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diretto da Romano Luperini

Auguri di buone letture

Un libro di poesie, un saggio e un libro per ragazzi (forse)

Linda Cavadini

Vivianne Lamarque Madre d’inverno, Mondadori 2016

Ho comprato questo libro per caso, colpita dalla copertina grigia, senza immagini, e da quel titolo in rosso grande quanto il nome dell’autrice (in bianco). Conosco bene Vivian Lamarque, poetessa che leggo spesso in classe e che cela sotto un tono lieve e musicale temi profondi, strappi e lacerazioni. Questo libro non è da meno: l’ho iniziato e letto in una notte, e poi ripreso in mano con costanza, mentre il groppo saliva in gola e si fermava lì. Qui la poetessa fa emergere  il rapporto con la madre, durante i suoi ultimi giorni di vita (perché non trovarti mai le vene? Macchiarti le tue braccia di neve così?), e riaffiora, ferita mai sanata, l’altra madre biologica, quella di un abbandono mai compreso ed accettato (Grazie cara non ti dovevi/disturbare eravamo solo/ tra noi, niente di speciale). Vivianne Lamarque con pudore, reticenza e leggerezza ci racconta la sua vita e la fa diventare nostra.

Martin Latham I racconti del libraio, Rizzoli 2021

Martin Latham ha lavorato per 35 anni nella libreria Waterstones di Canterbury,: in questo saggio, ma sarebbe più onesto dire in questa raccolta eclettica di aneddoti, riflessioni, informazioni, ci parla di libri e lettori. L’impressione è quella di entrare in una grande libreria in cui sono affastellati libri diversi in un apparente caos chiaro solo al libraio.Gli aneddoti raccontati sono tanti e gustosi: su e giù per i secoli scopriamo lettori e lettrici compulsive, lotte tra collezionisti, libri censurati e di consolazione, le sfide affrontate dalle biblioteche, antiche e moderne, per conservare i libri e l’importanza storica e sociale dei libri “dozzinali”. Una storia a parte è quella dei marginalia, delle note e degli appunti sui libri: scopriamo così vite intere passate di libro in libro. Questa è una lettura che celebra la passione per i libri e che fa sentire meno soli, nello scoprire che acquistare più libri di quanto si riuscirà mai a leggere, pare sia malattia comune tra i lettori.

Charlotte Gringras Ophelia, con le illustrazioni di Daniel Sylvestre,  traduzione di Camilla Diez, EDT-Giralangolo, 2019

Forse questo è un libro per ragazzi, nel senso che i protagonisti sono giovani e vivono la crudeltà e le contraddizioni della loro età ( A scuola mi chiamano stracciona, perché mi nascondo sotto strati di abiti scuri. A volte vorrei scomparire. Non sopporto quel gregge di pecore dei miei compagni. Non sopporto i professori e le loro lezioni insulse. Non sopporto in generale gli adulti, sempre a farti la predica e a pretendere che tu sia all’altezza. Di cosa poi, di essere come loro? ). É, però, anche un libro in cui si parlano molti linguaggi (musica, graffiti, pittura, scrittura) tutti con il tono spiccio e arrabbiato dei sedici anni, ma senza morbosità e eccessiva enfasi. Tutto è estremamente asciutto e diretto. Ophelia e Ulysse si incontrano e scontrano costantemente, custodi di un luogo segreto che si contendono e che diventa il loro nido: sono due emarginati consapevoli e felici di esserlo.  Le illustrazioni di Daniel Sylvestre, costante ormai nella letteratura contemporanea, dialogano con il testo e ci forniscono altre chiavi interpretative. Entrare nella testa di Ophelia, e nel quaderno su cui scrive, dono di una scrittrice passata a scuola, è per noi adulti un modo per ritrovare quelli che eravamo anni fa e anche la possibilità di leggere e capire i ragazzi che abbiamo davanti.


Vagabondaggi letterari

Morena Marsilio

Le mie proposte di lettura per la pausa natalizia attingono al “serbatoio” che riempio nel corso dell’estate: il tempo lungo e mai vuoto dei giorni senza scuola si riempie di volumi, di copertine colorate, di titoli suggestivi, di scelte fatte sulla spinta di una curiosità inesausta e vagabonda, spesso tra case editrici indipendenti.

Nathalie Léger, L’abito bianco (La Nuova Frontiera), 2021 – Traduzione di Tiziana Lo Porto

Con un testo ibrido –  a metà tra saggio, memoir e ricostruzione di un caso di cronaca –  Léger narra la vicenda dell’artista italiana Pippa Bacca, morta  nel corso della sua ultima performance. Partita nel marzo 2008 da Milano indossando un abito da sposa, aveva l’obiettivo di attraversare le regioni europee martoriate dalla guerra per arrivare a Gerusalemme, facendo proprio di quell’abito uno stendardo di pace. L’autrice, nel tentativo di dare un senso a questa morte, si chiede: “ha pensato veramente che lo strascico del suo abito potesse cancellare l’orrore?” Acquistati due vestiti bianchi, l’artista li avrebbe infatti esposti, appaiati, alla fine di quell’esperienza: quello puro e immacolato conservato nell’armadio e quello portato sulle autostrade “come carta assorbente […] di polvere e fango”. Pippa non arriverà mai a Gerusalemme: il suo viaggio in autostop si fermerà a Istanbul, dove verrà violentata e uccisa da un autotrasportatore turco. . Ricostruendo la vicenda della giovane artista, Léger ne intesse i fili con riflessioni sul ruolo e il valore dell’arte, soprattutto nelle sue espressioni contemporanee al femminile, e con momenti introspettivi riguardanti il proprio rapporto con la madre anziana e indirettamente con la madre di Pippa che l’autrice, giunta a Milano, non troverà il coraggio di incontrare.

Ingrid Seyman, La piccola conformista (Sellerio), 2021 – Traduzione di Marina Di Leo

Il breve romanzo d’esordio della francese Seyman sembra un ironico e scoppiettante ritratto di una famiglia francese nel cuore degli anni Settanta: sembra, però, dal momento che la sarabanda di vicende narrate –  grottesche, paradossali, caustiche –  preludono e sottendono un dramma che nel finale troverà il suo compimento, inizialmente inatteso.

Esther Dahn racconta in prima persona le bizzarrie della sua famiglia: lei, che si sente “di destra” e che anela a una vita ordinata da regole precise, da comportamente prevedibili, da un modello di famiglia “normale” è figlia di una donna atea, sessanttotina e anticapitalista e di un padre ebreo, nato e cresciuto in Algeria, ossessivo e apocalittico rispetto a un ritorno del fantasma della Shoah.

Le contraddizioni familiari esplodono a mano a mano che Esther e il fratello Patrick crescono, tanto più quando vengono iscritti in un istituto cattolico d’élite, frequentato dalla buona borghesia di Marsiglia.

La piccola conformista si legge d’un fiato e trasporta gustosamente il lettore oltralpe, con il pregio di ricreare ambienti e consuetudini squisitamente francesi; ma è anche una storia che scava nelle ferite psichiche dei genitori della protagonista, a cavallo tra culture e esperienze di vita che restano inconciliabili se non trovano guarigione individuale e sutura di coppia. 

Arto Paasilinna, L’anno della lepre, Iperborea (1994, giunto alla 34^ ristampa!) – Traduzione di Ernesto Boella

Un libro culto in Finlandia, letto in questi giorni sull’onda dell’incontro estivo con Piccoli suicidi tra amici, altro titolo dell’autore che suggerisco senz’altro.

Scritto nel 1975, L’anno della lepre mantiene viva la sua attualità: racconta la storia di un giornalista quarantenne, Vanaten che – deluso dal matrimonio, stressato da un lavoro svuotato di senso, stanco della vita nella capitale, insomma ormai a rischio di burn out- intraprende una fuga attraverso i boschi curando e accudendo una lepre ferita dall’automobile su cui viaggia. Di capitolo in capitolo le avventure esilaranti, grottesche, paradossali di Vanaten mettono il lettore a contatto con le caratteristiche peculiari, e in un certo senso antitetiche, della letteratura finnica odierna: la dissimulata malinconia da una parte e  il gusto per la dissacrazione e il surreale dall’altra. Oltre a quelli umani,  la lepre, presenza silenziosa, discreta e al contempo fedele e gioiosa, e i lussureggianti boschi pullulanti di vita tra i quali Vatanen cerca una via d’uscita  risultano tra i personaggi più riusciti della narrazione.


Brevi, ma intensi

Luisa Mirone

Se le vacanze di Natale non vi sembrano abbastanza estese per intraprendere e portare a compimento letture che richiedono tanto tempo, e però non volete rinunciare a una lettura che vi lasci un segno, ecco qui tre libri brevi, ma intensi; da leggersi con qualche precauzione d’uso, che proverò a suggerire.

 Giorgio Manganelli, Le interviste impossibili, Adelphi 1997 (pagine: 130)

 Tra il 1973 e il 1975 Rai 2 mandò in onda un programma radiofonico destinato a diventare un modello, “Le interviste impossibili”: alcuni notissimi intellettuali (Arbasino, Calvino, Ceronetti, Eco…) si finsero intervistatori di personaggi illustri vissuti in epoche disparate, dando vita a ottantadue duetti memorabili, che oggi è possibile riascoltare anche su Youtube. Vi prese parte pure Giorgio Manganelli, a cui si devono i dodici dialoghi raccolti in questo piccolo volume, frutto degli incontri surreali con Fedro, Dickens, Tutankhamon, Casanova, Marco Polo, Harun al-Rashid, Eusapia Paladino, Re Desiderio, Nostradamus, De Amicis, Fregoli e Gaudì. Non esattamente dannati, giacché non è un inferno di fiamme e punizioni a dargli perenne dimora, né desiderosi di espiazione, giacché non nutrono sensi di colpa e ripensamenti (semmai rimpianti), e tuttavia eternamente tormentati dalle proprie irrisolte nevrosi, questi uomini (e una donna), celeberrimi o addirittura mitizzati, cadono  tuttavia quasi con ingenuità nella trappola disposta con cura e (un po’ sadico) amor di paradosso da un intervistatore solo apparentemente cauto e rispettoso, che, in verità spregiudicato e provocatorio fino al sensazionalismo, li induce al racconto di sé. Ed è racconto che, senza più infingimenti, rivela invece le finzioni della loro vita, che sono – dopo tutto – quelle della vita di ognuno di noi, trasformisti per celare il nulla anche senza essere Fregoli, «giacché Fregoli stesso era un’imitazione del nulla che imitava Fregoli. Il luogo di accesso a Fregoli era il nulla, e attraverso Fregoli era il luogo di accesso al mondo. Dunque io – usando questo pronome per mera semplicità di discorso – sono una imitazione del nulla, un’approssimazione allo zero assoluto, una condizione in cui non è possibile distinguere alcunché di umano…» (p.126).

Precauzione d’uso: da leggersi quando vi sentite il Grinch. Eccipiente: la lettura di Carmelo Bene.

Gianni Celati, Cinema naturale, Feltrinelli 2012 [2003] (pagine: 197)

Dalla sua questo libro ha che è fatto di racconti brevi e dunque potete segmentarne la lettura, se credete. Scritti nell’arco di vent’anni, questi nove racconti rispondono a finalità e cause dichiarate dall’autore: «per tenermi occupato e vedere cosa succede. Perché scrivendo o leggendo dei racconti si vedono paesaggi, si vedono figure, si sentono voci: è un cinema naturale della mente» (p.5). I protagonisti se ne vanno tutti «in giro raccontandosi la propria vita, come fanno tutti, indubbiamente, di raccontarsi la propria vita per darsi ragione» (p.125): diversi per età, estrazione sociale, aspirazioni, vicende, sono accomunati tuttavia da una inclinazione ingenua e pericolosa al vagabondare, da una disponibilità disarmata e totale alle seduzioni dei luoghi dell’esistenza, alle sollecitazioni di ogni esperienza, che li rendono al contempo saggi e inermi quanto un idiota dostoevskiano. Che si tratti di un infermiere sciupafemmine, di una celebre modella, di un detenuto violentato e violento, di due vecchi amici con il mal d’Africa o di due studenti universitari che aspettano il grande luminare come fosse Godot, sempre Celati disegna un’umanità smarrita appresso a un pulviscolo inafferabile di innumerevoli particolari, dove tutti, in fondo, uomini e donne, sono convinti, come il Ridolfi «che bisogna badare solo alle cose in particolare, una a una (questa cosa, quella cosa), perché le cose viste così, nel loro particolare, sono come sono e basta; e se uno bada alle cose come sono, non si fa più tante idee con l’immaginazione, per cui se il pensiero ha solo cose singole scarica via i discorsi in generale che fanno venire inutili fregole»; eppure incapaci di non farsele venire.

Precauzione d’uso: da non leggersi l’ultimo giorno di vacanza, a rischio malinconia. Eccipiente: la lettura in particolare di Non c’è più Paradiso, ambientato nella settimana di Natale «nella cittadina di economia avanzata» dove «il Natale è davvero una cosa in grande stile» (p.106).

 Chimamanda Ngozi Adichie, Appunti sul dolore, Einaudi 2021 (pagine: 83)

 Non privatevi di questa lettura solo perché il titolo è poco natalizio e non sembra inneggiare alla gioia e alla serenità che vicendevolmente ci auguriamo scambiandoci i migliori auspici per l’anno nuovo, come fossimo venditori d’almanacchi.  Per me, che senza riserve mi alleno, da qualche tempo a questa parte, a prendere questo genere d’appunti (e ho avuto allenatori eccellenti: Paul Auster, Erri De Luca, Osip Mandel’štam…), questo piccolo libro, così diretto, così esplicito, così dichiarato nel racconto, senza mediazione di alter-ego e travestimenti letterari, del dolore abissale della perdita del padre, è stato strumento, se non di pace, di pacificazione: il dolore si può dire, si deve dire; e a volte è molto semplice, quasi elementare, e non c’è da vergognarsene, né da cercargli destinazioni superiori: c’è da viverlo e da apprendere dalla sua lezione di privazione cosa esattamente ci manchi, cosa possiamo ancora sperare di recuperare.

Precauzione d’uso: nessuna. Eccipiente: un confronto fra i riti di due culture diverse.


Storie di sport

Stefano Rossetti

Portato per mano da un percorso di educazione civica, propongo per le feste tre “vecchi” racconti di sport, nei quali si intrecciano mirabilmente le piccole storie e la grande Storia.

Paolo Sollier, “calci e sputi e colpi di testa. riflessioni autobiografiche di un calciatore per caso” (Gammalibri), 1976

All’inizio degli anni Settanta del Novecento, Paolo Sollier è un giovane militante di Avanguardia Operaia del torinese. Come tantissimi altri ragazzi della sua generazione, gioca a calcio, in un tempo in cui la carriera di calciatore non è sponsorizzata come oggi e il suo rapporto con il mondo del denaro e dell’informazione è difficile da immaginare per un ragazzo del 2021. Quasi per caso, accade che proprio lui, “brocco” per sua sua stessa ammissione – il “mediano” di cui canterà Ligabue – si trovi a vivere una delle esperienze più belle della storia del calcio italiano: la stagione d’oro del Perugia di Paolo Rossi e di Curi, che darà spettacolo e arriverà quasi (ma solo quasi) a vincere lo scudetto. Senza alcuna concessione al sentimentalismo, senza toni da fiaba urbana, Sollier racconta la sua scoperta di un mondo lontano da ogni ideale e le prime avvisaglie del mercato che trasformerà uno sport, e chi lo pratica, in carne da televisione. La sua visione della vita radicalmente politica e sociale si confronta con la quotidianità dei rituali e degli stereotipi di un universo che sta appena cominciando a costruire la sua distanza dalle vite comuni, e la sua trasformazione in industria del mito e del guadagno. Un libro che si trova solo sul mercato dell’usato, scritto senza retorica, del tutto diverso dalle biografie romanzate dei calciatori moderni.

Gianni Clerici, “Erba rossa” (Fazi editore), 2004

Nessuno ha mai raccontato il tennis come Gianni Clerici, decano riconosciuto nel mondo fra i narratori di questo sport, sulle pagine dei quotidiani e, fino a qualche anno fa, in televisione. Esperto del gioco e dell’umanità, egli è capace di utilizzare le cronache delle partite per raccontare una società e i suoi costumi: uno, insomma, della stirpe degli Arpino, dei Brera, dei Mura. In “Erba rossa”, la storia è quella di una sconfitta imprevista: nel 1965, Nicola Pietrangeli e Beppe Merlo escono battuti dal match di Coppa Davis contro i giovani tennisti cecoslovacchi, disputato a Praga. Clerici è lì come inviato insieme a un giovane collega, e si traveste da narratore interno. Attraversiamo quindi con lui una città strana, sospettosa e fervida; dove si respira a tratti l’aria che in pochi anni porterà a un’aspirazione altissima e ad una sconfitta molto più grave: quella della primavera praghese. Scrittore colto, essenziale e raffinato, Clerici costruisce con un tratto descrittivo inconfondibile ambienti e personaggi di questo mondo “altro” dalla normalità e dalla percezione occidentale, e coinvolge il lettore anche con una trama drammatica che si scopre con piacere e si chiude in modo tragico.

Claudio Fava, “Mar del Plata” (Add editore), 2013

In questo piccolo straordinario libro, Claudio Fava racconta l’incredibile storia vera di una squadra di rugby sterminata dal regime di Videla, nel 1978. La voce narrante è quella di Raul, unico superstite al massacro dei suoi 17 compagni di gioco. La loro unica colpa è non volere dimenticare la morte di un loro compagno del movimento studentesco, il Mono, sequestrato di ritorno da un allenamento, ucciso dalla polizia segreta e ritrovato morto alcuni giorni dopo. Potrebbero andare avanti come se niente fosse accaduto, ma loro vogliono celebrare la memoria dell’amico e compagno: così il minuto di silenzio nella partita successiva diventa infinito, e il silenzio diventa una voce che urla forte la rivolta al regime. E il regime la sente, questa voce, e la farà tacere. Ci saranno altri minuti di silenzio, in questa storia, e ancora, e ancora, e ancora. Ma oggi quella voce possiamo ascoltarla, perché Claudio Fava ce la restituisce in modo poetico e commovente, come in una cronaca straniante da un paese dove è possibile tutto, perfino che una dittatura feroce voglia far tacere il silenzio.

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