglietti da visita come un mazzo di carte. Qualcosa lo lasciò interdetto: durante il ricevimento un amico gli aveva sottoposto un indovinello.
Domanda: che cosa si augurano tra di loro gli ebrei a Capodanno?
Risposta: tanto personale. Perché tanto personale significa tanti grattacapi e tanto lavoro, e poco profitto. È proprio divertente quando la gente è così disponibile da spiegare addirittura le proprie barzellette. Era questo l’umorismo ebraico? Questo era davvero un un amico?
Theo ora aveva alle sue dipendenze più di cento impiegati. Contava i dipendenti: centodieci, centoventi, centotrenta, e si sentiva molto a disagio di fronte a quel numero. Doveva cominciare a subappaltare o ad eliminare le attività meno redditizie?
L’indomani segnò delle crocette accanto alle attività che avrebbe potuto cedere o subappaltare. Controllò ilcashflow e le entrate. Quando si occupava di cifre, compilando il bilancio nero su bianco, gli bruciavano le punte delle dita. Forse questo non aveva niente a che fare con quella barzelletta insulsa. Forse erano semplicemente i noiosi anni Settanta. Theo decise di ricapitalizzare subito, ancora prima che altri sul mercato lo facessero per necessità.
Al lavoro Theo non parlava mai della sua vita privata. Non aveva la ragazza. Non gli piaceva il cinema: gli attori gridavano le loro emozioni sulla colonna sonora. Theo reagiva sempre con spavento ai colpi di fucile, alle porte che sbattono. Diventava sempre più parsimonioso nell’uso delle parole. Sapeva di essere stato favorito dalla fortuna: per questo era ancora in vita. Perchéera stato salvato proprio lui,un commerciante senza figli? Era un caso o il destino? C’era un solo modo per avere risposte: tornare di nuovo al mulino ad acqua; forselìavrebbe trovatouna spiegazione.
Sull’autostrada i fari rossi delle macchine lo trascinavano avanti. Negli anni Settanta il mulino era diventato un bordello di lusso: caro, spinto, sfarzoso. Theo trovò questa nuova situazione straordinariamente ironica. Con una bionda bevve Blanquette de Limoux.
«Detesti il tuo lavoro?», le chiese. «Sei infelice?»
«No, guadagno bene. Non ci vedo niente di male».
«Hai ragione, cara, non c’è niente di male a fare soldi», e Theo s’informò sul prezzo per un’intera notte. Era ragionevole. Chiese se la finestra poteva restare spalancata per l’intera notte.
«Tutto rimarrà spalancato», disse lei.
Era molto esperta. Gli mangiò le palle come si prende in bocca un uovo sodo. La prima volta fu Theo a dettare il ritmo: vigoroso e forte come una macchina. La seconda volta era pigro e lei si dondolò sul suo corpo. Lui si godette lo spettacolo del suo seno.
«Sono piena di te», disse lei.
E poi, un po’ più tardi: «Aprimi con la tua scimitarra».
Aprimi? Con la scimitarra? A Theo piaceva soprattutto come dietro di lei, oltre la finestra aperta, il cielo diventasse azzurro cupo. Come inchiostro. Più tardi la donna si mise a fumare una sigaretta. A Theo piacevano gli anelli di fumo che salivano, e il suo parlottare. Le chiese di avvicinarsi alla finestra e di guardare fuori insieme. Spensero la luce per vedere meglio la Via Lattea: serpenti contorti di fredda luce bianca, il fango limpido dell’universo.
Il vento soffiava fra i platani.
«Le stelle si possono collegare tra loro fino a farne delle lettere», disse lei. «Vedo troppi punti», disse Theo, «negli spazi tra i punti posso scrivere ciò che voglio».
«Per esempio?», chiese la donna.
«Annunci funebri», disse Theo. Un gufo spiccò il volo dal tronco verde ed elastico.
Bosuil, Waldkauz, tawny owf, chouette, hufotte, allocco
Steenuil, Steinkauz, fitt fe owf, chouette, cheveche, civetta.
5. Berlino
Nel grande Stato centrale viaggiavano su splendide, potenti autostrade. Si tenevano grandi spettacoli: sfilate, Giochi Olimpici, dappertutto bandiere bianco nero rosso, segni di un sogno preciso. Nessuno sarebbe mai stato disoccupato, lo promettevano ogni giorno, mentre una precisa razza di uomini era costretta a procedere in fila, avanzava carponi, rasoterra, con i capelli rasati. Guerra era il nome di questo grande spettacolo, e ovunque cominciavano a circolare le stesse parole. Misurazione di crani, concentramento, ghetti:ovunque, a Varsavia, Budapest e Vilnius. Poi, ad un tratto, fecero quanto avevano detto che avrebbero fatto.
Separare bambini da genitori. Scavare fosse, ovunque in Europa, nei boschi o nei campi. Casse di legno. E ci fu anche una notte, per essere precisi la notte del 9 novembre 1938. Un crepitiocristallino:
Klink, klank, klonk.
Un son qui résonne.
Clink, clang, cfunk.
Kling, klang, gekfungen.
Il vetro si fracassò. Sinagoghe incendiate, negozi ebrei saccheggiati e uomini di una precisa razza imprigionati o uccisi. Per gli interessati: spiacenti, troppo tardi. Per gli spettatori: occhio ai sassi che volano. Cercate di ascoltare bene. Il rombo diventa più forte? Cercate di sentire meglio. Ascoltate con attenzione, cercate di indovinarne le parole. Sentite come si avvicina, come diventa via via più violento e più indistinto. Alcuni si erano fermati semplicemente ad ascoltare, e non riuscirono più ad andar via.
Accadde più o meno così.
Il vetro frantumò altro vetro, e gli echi di quel fragore si allargarono in cerchi increspando l’intera Europa. Il boato venne trasportato a bordo dei treni internazionali, si propagò con il vento: vagoni macabri attraversarono le città, e automi a strisce marciarono lungo il filo spinato teso nel cielo. Finché il rombo risuonò anche sulla piazza De Brouckère di Bruxelles, alla fine del 1938, durante un congresso di uomini d’affari nella hall di un albergo. Continuavano a discutere di affari sul ciglio di un’epoca turbolenta. Nei primi tempi il padre di Theo si era fatto solo un po’ più silenzioso. Poi il suo sguardo si era fermato su un manifesto: “Bruxellois, brisez vos chaines”, con il disegno di un omino in abito scuro, le braccia alzate contro la dictature de la haute-banque, et des politiciens. Per la proprietà, la libertà, per Degrelle!
«Non mi piace», aveva ripetuto due volte il padre di Theo rivolgendosi ai colleghi. Con disinvoltura aveva tirato fuori dalla giacca il tagliacarte, aveva sbottonato la camicia, aveva teatralmente additato il cuore. Tutti ridevano.
«Stai scherzando», disse qualcuno.
«Non sto scherzando», disse lui, serrando gli occhi. Stava tremando.
«Stai scherzando», disse qualcun altro.
Proprio in quel momento le ante della finestra si spalancarono sbattendo forte. Una caraffa esplose in cocci. Per tutta l’Europa rimbombò il fragore del vetro che si spezzava e quel fracasso spinse il tagliacarte d’oro nel cuore dell’uomo.
Un taglio chirurgico. Il padre di Theo era forte, un capitano sul ponte di prua. Lentamente la nave sarebbe affondata. In sottofondo stralci della colonna sonora di un film di eroi, e di vigliacchi. Il padre di Theo cadde platealmente sulle ginocchia e, mentre i rantoli si facevano già più cupi, pensò di essere un vigliacco. Pensò al figlio undicenne che al piano di sopra era intento a studiare le sue parole.
Fu un assassinio, mascherato da suicidio. E neanche un assassinio avvenuto in un villaggio ebreo dell’Ucraina, della Polonia o della Lituania. Oppure questo suicidio compiuto subito prima della guerra può essere considerato un caso fortuito? Un effetto collaterale dell’onda di vetro sollevatasi nella notte dei cristalli? Il sangue zampillò. L’uomo crollò rantolando, e vomitò sangue. Suicidio provocato da terzi? Qualcuno gridò aiuto, per tre volte, e si precipitò al primo piano per chiamare il figlio.
La porta e la finestra vennero sprangate. Nella sua stanza, di sopra, furono trovate due lettere e una ventiquattrore piena di soldi. Nella prima lettera il padre di Theo annunciava il suicidio. Nella seconda si scusava con i suoi colleghi e diceva di contare su di loro: avrebbero trovato la sistemazione migliore per suo figlio. Dopo un’ora nella stanza di fianco alla hall tutti erano confusi e stanchi. La polizia stava effettuando gli accertamenti.
No, non c’era nessuna lettera per il figlio.
In breve il tragico incidente si trasformò in un aneddoto; alla fineanche il ricordo del fatto si dissolse nel pressappochismo della guerra e del dopoguerra.
6. Varsavia
Festeggiamenti per l’arrivo del nuovo secolo. Dopo i fuochi d’artificio ogni impiegato era rientrato in ufficio. In ufficio Theo sgobbava nella nebbia mattutina come un mulo: con suprema concentrazione. Negli ultimi anni aveva triplicato il volume delle vendite, aveva acquisito una seconda azienda, ne aveva fondato una terza per poi fonderlacon la prima. Ora bastava. Più tardi, nel traffico, in coda dietro un tir traballante di Varsavia, Theo chiuse gli occhi. Riaffiorarono i suoi elenchi.
Nachtegaal, Nachtigall, nightingale, rossignol, luscinia, usignolo.
Ekster, Elster, magpie, pie bavarde, pica, gazza.
Zwaan, Schwan, swan, cygne, cygnus, cigno.
Poi quella buffa koolmees, Kohlmeise, great tit, cinciallegra.
Epimpelmees, Blaumeise, blue tit, cinciarella.
E kuifinees, Haubmeise, crested tit, cincia dal ciuffo.
Un uragano avrebbe spazzato via tutto. Theo stesso era capace di cancellare tutto, soprattutto se stesso. Arrivò a casa, mangiò in fretta e bevve due bicchieri di vino rosso. Theo pensò: Dio, la mia vita è stata negligente. Era stata pronunciata la parola Dio?
Poteva essere una bestemmia, una semplice esclamazione, un sospiro. Sicuramente non era un dio con la maiuscola, no, non era una preghiera. Theo partì un’ultima volta per il mulino ad acqua nel Sud.
L’insegna luminosa del bordello non c’era più.
Il mulino era diventato un lussuoso centro benessere. Una coppia ricca e senza figli – un olandese che viveva di rendita con la moglie belga – aveva comprato e ristrutturato l’edificio. Per la prima volta Theo spiegò ai due nei dettagli il rapporto che lo legava al vecchio mulino. Subito glielo fecero visitare. Nel corridoio c’era un’armatura luccicante. Dappertutto c’erano pezzi antichi, luci e specchi per osservare la propria immagine. Degli inservienti. Una piscina circondata da fioriere in pietra bianca. Un nespolo.
Passando sotto l’eucalipto Theo domandò se il fremito degli alberi non disturbasse gli ospiti.
No, lo trovavano invece molto poetico, drammatico, epico. Bevvero insieme. Parlarono dei catari: poco prima avevano visitato Montségur, la roccaforte che si era arresa solo dopo un assedio di sei mesi. In quell’occasione, così si narrava, duecento catari erano saliti volontariamente su una pira.
«Si fecero bruciare vivi», disse la padrona di casa con gli occhi che luccicavano. «Chi può credere una cosa del genere?», chiese Theo.
«Eppure, erano catari! Sono stati sterminati in modo così sistematico! I loro misteriosi segreti sono ancora indagati e studiati. Pensi che di questi tempi Montségur è presa d’assalto dai turisti sulle tracce del codice da Vinci».
«Leggono il libro sdraiati intorno alla nostra piscina», aggiunse il marito. «Ne discutono sulla terrazza. Un libro di quel tipo crea un legame». Soltanto libri di questo tipo creano legami, appartengono alla piena luce e alla chiacchiera, pensò Theo. Altri libri ti rendono tanto silenzioso e buio che non riusciresti mai a parlarne con nessuno. In quel momento gli alberi intorno a lui cominciarono a crosciare, a turbinare vorticosamente. I padroni di casa e Theo guardarono in alto nello stesso momento: un vortice di braccia e gambe, corpi contratti e stirati, appesi a fili di scorza. Theo pensò ai treni internazionali, ai popoli che cacciano altri popoli. O li bruciano. Ogni anno un popolo viene esiliato in un luogo non suo. E se un anno non accade, si festeggia l’anniversario di un genocidio passato.
Theo venne invitato a fermarsi per l’aperitivo, e poi anche per la cena. I proprietari erano orgogliosi di poter mostrare la ristrutturazione del mulino. Per quella coppia così soddisfatta e benestante la SPA era la sola preoccupazione: doveva restare aperta di più, magari per tutto l’anno. I loro unici impegni erano accendere il camino, sostituire le lampade guaste, chiudere le persiane quando fuori infuriava la tempesta.
Gli versarono del Porto da una caraffa di cristallo. Theo sfogliava una rivista che illustrava le vite di milionari e vip parlandone come se fossero amici comuni. E che cosa sarebbe successo se Theo avesse comprato il mulino? Ora sarebbe stato insieme agli amici ad ascoltare i platani? O sarebbe stato in piscina con la cassa dell’orologio che lentamente si riempiva d’acqua?
No, a Theo non era mai piaciuto investire negli immobili.Gli piaceva l’idea di poter portare sempre con sé ciò che possedeva. In una ventiquattrore o, meglio ancora, in una cassetta di sicurezza trasferibile da una banca all’altra, da uno Stato all’altro. In un’ora avrebbe potuto mettere in valigia tutto quello che possedeva. Solo a quella condizione aveva accettato di essere ricco.
L’olandese e la belga, generosi e fiduciosi, gli offrirono un alloggio per la notte. La coppia sarebbe comunque andata via quella stessa notte, e l’indomani sarebbe arrivata la donna delle pulizie. Theo non poteva declinare l’invito – insistevano.
Quando furono partiti, Theo chiuse le tende. Chiuse a chiave la porta della stanza e accese il camino, anche se non faceva troppo freddo. Tenne lo sguardo fisso sul fuoco come se stesse leggendo in un libro. Nelle fiamme vide un groviglio di uomini che fuggivano abbandonando tutto. Vide con precisione ciò che rimaneva. Fabbriche e merci ridotte a banconote che prendevano fuoco. Una famiglia si tramutò in un albero genealogico, secco. Bevve finché fu ubriaco.
beve, bevve, bevuto,
drink, drank, drunk,
trink, trank, trunk,
et qui a bu, boira.
Si distese all’aperto su una sdraio in legno. Accanto a lui bruciava una candela. La fiamma attirava gli insetti e Theo la spense in fretta. Si avvolsela coperta stretta intorno ai fianchi, alle gambe e ai piedi. I grilli tacquero, da qualche parte un cane latrò. Scese il freddo sotto sei milioni di stelle. C’era di nuovo la guerra, ovunque venivano eretti monumenti funebri con i nomi dei caduti in lunghi elenchi. Dolci erbose colline di ceneri umane. D’improvviso le persiane iniziarono a sbattere. «Vengono a prenderti, vengono a prenderti», Theo sentì nel brusio dell’eucalipto, mentre intorno a lui la cenere si sollevò a folate. Il mare delle foglie si increspò turbinando, sul punto di scoppiare. I fari di un elicottero si librarono sopra il mulino, frastornanti. L’elicottero proiettò la sua luce bianca e fredda sul boschetto e gli eucalipti si dibatterono come grumi di pittura nera e smossa. Le parole erano mute; c’era solo il rombo. Poi l’elicottero girò e scomparve nella notte, senza spiegazione e senza significato. Theo si rifugiò dentro.
Al chiuso della stanza si sedette alla scrivania. Trovò una stilografica, delle cartucce di diversi colori, e prese a scriveree continuò a scrivere fino a vedere il colore cambiare. Il nero delle Indie orientali divenne nero olocausto, divenne rosso, e il rosso sbiadì nel grigio e il grigio nell’azzurro, e così ritornò il turchino e poi il blu scolaresco dei suoi undici anni.
Dormì per quattro ore. La mattina fece una nuotata in piscina. Galleggiando sull’acqua studiò le nuvole, trascinate nel cielo da fili invisibili. Sull’eucalipto erano stesi ad asciugare dei vestiti, come bende di malati. Sotto l’albero un airone distese le ali e prese il volo.
Reiger, Reiher, heron, héron, ardea cinerea, airone
Si accorse allora di un altro airone che stava aprendo le ali.
Reiger, Reiher, heron, héron, ardea cinerea, airone.
L’acqua era fredda e limpida. Il primo sole del mattino gelido. Lentamente Theo si asciugò al sole. Il suo ventre era molle, i capelli ondeggiavano al vento lenti e radi. Osservò i gobioni bruni nel ruscello: erano identici a quelli dei suoi undici anni. Bevve fino in fondo il caffè.
Quando arrivò la donna delle pulizie, Theo ripartì per Bruxelles. Dopo il lungo viaggio in auto andò subito a dormire. Ad un tratto vide se stesso disteso. Lui, l’uomo che sapeva tutto di potere, talento e denaro, si raggomitolò come un feto. Si coprì la fronte con il braccio, come un bambino. Sentì il battito del proprio cuore: era l’angoscia di un piccolo animale catturato.
La mattina seguente la vista di una donna agli ultimi mesi di gravidanza lo immalinconì. Poi di colpo: un silenzio mortale. Intorno alle quattro chiamò la sua segretaria, le dettò una lunga nota e la mandò via. Lo si vide sostare davanti alla finestra, sovrappensiero.
Poco tempo dopo vendette l’azienda. Fu un affare conveniente. Costrinse gli acquirenti a fare un’offerta prima di fissare un prezzo. Non diede loro niente di più. Non fece una piega quando i compratorifecero finta di ritirarsi, e non fece una piega quando si ripresentarono alla sua porta. Quando firmarono il contratto, sapeva di aver ottenuto il miglior prezzo possibile. Augurò loro buona fortuna e capì che aveva firmato la sua condanna. Come si chiamava il nostro amico Theo?
Questo marchand,
questo mercante,
questo Menschlein,
questo merchant,
questo Theo Marchand.
Non poté negare chi era. In pochi minuti sarebbe stato lì con una valigetta piena di soldi e titoli di valore. Non esistiamo, pensò. Se parliamo, esistiamo per poco, e poi non più. I dettagli sono scomparsi, resta soltanto una piccola ferita che brucia. Per via di tutta quella violenza crollò a terra.
NOTA Traduzione a cura di Bart Van den Bossche e della redazione di lospecchiodicarta.it
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