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diretto da Romano Luperini

Due “lampi” poetici di Franco Fortini, per leggere I Malavoglia

1 – Partiamo da un capitolo dei Malavoglia

Per quel che ne so Franco Fortini non si è mai occupato direttamente di Verga; forse solo, qua e là, qualche obliquo riferimento. Dunque la proposta che ho presentato nel titolo può apparire pretestuosa o bizzarra, e forse è tale. Spero di spiegarmi meglio man mano che scrivo. La prospettiva da cui parto è piuttosto soggettiva, ma non ci rinuncio – vincendo la ritrosia del parlare in prima persona – perché credo che anche questa sia di un certo interesse, in quanto può contribuire a illuminare i processi mentali di chiunque, nel percorso che chiamerò, per comodità, di scambio fra inconscio e conscio. Può darsi che l’accostamento involontario sia scaturito anche dal fatto che Fortini e Verga sono gli autori di cui mi sono occupato maggiormente, negli ultimi anni, e con componenti anche di coinvolgimento emotivo, forse poco “scientifico”.

Mi è accaduto di ritornare su I Malavoglia nell’ambito di una delle manifestazioni per il centenario della morte dello scrittore che la Fondazione Verga ha organizzato, quella di predisporre una “lettura” del romanzoper capitoli (brevi passi di commento, inframmezzati da altrettanto brevi tratti di testo), affidandola a vari studiosi. A me è toccato il capitolo XI: in esso, ricordo, prende avvio il protagonismo di ‘Ntoni, nel suo contrastato disagio verso il mondo chiuso ed apparentemente immobile nel quale vive, che accresce la voglia di partire, di allontanarsi dalla prigione del suo “nido”. Il conflitto con il nonno, con la madre, con Mena (forse l’erede più conseguente del nonno) e con le persone più vicine alla famiglia (Nunziata, soprattutto), è anche e soprattutto di natura interiore: desiderio contro senso di colpa, senso di colpa alimentato, oltre che dallo scontro con i familiari, anche dalla percezione della sua inadeguatezza (sociale, prima che individuale) a fornire alla famiglia e a se stesso un benessere almeno decoroso. Ma dirò solo l’essenziale di alcuni elementi della trama e della mia lettura (che è altra cosa da queste righe), giusto per introdurre la questione che è anticipata nel titolo.

2 – La separazione come tragedia

Il tema della separazione che sottostà alla trama del capitolo (ma in realtà di tutto il romanzo) è dapprima avviato da uno spunto di segno opposto che sembra accidentale; il ritorno nel territorio di Acitrezza di due marinai che hanno fatto fortuna allontanandosi dalla loro terra; ed è man mano costruito sapientemente attraverso eventi e allusioni al tema della partenza: quella, desiderata, di ‘Ntoni, che occupa buona parte del capitolo, è evidentemente esplicita, sebbene contrastata e rinviata finché la madre è in vita: l’andar «gironi» per il paese appare una inerte mediazione, nel segno di quella che chiameremmo oggi nevrosi, fra partire e restare, fra confusa voglia del “gran mondo” e persistente “ideale dell’ostrica”; fra i “segni” del movimento lineare (partire, ritornare) e quelli della stasi (il ripetere gli stessi gesti e riprodurre la medesima vita). Il cambiamento, anche se desiderato, è comunque percepito, per usare il linguaggio di Ernesto De Martino, come una delle «apocalissi culturali». 

Non a caso il tema è ripreso e variato sotto varie modalità implicite, che diventano tratti nella narrazione. Possiamo elencare quelle essenziali: la fiaba allucinata o apologo del figlio del Re di denari che la cugina Anna immagina venire a prendere la figlia per portarla in un favoloso mondo di ricchezza e appagamento amoroso, mondo che si trova peraltro «di là del mare», e dal quale non si torna più; la morte per colera della madre, una “partenza” certamente definitiva e per certi versi, per ‘Ntoni, liberatoria; le allusioni al lontano compare Alfio e al suo carro; la frase ripetuta per tre volte da Nunziata, nel finale, «così se n’è andato mio padre» (che, dal momento della fuga, non ha dato più notizie di sé), vero sigillo tematico che conclude il capitolo.

Si deve a Peter Szondi l’aver messo in evidenza, fra le pieghe dell’opera di Goethe, un’acuta idea dello scrittore sul tragico. Per Goethe, restio a restringerne il dominio a situazioni eccezionali di cui siano protagonisti gli eroi, «il motivo fondamentale di tutte le situazioni tragiche è il commiato; […] anche il congedo da una situazione abituale, amata, normale, provocata da una costrizione più o meno necessaria, da una violenza più o meno odiosa, è una variazione del medesimo tema». Così Goethe, che insomma riconduce il tragico a molte situazioni della quotidianità (separazione da una persona amata, da una situazione abituale, ecc.). Szondi aggiunge poi, brevemente, che «commiato è unità il cui unico tema è la scissione».[1] Mi sembra importante sottolineare che tale situazione è tanto più acuta nella modernità, che rende il «commiato» un evento generalizzato e spesso rimosso indotto dalla forza cogente e dalla rapidità delle trasformazioni: un evento comune ma non meno “tragico”. Mi sembra che ci si trovi qui, pienamente, nella situazione specifica dei Malavoglia. Non a caso l’inquietudine di ‘Ntoni è un percorso conflittuale anche nell’animo del giovane protagonista; e l’angoscia e l’infelicità dei suoi familiari è «una variazione del medesimo tema.

3 – “Lampi” di Fortini

Ed ecco che, fra le illusioni fantasmatiche della cugina Anna sul felice destino della figlia (bruscamente ricondotte a realtà proprio da ‘Ntoni e del resto ben presenti alla stessa Anna), il dolore della Longa per la indesiderata partenza del figlio, la dolente repressione del desiderio d’amore di Mena (il carro di compare Alfio, lontano da Acitrezza, viene qui evocato da Nunziata, ma quello del “carro” e del rumore delle sue ruote è uno straziante motivo libero che ricompare varie volte nel romanzo, soprattutto quando evocato in presenza di Mena, il personaggio più patetico del romanzo), ecco che mi attraversa la mente, quasi come una fulminea interpretazione un verso di Fortini: «[…] i desideri immutabili/dolorosi che mordono il cuore nei sonni». La poesia, ricavata dagli inediti, è Reversibilità, ed ha richiamato l’attenzione di vari studiosi di Fortini (mi ci metto anch’io, molti anni fa; lo dico per dovere di cronaca). In essa gli eventi della storia e della geografia del mondo, delle lontananze nel tempo e nelle spazio, i drammi e i mutamenti dei popoli, sono messi in relazione con gli eventi minimi di ogni singolo, “umile” essere umano. È il modo tipico di Fortini di introdurre il pathos, e forse anche l’inconscio, nei suoi versi, oggettivandolo. Del resto fin dagli anni del fondamentale saggio Mandato degli scrittori e fine dell’antifascismo, per passare poi a Intellettuali, ruolo e funzione e a molti altri interventi, lo scrittore ha sostenuto, oltre alla necessità di sottrare alle élite culturali e sociali il ruolo di “mandarini”, anche la dignità intellettuale ed etica del desiderio comune di appagamento e di felicità, dignità che riguarda dunque tutti gli umani. Ed è questa la radice della «insopprimibile» funzione intellettuale, che diventa così anche etica ed esistenziale.

Il verso di Fortini, dunque, può aiutarci a rileggere I Malavoglia, ad attraversare il romanzo in tutte le sue parti. Il dolore per il «commiato», situazione «provocata da una costrizione più o meno necessaria, da una violenza più o meno odiosa», insomma la fine anche della parvenza della condizione «idillica» indotta, o forse solo rivelata, dalla modernizzazione, nel romanzo è un «immutabile» rumore di fondo. I desideri sono immutabili, a loro volta, perché ripetuti e permanenti e perché attraversano le generazioni nel loro scorrere e susseguirsi, anche nel loro essere distanti nelle culture e nella geografia; e sono «dolorosi» perché inappagati e inappagabili, e perché alludono a una mancanza, all’impossibilità di un compimento; essi ritornano dunque come ansia annidata nel cuore umano, che essi «mordono» nei sonni. Credo che il verso di Fortini ci aiuti a comprendere il senso di questi motivi, costanti diffusi e recursivi, e agganciati all’esperienza umana.

Ed ecco un secondo “lampo”, che scaturisce dal primo. Esso viene da un breve ed enigmatico poemetto, «Il nido», raccolto in Paesaggio con serpente, e così suona, epigrammaticamente: «minimi popoli sono bruciati nei diodi». Per chi conosca un po’ Fortini il senso non dovrebbe essere oscuro. I «minimi popoli» sono quelli cui l’opinione pubblica occidentale non dà alcun rilievo storico, alcuna dignità: non solo quelli lontani da noi, l’umanità che fatica e trascina la vita, e spesso viene annientata da guerre e dittature, nel lontano Sud o Oriente del mondo (Fortini forse pensa, in primo luogo, al Vietnam, quando compone la poesia); ma anche quelli che convivono come insignificanti e subalterni, nel ricco Occidente, con le masse più o meno integrate. Quanto all’essere «bruciati nei diodi», il significato mi sembra duplice: da una parte se ne evoca la distruzione fisica che compare nelle immagini televisive (i «diodi») in occasione di guerre o massacri o carestie; dall’altra parte tale distruzione va interpretata come l’abituale trasformazione dell’orrore in spettacolo, indotto dalla lontananza fisica e culturale e dalla mediazione delle immagini. Anche di questo Fortini si è occupato più volte, sia nei saggi (I cani del Sinai), sia nelle poesie (Sette canzonette del Golfo, a titolo di esempio; ma si potrebbe fare un lungo elenco). Anche il piccolo mondo dei personaggi del romanzo verghiano è fatto, non c’è dubbio, di «minimi popoli». Essi non sono bruciati nei diodi ma consegnati all’irrilevanza (ieri e oggi) dall’arroganza, dalla brutalità dei vincitori, o dalla carità pelosa, dei potenti e dei facitori di pubblica opinione, dall’indifferente linguaggio dell’economia politica.

Notiamo inoltre, qui quasi en passant, perché certo si tratta di una coincidenza, che il motivo del «nido» ricorre più volte nel capitolo XI, ed è percepito come protezione e rifugio per tutta la famiglia – «ad ogni uccello suo nido è bello», ammonisce Padron ‘Ntoni – come prigione dal nipote; e anche nel breve poemetto di Fortini il «nido» del titolo ha un simile valore ambivalente.

Per finire, ritornando all’inizio: si può interpretare, o anche, proficuamente, insegnare letteratura, facendo a forza incontrare due figure letterarie così diverse e distanti come Verga e Fortini (ma quanti altri incroci si possono pensare!)? Credo che alcuni temi propri dell’esperienza letteraria si congiungano, in qualche modo, come le rette parallele all’infinito. Ma non so affermarlo fino in fondo, anche perché – mi creda chi legge queste pagine – gli accostamenti e i “lampi” di Fortini sono stati nella mia mente fatti reali. Occorrerebbe (occorre) un lavoro meno “suggestivo” e più approfondito di questi percorsi incogniti e leggibili solo ex post. Ma forse la pratica faticosa e gratificante nelle classi potrà almeno leggere questo episodio dei Malavoglia, con o senza l’aiuto di Fortini, anche riandando al fenomeno sociale della grande emigrazione italiana (che si avvia proprio negli anni ottanta dell’Ottocento, proprio negli anni più importanti di Verga), e confrontandola con il destino delle grandi masse figlie dei «minimi popoli» bruciati nei diodi dei nostri giorni; e anche delle più modeste e meno drammatiche migrazioni dei nostri giovani, che abbondano in trionfalistici repartages.


[1] P. Szondi, Saggio sul tragico, Einaudi, Torino 1996, pp. 35-36.

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