Sulla retorica mediatica del conflitto
Riflettendo sulla retorica mediatica, che decide se una guerra esiste o non esiste e sceglie quali effetti suscitare negli spettatori, Emanuele Zinato ha usato ieri termini chiarissimi: “Tutto ciò (…)
è linguisticamente osceno: ci abitua alla lingua della barbarie e alla passività, trasferendo il conflitto alla sfera artificiale e automatica del quotidiano, dell’ovvio e del banale.
A margine del suo ragionamento, proverò a illustrare alcuni meccanismi pervasivi di una simile retorica: un aspetto non secondario della nostra lotta contro il modo di pensare e di vivere che essa vorrebbe imporci passa infatti attraverso la capacità di smontarla pezzo dopo pezzo, per mostrarne l’artificiosità.
Come svuotare il dibattito pubblico
Sui media “vecchi” e “giovani” agiscono due logiche convergenti di svilimento del confronto intellettuale fra le persone e del dibattito pubblico su temi di rilievo culturale, proprio attraverso canali che dovrebbero promuovere consapevolezza e senso critico.
Da una parte, assistiamo alla trasformazione della diversità e della discussione in una guerra, naturalmente combattuta per finta non fra le persone, ma fra i personaggi che di volta in volta incarnano. Dall’altra, viene promosso un unanimismo di facciata, per cui è obbligatorio dichiararsi d’accordo su affermazioni scontate e tendenzialmente vuote: l’esempio più recente è la premessa “c’è un aggressore e un aggredito”, considerata necessaria a qualsiasi ragionamento sulla guerra in Ucraina.
Entrambi gli approcci cancellano le differenze rilevanti fra i diversi argomenti e posizioni, e la capacità/ volontà di comprenderle: che si tratti di una questione di fidanzati, di performance canore o di un dibattito sulla pandemia e sulla guerra, sono richiesti alcuni personaggi e ricorrono stereotipi che rendono riconoscibile il format e suscitano reazioni rese completamente automatiche dall’abitudine alla fiction. Nel caso della discussione, rappresentata come guerra e tragedia, servono buoni e cattivi, eroi e antagonisti, ansia crescente, atmosfera di catastrofe imminente e attesa di un possibile lieto fine. Nel caso della ricerca di un vuoto unanimismo il gioco verte invece soprattutto su un generico sentimentalismo e sulla promozione di un senso di bontà e moralità in chi guarda. Nel primo caso, prevale il disprezzo per il nemico (demonio, male assoluto, qualunque sia la situazione), nel secondo l’identificazione con l’amico (perché “andrà tutto bene”, come insegnano le storie americane).
In entrambe le situazioni, è necessario rimuovere alterità e contraddizioni: la realtà rappresentata e le emozioni dello spettatore devono essere a tutto tondo, prive di ambiguità e incertezza. Da questa retorica è facile essere compresi, anziché comprenderla: basta rinunciare alla riflessione critica, e attivare solo l’attenzione ai perfetti meccanismi narrativi e finzionali che con il passare del tempo hanno colonizzato non solo la nostra fruizione delle storie, ma purtroppo anche quella della realtà.
La messa in scena del reale
Qualche esempio di rappresentazioni sociali e delle abitudini visive che ne conseguono può risultare utile.
Alla percezione di un conflitto inconciliabile, cui partecipano due metà guerreggianti e “uno solo sopravviverà” fa gioco prima di tutto la banale divisione dello schermo (di cui è progenitrice il format dell’intervista doppia del programma “Le iene”) o delle persone in studio (di cui è stata maestra assoluta Maria De Filippi). L’ambientazione o la ripresa costruiscono uno sguardo e una percezione divisiva, la soggettività di chi guarda è sempre sottoposta a una scelta veloce e irriflessiva (immedesimarsi o prendere le distanze). Questa fortissima spinta alla cancellazione del valore delle differenze e della capacità di immedesimazione (in una parola, del rispetto), viene acuita dalle furbizie registiche, per cui ad esempio su mettono in conflitto semantico udito e vista: su una metà dello schermo si vede una persona che parla seriamente, sull’altra metà una che ride di chi sta parlando o fa smorfie di disgusto. Simili scelte, discutibili anche in trasmissioni di intrattenimento, sono il pane quotidiano dei talk show politici, che talvolta raggiungono una maggiore autenticità quando semplicemente gli esponenti dei vari gruppi urlano uno sopra l’altro, mettendo in piena luce l’idea che ascoltare non serve e conta invece sopraffare il pensiero altrui.
Più raffinati e ugualmente inautentici i meccanismi del sentimentalismo e del facile moralismo sono affidati di solito al commento musicale e al montaggio. Il fatto che sia ormai prassi consolidata in tutti i telegiornali realizzare servizi di cronaca accompagnandoli con una colonna sonora (quasi sempre popolare e stereotipata) rivela chiaramente l’intento di indirizzare la percezione verso il territorio di una generica finta empatia, allontanandolo invece da una riflessione razionale. Magistrali (purtroppo) in questo senso sono i servizi sui femminicidi, sulle morti in incidenti (meglio se di giovani), sui suicidi: materie su cui è facile suscitare una commozione mordi e fuggi, che dura il tempo di un commento sui social.
La guerra dei social
I social media contribuiscono in modo significativo alla crescente diffusione dell’incomprensione e dell’indifferenza verso le altre persone: danno infatti forma a una soggettività superficiale, incapace di coltivare il desiderio di immedesimazione per il tempo necessario ad ascoltare e ragionare su un’alterità che ci metterebbe in discussione.
Lo fanno prima di tutto perché sono un luogo privilegiato per coltivare la confusione fra realtà e finzione. In secondo luogo perché promuovono una soggettività autoreferenziale e finzionale, assicurata anche attraverso l’appartenenza a gruppi chiusi che difendono dalla differenza e dai dubbi: niente di meglio che chiudersi in una camera dell’eco, per essere indotti a credere che non ci sia altra realtà all’infuori di te stesso.
Ѐ da simili coordinate cognitive che nascono atteggiamenti tipici di questi luoghi virtuali: l’ingiuria gravissima rivolta contro persone sconosciute, malate, morte; la facile commozione di tanti messaggi sentimentaleggianti. Per non offendere i gattini, pensiamo ai messaggi postati dal compagno poco prima di uccidere la compagna cui si giura amore eterno (che diventeranno poi sequenze di servizi nei telegiornali e negli infiniti programmi di “approfondimento”).
Il sogno del silenzio
Questa retorica ha bisogno di un rumore costante e ininterrotto, che provenga da diverse fonti: solo così è in grado di abbattere le difese razionali e sormontare la nostra umanità e sensibilità.
C’è bisogno di silenzio, come giustamente sottolinea Emanuele Zinato. C’è bisogno di un sogno utopistico. Ce lo offrono George Lakoff e Mark Johnson in un “vecchio” libro del 1984, mai così attuale: scrivono infatti in “Metafora e vita quotidiana”:
Provate a immaginare una cultura in cui le discussioni non siano viste in termini di guerra, dove nessuno vinca o perda, dove non ci sia il senso di attaccare e difendere, di guadagnare o perdere terreno. Una cultura in cui una discussione è vista come una danza, i partecipanti come attori e lo scopo è una rappresentazione equilibrata e esteticamente piacevole. In una tale cultura la gente vedrà le discussioni in un modo diverso, le vivrà in modo diverso, le condurrà in modo diverso e ne parlerà in modo diverso. Ma dal nostro punto di vista, questa gente probabilmente non starebbe discutendo, ma starebbe semplicemente facendo qualcosa di diverso. Sarebbe strano perfino definire la loro azione come una discussione. Forse il modo più neutro per descrivere la differenza fra la nostra cultura e la loro sarebbe dire che noi abbiamo una forma di discorso strutturata in termini di combattimento, mentre loro ne hanno una strutturata in termini di danza.
Dove “danza”, credo, significa “pace”.
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