Neofascisti, antifascisti, a-antifascisti. Una nota sul ‘ritorno del fascismo’
I.
L’esibito disprezzo per la vita umana che gli esponenti di questo Governo hanno dimostrato a Cutro e intorno al dramma di Cutro è così evidente che mi sentirei un commentatore tonto a dover fornire argomentazioni a supporto di questa affermazione. Ma visto che viviamo in regime di simbolismo mediatico, basterà ricordare Salvini, che intenzionalmente e sprezzantemente si disinteressa alla conferenza stampa stando chino sullo smartphone – dev’essere un omonimo di quell’altro Salvini che si dichiarava favorevole al divieto di usarlo in classe. Qualcuno ha parlato di atteggiamento da ‘me ne frego’, e direi che è difficile dargli torto.
Ricordo a tutti noi che la destra italiana, pure se politicamente usava già allora la paura dell’immigrazione come strumento di governo (legge Bossi-Fini), sul piano della comunicazione dava di sé un’immagine ben diversa quando, nel 1997, un Berlusconi in lacrime rientrava dalla Puglia, dopo aver visitato gli albanesi superstiti al naufragio della Kater i Rades, affondata da una manovra sbagliata della nostra Marina. Quella visita, la destra di 25 anni dopo, si è sentita autorizzata a non farla.
II
La stridente dissonanza tra l’evasività del Governo intorno al pestaggio neofascista di studenti a Firenze e, per contro, la levata di scudi in difesa del ministro Valditara, che aveva minacciato di provvedimenti disciplinari Annalisa Savino, preside del liceo Da Vinci, e che per questo era stato vivissimamente criticato, oggi si ripete nell’eloquente disparità di stile tra l’istituzionalissima moderazione e apparente neutralità con la quale la sottosegretaria all’Istruzione Paola Frassinetti (Fratelli d’Italia) si è recata presso l’istituto Molinari di Milano per commemorare il militante missino Sergio Ramelli, e la reazione indignata di Valditara alle contestazioni da parte del mondo antifascista milanese, di cui la sottosegretaria è stata fatta oggetto (un resoconto completo di questi fatti, che hanno avuto scarsissima eco purtroppo, si legge qui).
In un rovesciamento che sarebbe parodistico se non fosse tragico, gli antifascisti che contestano diventano antidemocratici, ma si sottace volutamente il fatto che Sergio Ramelli – che certo è anche una giovane vita stroncata dalla violenza ideologica, verso la quale la pietà umana è un dovere pre o oltrepolitico – sia però simbolicamente soprattutto un ‘martire’ per i movimenti neofascisti, celebrato ogni anno con una simbologia politica, esibita in pubblico, che dovrebbe farci rabbrividire (invito a guardare questo breve video).
Nel nome della normalizzazione politica e della ‘pacificazione’ nazionale si sta operando, nella memoria collettiva, un lento ma inesorabile slittamento ideologico del significato del fascismo storico, della Resistenza, degli anni Settanta, del socialismo novecentesco: cambia insensibilmente il nostro senso comune, anche perché la ‘zona grigia’ di chi si chiama fuori dagli ‘opposti estremismi’ e dalle ‘strumentalizzazioni’ è sempre lì, eterna zavorra storica (gli inconsapevoli studenti del Molinari hanno infatti dichiarato di non voler essere coinvolti in una polemica politica; non manca mai chi si chiama fuori dalla mischia ed esercita la propria superiore capacità di discernimento sulle contraddizioni dell’una e dell’altra parte).
III
Certo, invocare il fascismo è anche un riflesso condizionato, una facile operazione a costo di rielaborazione intellettuale zero. Certo, il ‘fascismo degli antifascisti’ pasoliniano eccetera. Ma ho sempre l’impressione che il sogghigno degli uni sul ricorso alla categoria di fascismo da parte degli altri sia la manifestazione di una totale mancanza di carità interpretativa, se non proprio della convinzione di trovarsi di fronte degli imbecilli che davvero credono che il pericolo sia quello di rivedere le adunate, l’olio di ricino, l’orbace (o la retorica in posa statuaria e coltello-tra-i-denti dei discorsi mussoliniani, ormai lontana anni luce dal nostro gusto linguistico, più pubblicitario che oratorio. Siamo seri, quella è roba consegnata agli archivi della Storia! Ops…).
Dirò di più. Ho l’impressione che i critici del troppo facile ricorso allo spauracchio del ‘fascismo’, che trovano comicamente fuori tempo massimo il moralismo civico degli antifascisti, siano affetti dagli stessi bias cognitivi (come va di moda dire oggi), ovvero dalla stessa astrattezza intellettuale, e che siano anch’essi più a proprio agio con simboli morali e feticci, che non con la complessità delle cause e concause storiche. Solo, a poli rovesciati.
La storia non si ripete mai identica? Il fascismo aveva caratteristiche specifiche? Le condizioni storiche sono mutate troppo profondamente? Verissimo, giustissimo. Ma se gli antifascisti corrono sempre il rischio di ipostatizzare la propria concezione del fascismo in un fascismo sovrastorico, eterno, metafisico (o in un ur-fascismo: Eco), vivendo con la testa perennemente rovesciata verso il passato, incapaci di guardare il proprio presente e constatarne la diversità, gli anti-antifascisti (meglio sarebbe chiamarli gli a-antifascisti) danno spesso l’impressione di appartenere a quel tipo umano perfettamente a proprio agio nelle nostre (ormai malandate) liberaldemocrazie, convinto che la storia, se proprio non è finita, quanto meno non ci dovrebbe più riservare grandi sorprese. È un tipo umano che ama naturalizzare il presente e anestetizzare il divenire storico, che riesce a immaginare un male davvero feroce e privo di contravveleni solo in quelle sue incarnazioni ‘assolute’ che sono stati i totalitarismi novecenteschi. D’accordo, l’antisemitismo c’è ancora, l’odio per lo straniero e il diverso anche, ma nessun governo, neppure di destra, oggi organizzerebbe deportazioni e stermini. E ci mancherebbe, lo sappiamo anche noi antifascisti. Ma vi piace vincere facile, ammettetelo.
IV
Un esperto di nazismo come Gustavo Corni (Breve storia del nazismo, 2015) ha osservato che una notte dei cristalli c’è stata una volta soltanto: come mai? Naturalmente quell’episodio non fu un’esplosione spontanea di violenza, ma un evento preparato a tavolino dall’alto, come vero e proprio ballon d’essai propagandistico. Bene: non andò come i nazisti speravano. Un’esplosione di violenza così esplicita e fisicamente prossima, e una distruzione di beni materiali di così vasta portata in anni di crisi economica, lasciò freddi o perplessi molti tedeschi, che pure condividevano l’ideologia antisemita del regime. Non a caso, Hitler che pure l’aveva avallata, si mantenne defilato, per non risultare il diretto mandante in caso di insuccesso o, come poi avvenne, tiepido successo. La cosa, dunque, finì lì, e si preferì percorrere strade meno eclatanti (in tempo di pace: perché la guerra sarà ovviamente ex lege).
Cosa voglio dire? Intendo suggerire che scaltre sono le forze del male, che dietro l’apparente veste democratica anche oggi qualcuno si prepara a scatenare qualche pogrom? Ma no. Suvvia. Sono serio. Quello che voglio dire è che se persino il ‘regime più sanguinario della storia’ ricorreva a tutte le possibili sfumature della tattica e della strategia, se persino in un’epoca abituata alla violenza politica molto più della nostra, l’esercizio di quella violenza era soggetto a limiti e cautele – vedete?, avrà osservato qualche tedesco allora, nonostante le responsabilità degli ebrei questo governo non è mica fatto da belve sanguinarie –, allora forse anche gli a-antifascisti ipostatizzano il male del passato, per usarlo come modello e metro di paragone irraggiungibile e irripetibile. Tranquilli, oggi non siamo così cattivi. Come se il confronto tra passato e presente si facesse posandoli sui due piatti di una bilancia, per una misurazione rozzamente quantitativa. A me interessa la cattiveria del mio e nostro tempo, che non è una casualità piovuta dal cielo, ma che ha una struttura materiale e ideologica che possiamo e dobbiamo interrogare; anche, eventualmente, nelle sue continuità, o discontinuità, storiche.
Solo gli antifascisti che si proclamano ancora esplicitamente tali, oggi, devono dirsi preoccupati per il clima politico imbarbarito da questa destra, che consente a chi ha cariche istituzionali di mostrare un tale disprezzo verso quell’universale antropologico che è il lutto, nonché a ministri della Repubblica di fare insieme del vittimismo e del revisionismo storico? Solo gli antifascisti, oggi, devono dirsi preoccupati per il fatto che molti, e sono sempre troppi, facciano finta che vada tutto bene madama la marchesa?
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L’autore dell’articolo propone di sostituire al termine ‘anti-antifascismo’ il termine, invero piuttosto goffo, di ‘a-antifascismo’ per sottolineare con una variante eufemistica il carattere insidioso ed efficace dell’operazione politico-ideologica di accreditamento presso le classi dominanti borghesi e le loro agenzie, che sta portando avanti con abilità e spregiudicatezza Giorgia Meloni (agenzie fra le quali, va detto, spicca la burocrazia sindacale, che è quanto dire il gruppo dirigente della CGIL, non evocato dall’autore dell’articolo forse a causa di un moto di “carità interpretativa”). Ma chi, con grande intelligenza politica, risolse a suo tempo (nel 2001) la questione dell’eredità fascista dei governi di centro-destra, rendendola disponibile ed operativa per i successivi governi di quel tipo, è stato, in realtà, l’allora Presidente della Camera, Gianfranco Fini, probabile ‘spin doctor’, dietro le quinte, della leader dell’attuale governo. Si deve, infatti, a lui la tesi dell’“afascismo” come realistica via d’uscita dalla vischiosità di “un passato che non passa”. Il suo realismo politico meritava già allora la giusta attenzione, poiché, archiviando in maniera abbastanza anodina l’epopea della guerra civile, consentiva di sganciare, anche sotto il profilo formale, il dibattito politico dallo spazio ristretto della storia nazionale e di portare a compimento alcuni atti, politicamente tutt’altro che irrilevanti, come la “riforma” della Costituzione. Sennonché attraverso l’“afascismo” si scotomizzava, insieme con il fascismo, anche la Resistenza, la cui ombra si allungava ancora sulla Costituzione. Il dato centrale che quindi occorre tenere ben presente per comprendere la dinamica di questa operazione è, ancor oggi, la necessità, per il potere dominante e per il sistema politico-istituzionale, di colmare il crescente divario tra la ‘Costituzione formale’ e la ‘Costituzione materiale’ (una necessità il cui mancato soddisfacimento costò a Renzi, nel 2017, la perdita del governo). L’“afascismo” può dunque consentire il delinearsi, fra i partiti politici borghesi e piccolo-borghesi che compongono il parlamento italiano, di una maggioranza ampia, se non addirittura unanime, nel risolvere la “crisi di squilibrio” italiana, facendo corrispondere al quadro imperialista anche la cornice giuridico-formale. La Costituzione del 1948 era, in effetti, il frutto di una mediazione o, se si preferisce, di un compromesso, che corrispondeva esattamente alla situazione
socio-politica italiana quale si presentava all’indomani del 25 aprile. In qualche modo la Costituzione registrava l’esistenza, se non di un vero e proprio ‘dualismo di potere’ organizzato, di una frattura, che era ben lungi dall’essere ricomposta, nella società italiana e che rispecchiava il pieno dispiegamento della guerra civile internazionale in atto a partire dal 1945. La mediazione sul primo articolo della Costituzione – “repubblica fondata sul lavoro”, ma non “fondata sui lavoratori” – indicava dunque una posizione di sostanziale pareggio tra le forze in campo. E però la questione della forma politico-istituzionale, non risolta nel corso della guerra civile, traslava il risultato alla fase successiva, i cui esisti disastrosi per il proletariato sono ormai evidenti ‘lippis et tonsoribus’. È al termine di questo processo – in cui un ruolo centrale è diventato l’allineamento di tutte le forze politiche dentro la struttura della NATO – che va collocato sia il problema della natura del postfascismo o del neofascismo, che dir si voglia, sia della “riforma” della Costituzione, laddove tale riforma, già in atto da tempo, va ora completata, ad opera del blocco padronale e governativo che dirige il nostro paese, attraverso un ‘mix’ tra autonomia differenziata e presidenzialismo.