Cambiare prospettiva per capire il presente/ 5 Media, società, scuola: una conversazione con Pier Cesare Rivoltella
A cura di Stefano Rossetti
La cultura contemporanea è attraversata dall’intreccio fra valori e comportamenti collettivi, istituzioni pubbliche, interessi privati ed economici. La ricerca di un equilibrio condiviso fra tradizione e innovazione impegna fervide energie intellettuali, ma si traduce spesso – in particolare sui mezzi di informazione più popolari – in stereotipi e semplificazioni.
Su questi temi, abbiamo pensato di interpellare alcune figure di studiosi e studiose che, in diversi ambiti del dibattito accademico e pubblico, affrontano la complessità in prospettive originali e stimolanti.
Oggi dialoghiamo con il professor Pier Cesare Rivoltella, che insegna Didattica generale, Educazione mediale, Tecnologie dell’istruzione e dell’apprendimento all’Università Cattolica di Milano. Il suo lavoro sull’alfabetizzazione ai media e sull’intreccio fra culture giovanili, innovazione tecnologica e istruzione tiene in particolare considerazione il dialogo fra ricerca e sperimentazione in ambito universitario e scolastico, e si traduce in molteplici attività. Ha fondato nel 2006 il CREMIT (Centro di Ricerca sull’Educazione ai Media, all’Innovazione e alla Tecnologia), che attualmente dirige.
Le chiederei prima di tutto di presentare ai nostri lettori il CREMIT, spiegando come è nato e che cosa significa “educazione ai media, all’innovazione e alla tecnologia”.
Il CREMIT è uno dei centri di ricerca regolarmente istituiti dell’Università Cattolica di Milano, operativo dal 2004. Ha avuto un biennio di fase sperimentale, e poi nel 2006 l’atto di erezione accademica a Centro di Ricerca. L’idea originaria viene da Mario Dutto, che era al tempo direttore dell’Ufficio Scolastico Regionale della Lombardia. Dutto era uno straordinario innovatore; in quegli inizi di anni Duemila aveva fatto condurre un’indagine per individuare le emergenze che dal punto di vista didattico riguardassero la scuola, e aveva individuato le lingue straniere, quelle che poi si sarebbe cominciato a chiamare STEM e la tecnologia, il digitale. La sua idea era di fare attivare alle Università milanesi, dove ci fossero delle tradizioni di ricerca, un centro su ciascuno di questi temi. Ha avviato presso l’Università statale il CUSMIBIO, Centro universitario per la didattica delle scienze, che è ancora operativo oggi, e in Università cattolica il CREMIT; avrebbe voluto un Centro sulle lingue straniere allo IULM, ma fu trasferito a Roma e non completò il progetto. Da qui abbiamo cominciato a lavorare, siamo cresciuti, e oggi il Centro di Ricerca ha una quarantina di collaboratori, a diverso titolo inseriti nei ranghi dell’Università; molti di questi collaboratori sono insegnanti che lavorano a scuola e collaborano nell’attività di ricerca e di formazione del Centro. “Educazione all’innovazione, ai media e alla tecnologia”: sono i tre punti focali, i tre snodi della nostra attività. Educazione ai media, Media Literacy, Media Literacy Education: vuol dire creare le condizioni per sviluppare senso critico e responsabilità nei soggetti, di qualsiasi età, in relazione ai media. La tecnologia è l’altra faccia dell’educazione ai media in relazione alla scuola e ai contesti formativi: quindi non tanto i media come oggetti culturali su cui produrre riflessione critica e attivare responsabilità, ma come strumenti e ambienti a supporto dell’insegnamento/apprendimento. Ѐ il versante delle applicazioni, delle piattaforme, degli strumenti tecnologici, dei dispositivi a supporto del processo. Poi naturalmente c’è il tema dell’innovazione, che è il tema cruciale: come creare le condizioni perché un sistema tendenzialmente resistente, conservatore e potenzialmente nemico del nuovo come la scuola riesca ad accettare la sfida del cambiamento, producendo innovazione.
L’idea della scuola come “sistema potenzialmente nemico del nuovo” suona molto provocatoria, e ci torneremo quando il discorso verterà direttamente sul sistema di istruzione. Partirei però da una riflessione ad ampio raggio, a partire da coppie concettuali sulle quali nascono spesso conflitti, stereotipi e semplificazioni. La prima, che riguarda media e innovazione tecnologica, naturalmente anche fuori dalla scuola, è quella di è socialità/ asocialità: abbiamo pubblicato recentemente un’intervista con la psicologa Silvia Bonino, nella quale propone provocatoriamente di definire i media, soprattutto quelli giovanili, “asocial media”. Qual è il suo punto di vista sugli strumenti elettronici come veicoli di socialità e sulle opposte spinte verso la asocialità?
Diciamo che alla base di queste coppie concettuali molto polarizzate, attorno alle quali si struttura il dibattito pubblico, c’è una rappresentazione mediacentrica dei media. Che dal punto di vista teorico è sorpassata: sia quando dico che i media producono socialità, sia quando dico che i media producono asocialità, in tutti i due casi sto facendo centro sui media, sulla strumentalità, quasi come se il problema fossero i media. La teoria più recente ha rovesciato il discorso; ha sostituito la prospettiva mediacentrica con una prospettiva che ragiona viceversa in termini di mediatizzazione: la mediatizzazione è un processo attraverso il quale i media entrano dentro la nostra società e diventano parte integrante dei processi attraverso i quali noi costruiamo la nostra identità, strutturiamo le nostre relazioni e sviluppiamo socialità. Quindi il punto di partenza è l’ecosistema complesso dentro il quale si vanno a inserire, non i media in sé, che nella loro realtà non sono isolabili. Per esemplificare: non sono isolabili nella misura in cui io e lei abbiamo cominciato a scambiarci messaggi di posta elettronica, oggi siamo qui all’interno di un ambiente di videocomunicazione ed è probabile che magari nelle prossime settimane o tra qualche mese ci si dia un appuntamento e ci si trovi anche in Università Cattolica. Nessuno di questi tre modelli, di queste tre modalità di comunicazione è autoesclusivo, ma sono parte tutti quanti di un ecosistema mediatizzato. Dunque, socialità e asocialità sono variabili, sono esperienze possibili, all’interno di questo continuum. Ѐ scorretto pensare che la colpa o il merito sia dei media: significherebbe attribuire ai media un’eccessiva responsabilità, isolandoli dal sistema di cui fanno parte.
Immagino che questa impostazione contenga al suo interno la sua visione della seconda coppia concettuale che volevo sottoporle: conformismo/ creatività: In che misura, secondo lei, i media giovanili (in particolare le app alla moda del momento) promuovono atteggiamenti di conformismo, di finta libertà, o invece rendono possibile l’esplorazione della creatività di ciascuno?
Il tema del conformismo è un tema squisitamente generazionale, anche se poi quando andiamo ad analizzare le pratiche degli adulti ci accorgiamo che anche lì la pressione di conformità ha il suo peso. Diciamo che se stiamo ragionando di quell’ecosistema particolare che sono i social, pensati come ambienti all’interno dei quali le persone entrano in relazione fra loro secondo modalità peculiari e riconoscibili, allora è vero che al loro interno si registra un aumento della pressione di conformità. Questo è dovuto al fatto che il modello di organizzazione sociale di questi ambienti è improntato alle cosiddette eco-chambers, cioè a dei silos all’interno dei quali si frequentano e sono in relazione fra loro tutta una serie di soggetti che in fondo condividono valori e punti di vista. Gli insegnanti – la maggior parte dei miei amici in Facebook – che mi chiedono amicizia, non lo fanno per contestarmi. Vengono a chiedermi amicizia perché mi conoscono e mi seguono; quindi, all’interno della mia eco-chamber è molto probabile che ci sia un gruppo di soggetti a forte coesione, a forte omogeneità interna di pensiero. Rispetto a questa omogeneità, sostenere qualcosa che i più non sostengono, rischierebbe di esporre all’impopolarità. Questo diventa un fattore che predispone sicuramente al conformismo. Ma, ancora una volta, non sono i social a produrre conformismo; è il modello di organizzazione sociale che si costruisce al loro interno che finisce per cedere alla pressione di conformità. Sul tema della creatività, io credo che il problema non sia legato tanto ai media digitali o alle esperienze analogiche, quanto al tipo di esperienza che viene consentito di fare, se stiamo parlando di bambini, ai bambini. La creatività ha bisogno di spazi da riempire con l’immaginazione: io di solito dico che la creatività si sviluppa in presenza di situazioni che percettivamente sono insature. Se io offro al bambino un videogioco, un film, o una qualsiasi altra esperienza, che riempie la sua esperienza dal punto di vista percettivo, se gli fornisco un’esperienza senza buchi, senza spazi di immaginazione, sarà molto difficile che il bambino sviluppi creatività. Esperienze percettivamente sature sono povere, sono tendenzialmente inclini a impoverire il lavoro dell’immaginazione. Questo lavoro, invece, trova degli spazi importanti quando le situazioni sono insature. Questo è un discorso che già la fenomenologia faceva. Sartre, nell’Imaginaire faceva esattamente questo ragionamento: se l’immagine è satura, se ti mostra tutto quello che c’è da vedere, non puoi immaginarti nulla. Nella misura in cui invece l’immagine non dice tutto, lascia spazi, copre delle zone d’ombra, allude a un oltre senza dire, ecco che lì si aprono gli spazi dell’immaginazione. Credo che ancora una volta non sia un problema di digitale nemico dell’immaginazione e analogico pro immaginazione, ma un problema di costruzione delle situazioni. Possiamo costruire situazioni insature nel digitale, e quindi liberare l’immaginazione, ma possiamo viceversa creare delle situazioni assolutamente sature. Questo può accadere anche fuori dal digitale, e così l’immaginazione non si libera.
Certamente questo processo di “saturazione” e di libertà concessa all’immaginazione, soprattutto dei giovani, è un problema culturale, non solo della nostra epoca. Lo viviamo anche nella scuola. Alla base di esso, se non semplifico troppo, mi sembra esserci un’esigenza di controllo e la sensazione di perdere il controllo. Nel caso del digitale, questa dinamica è particolarmente marcata perché, come adulti e come insegnanti, sentiamo che c’è qualcosa che ci sfugge, dal punto di vista strumentale e culturale. Qui ci spostiamo sul versante dell’educazione e dell’alfabetizzazione: a me sembra che su questo tema sia in atto una sorta di regressione alla pedagogia dei media degli anni Settanta del secolo scorso, che si traduce nella scelta di stabilire divieti e modelli, indicando ciò che “si può” o “non si può” fare. Condivide questa valutazione?
Siamo in una fase di medialuddismo di ritorno, ha ragione lei. Siamo in una fase di nostalgia della normazione. Stiamo subendo il fascino delle regole che ci servono a controllare, senza accorgerci di due cose. La prima è che non viviamo più in una società verticale, ma in una società resa orizzontale proprio dalla mediatizzazione. L’orizzontalità dice di una difficoltà della regolamentazione. Si poteva normare una società in cui i media erano riconoscibili e isolabili: al tempo del televisore in salotto, o del telefono appeso al muro dell’anticamera di casa, il controllo era possibile, perché c’era una stretta corrispondenza fra il luogo e il punto di accesso alla comunicazione. Oggi la mobilità e la connessione hanno fatto saltare completamente questo rapporto, e quindi faccio fatica a pensare a come si faccia a regolamentare ad esempio l’accesso di un preadolescente al mondo della comunicazione, se ha in tasca uno smartphone connesso. Il primo problema è che la regolamentazione in una società orizzontale e mediatizzata rischia di non essere proprio possibile. La seconda questione è quella che lei anticipava: regolare, normare, significa provare a proteggere; e quindi spostare in avanti nel tempo il momento, che prima o poi arriverà, in cui il ragazzo dovrà necessariamente fare i conti con la medialità. Avendolo sempre protetto, avendo provato a normare, non gli avrò dato la possibilità di sviluppare resilienza, di imparare come autoregolarsi, non lo avrò reso consapevole: quindi il rischio di offrirlo scoperto, più scoperto, al margine del rischio che è sempre presente, è sicuramente più alto. Mi sembrano queste due le questioni fondamentali contro l’illusione che si possa controllare, normare, regolamentare, come si era pensato di fare alcuni decenni fa.
Questa illusione regolamentativa non riguarda soltanto l’universo dei media giovanili. Notavo per esempio la discrepanza clamorosa fra iniziative culturali come quella che voi avete promosso, con il numero gratuito di “Essere a scuola” sul racconto della guerra da parte dei media, e le tecniche di censura direi controriformistiche che si pensa di adottare contro la presenza di voci dissonanti nel dibattito pubblico sul tema. A me pare che dietro ci sia l’idea di un’opinione pubblica immatura, che deve essere protetta impedendo che venga a contatto con le idee, non fornendole strumenti per pensare e decodificare idee e rappresentazioni. Questo è esattamente il punto di contatto con l’ultima parte di questa conversazione, che riguarda il mondo della scuola. Infatti, è sensato e etico attendersi che gli strumenti di interpretazione li fornisca la scuola: è ovvio infatti che il livello di maturità e di consapevolezza, in molte famiglie, non è tale da poter liberare le persone da questo tipo di condizionamento. Tuttavia, nel campo della scuola esiste una contrapposizione molto forte fra chi concepisce i media come fine del processo formativo e chi li confina nel campo metodologico. Questa opposta ideologizzazione è ampiamente giustificata dalla direzione in cui si muovono le politiche scolastiche sul tema del rapporto fra tecnologie e scuola, perseguendo una diffusione assolutamente acritica di strumentazione tecnologica, per cui riempire i docenti di app e le scuole di strumenti tecnologici significherebbe educare all’uso dei media. Come recuperare allora il senso autentico della media education?
Come spesso capita nel nostro Paese, il dibattito non riesce a non essere ideologico, mentre invece dovrebbe provare a fare i conti con i dati di realtà e con i risultati della ricerca; quanto meno, dovrebbe provare a fare i conti con l’esperienza. Invece non riesce a non essere abbandonato all’ideologia. Diciamo che gli interventi che si sono fatti nella scuola dal 1985 in qua – da ogni parte politica – rispondono a una logica neofunzionalista: quindi la medialità come alfabeto di cui impadronirsi per potersi adattare a una società informatizzata. Su questa base, l’argomento è: come attrezzare gli studenti di competenze strumentali che consentiranno loro di vivere in maniera adattata in una società e dentro contesti organizzativi e lavorativi che sono in larga parte costruiti sulle tecnologie. Nella sua ruvida e semplificatoria realtà, è la scuola delle tre “I” berlusconiane. Il modello neofunzionalista è quello: Impresa, Inglese e Informatica vuol dire individuare tre asset su cui la società e il mondo del lavoro oggi è costruito; poi, assegnando alla scuola il compito di favorire la socializzazione, cioè l’adattamento, dire: “Benissimo: se la società e il mondo del lavoro è costruito su quelle “I”, una scuola che prepari all’inserimento in quel mondo a sua volta deve essere costruita su di esse”. Il programma neofunzionalista lavora sui linguaggi, sugli strumenti, sulle competenze tecniche, e non lavora sullo sviluppo della cittadinanza. Questa è invece l’altra parte del problema, su cui si colloca una Media Education consapevole. A me piace molto impostare il problema come lo impostava Martha Nussbaum in un libro di qualche anno fa, che si intitola “Not for profit”. La Nussbaum diceva che ci sono due modi di pensare la scuola: l’istruzione per la democrazia e l’istruzione per il mercato. Allora, se la nostra idea è che il digitale debba essere insegnato per il profitto, entriamo in una logica neofunzionalista che non ha niente a che fare con la Media Education. Invece se noi pensiamo che il digitale debba essere messo a tema dalla scuola perché in una società mediatizzata la cittadinanza si confronta con il digitale, allora si apre lo spazio di quella che Nussbaum chiama “istruzione per la democrazia”. Che vuol dire sì studiare i linguaggi, impadronirsi degli alfabeti, ragionare sulle strumentalità e sulle culture mediali, ma per sviluppare pensiero critico, responsabilità nell’uso, per sviluppare resistenza: un approccio consapevole alla propria costruzione di identità e al sistema di relazioni che si costruiscono con gli altri. Questo secondo dovrebbe essere il versante su cui collocarsi ed è il versante su cui la scuola fa più fatica a porsi. Perché? Perché oggi nella scuola è entrato il coding, è entrata o sta entrando la robotica educativa, l’informatizzazione è entrata a diversi livelli; è difficile sentire fare, invece, ragionamenti di sviluppo di cittadinanza consapevole, se non all’interno dell’educazione civica, in quel pacchetto di ore in cui ci si dovrebbe occupare di educazione civica digitale. Però non è il modo corretto per farlo, perché se no torniamo al mediacentrismo di cui si diceva prima: in una società mediatizzata i media hanno a che fare con tutte le nostre esperienze, e anche con tutti gli aspetti della cultura. Quindi la letteratura oggi non si può studiare se non parlando anche del digitale e di come il digitale sta trasformando, ad esempio, l’esperienza della scrittura e della lettura. Non si può fare Geografia, Filosofia, Storia, senza riferirsi al digitale; tanto meno le discipline scientifiche. Occorrerebbe proprio un cambio radicale di prospettiva, che portasse i disciplinaristi a raggiungere consapevolezza del fatto che il digitale è trasversale alle discipline, e quindi anche alle loro. Questo è il tema.
Condivido l’idea che sarebbe urgente porre questo tema al centro del dibattito e delle pratiche scolastiche. Purtroppo non mi sembra che sia questa la strada verso la quale si muovono le politiche scolastiche: il recente decreto sul reclutamento degli insegnanti e sulla formazione, legata alla progressione di carriera, costituisce per molti versi la negazione della prospettiva di cui lei parla. Al suo interno, nel disegno della scuola di domani, il digitale appare molte volte, ma sempre nel contesto di un discorso puramente tecnologico, evocato come se il problema consistesse nell’impadronirsi di competenze strumentali, imparare a usare tecniche indispensabili.
Certo, ma sa perché? Perché vincono le lobby più forti: e le lobby più forti sono quelle dei disciplinaristi, soprattutto degli umanisti, da una parte, e quella degli informatici dall’altra. L’idea degli informatici e l’idea degli umanisti sono perfettamente complementari. Gli umanisti dicono: “Non dateci fastidio. Non contaminateci!”. Per loro, l’informatica è una dimensione strumentale, e come tale va isolata e insegnata in maniera circoscritta alla sua strumentalità. Gli informatici dicono: “Perfetto! Ѐ esattamente quello che vogliamo fare”. Quel decreto esce senza che psicologi, pedagogisti, persone che si occupano di metodologia, abbiano potuto dire una sola parola sul testo, che è stato deciso nelle stanze del Ministero, per quanto ne so mediante il lavoro di un gruppo ristretto di persone.
Sono colpito dalle sue parole. Le considero importanti, perché dovrebbero far capire a tante persone di buon senso che amano la scuola quanto oggi sia necessario cercare una mediazione, unirsi non dividersi, quando si discute di questi argomenti. L’ultima domanda che volevo farle riguarda il modo in cui noi, le tante persone che si occupano con diversi approcci di media e di media education, possiamo lavorare. Mi piacerebbe sapere qual è, secondo lei, l’impatto formativo che potrebbe avere una didattica basata su “episodi di apprendimento situato” cui lei fa riferimento, anche nel titolo di un suo libro significativo; d’altra parte, però, vorrei conoscere la sua opinione sull’ipotesi di stendere una sorta di curricolo, sulla scorta della proposta che il CREMIT ha immaginato per l’educazione civica nella primaria. Con tutti i margini di provvisorietà, quell’approccio potrebbe rappresentare un esempio di come lavorare sul curricolo? In quale direzione sarebbe utile muoversi, per chi crede che sia vitale organizzare una formazione seria in quest’ambito?
La prospettiva è quella del curricolo trasversale, stando bene attenti che la curricolarizzazione non si trasformi in disciplinarizzazione: se i media, entrando nella scuola, diventano un oggetto da studiare, con le sue grammatiche e con la sua sintassi, io ho ucciso la Media Education. La faccio diventare come “I Promessi Sposi” di Manzoni che, nel momento in cui entrano nella scuola nel biennio, muoiono come romanzo. Se proviamo a immaginarci tutto ciò che uccide la straordinaria immaginazione e il piacere della lettura che un romanzo simile attiverebbe, prendiamolo, portiamolo nella scuola e rendiamolo oggetto di riassunti e di analisi narratologiche e psicologiche dei personaggi: a questo viene ridotto, in tantissimi casi, il romanzo manzoniano nella scuola. Il rischio è che la curricolarizzazione della Media Education si trasformi in queste pratiche: in questo caso la partita è persa. La logica potrebbe invece essere quella di una trasversalità che si alimenti veramente di esperienze innovative. Penso agli atelier: io immaginerei la realtà della Media Education nella scuola come una realtà fatta di atelier creativi, multidisciplinari, all’interno dei quali i ragazzi possano fare esperienza della medialità anche in forma espressiva. Penso alla possibilità di attivare dei terzi spazi: terzi spazi sono ad esempio i fablab, le redazioni di un giornale scolastico, di una web radio scolastica, di una web tv scolastica, sono i cineclub scolastici. Sono spazi all’interno dei quali l’adulto insegnante e lo studente si trovano, in una relazione che non elimina il rapporto asimmetrico che esiste fra loro, ma che ridefinisce completamente le logiche del loro lavorare insieme. Ci sono due autori inglesi, Julian McDougal e John Potter, che alcuni anni fa hanno scritto un libro molto bello e importante, proprio sul valore dei terzi spazi. Ci sarebbe da immaginare una realtà di questo tipo, con grande fatica, perché lavorare nella scuola con gli atelier, generando terzi spazi, favorendo la multidisciplinarità, significa far saltare il dispositivo che ancora oggi è costruito sull’equazione stretta fra insegnante, disciplina e ora. Dovrei mettere mano all’orario, ma rimodulare il tempo-scuola è uno dei tabù più difficili da mettere in discussione, nella scuola italiana. Si tratta di un grossissimo lavoro da fare, ma secondo me non ce ne sono le condizioni, perché come dicevo in partenza la scuola italiana è uno spazio culturale assolutamente resistente e refrattario alle innovazioni. Ѐ uno spazio di conservazione, in larga misura non per volontà degli insegnanti.
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