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diretto da Romano Luperini

Arpino ai mondiali di calcio: l’Azzurro (tenebra) della Nazionale italiana

1974. L’Italia partecipa ai Campionati del mondo di calcio nell’allora Germania Ovest e Giovanni Arpino li segue in qualità di inviato speciale per conto del quotidiano La Stampa.

Azzurro tenebra, uscito nel 1977 per Einaudi e ripubblicato da Rizzoli nel 2010, è la cronaca romanzata della “disfatta” (questo il termine utilizzato da Raffaeli nella prefazione del 2010) della Nazionale italiana che dopo solo tre partite, torna a casa.

Arpino giornalista-scrittore

Arpino, che subito dopo la laurea in lettere nel 1951, alterna l’interesse per la narrativa a quella per il giornalismo, con esiti decisamente di successo e la vincita di numerosi premi letterari, passa alla Redazione sportiva del quotidiano torinese nel ’69, inseguendo la sua fortissima passione per il calcio al pari dell’amico e collega Osvaldo Soriano, il suo «fratello italiano».

Proprio nel carteggio tra Giovanni Arpino e Osvaldo Soriano si percepisce il travaglio dello scrittore riguardo alla sua attività, in particolare in una lettera del settembre 1978:

Caro Giovanni,

[…] Mi dici che stai dubitando di te; suppongo che ti riferisci al lavoro ‘per la pagnotta’ del giornalismo (i dubbi sul lavoro letterario, lo sappiamo, sono permanenti e più o meno acuti a seconda delle tappe): io non lascerei il giornalismo sportivo per l’‘altro’, a meno che uno non ottenga (io l’ho avuta per un anno) quelle rubriche divertenti che ti permettono di scrivere su qualsiasi cosa che ti venga in mente senza dover andare per strada a cercare le informazioni. Suppongo che tu sia in condizioni di impadronirti di questo e di rendere la tua vita più tranquilla.[i]

I dubbi sono a tal punto reali che Arpino, «mentre scrive l’ultima stesura del romanzo (nell’estate 1977, recluso nella casa torinese di via Cantore) sta già meditando di lasciare il mestiere di inviato sportivo e passare ad altro ruolo, cosa che infatti otterrà poco dopo trasferendosi a Il Giornale di Indro Montanelli».[ii]

Di questi dubbi si trova eco a più riprese nel romanzo:

«Nausea. Annego nella stufia. Vorrei ritirarmi»

«Scherzi?» mostrò il bianco degli occhi Puck.

Arp negò.

«O Dio buono» lo fissò l’altro accendendo con cura: «Ma sei matto? Hai cavalcato la tigre fino a oggi e adesso che puoi divertirti vorresti mollare? Dillo ai capi, che svengono.»

«Nessuno sviene. E io ho la nausea fin qui. »[…]

«Credi che non capisca?» scuoteva la mutria Puck: «Solo l’idea di infagottarmi, andare allo stadio, tirar fuori il quaderno, guardar l’ora e scrivere ecco il Bomber che scatta in profondità: miseria. C’è da farsi saltare il cervelletto. Ma non stiamo lì a discutere sui destini. Tu, soprattutto: con gli argomenti romanzeschi che hai. E ripeto: esci dal nostro pollaio, prova a uscire e ti fanno correre da un morto ammazzato a un politico da intervistare, ti mangiano vivo e sputano l’osso». (Arpino, Azzurro tenebra, pp. 229-32)

La crisi viene proprio con l’uscita di Azzurro tenebra, che suscita molto interesse nei critici, divisi tra sinceri ammiratori e severi detrattori, tutti però d’accordo nell’osservare che nel romanzo si avvicendano elementi narrativi e cronaca calcistica, grazie a uno stile composito, assolutamente moderno: «Narratore già affermato, avendo dimostrato le sue qualità letterarie ben prima di inseguire le suggestioni del popolare rettangolo di gioco, non rinunciò a misurarsi con il proprio tempo. Piuttosto che crogiolarsi nella torre d’avorio dei grandi narratori, preferì mescolarsi con “Belle Gioie e Jene”, come divideva i giornalisti sportivi: da una parte quelli del «tutto va bene madama la marchesa» e dall’altra coloro che alimentano sospetti. Spirito polemico, ruvido e irriverente, rispose colpo su colpo alle sollecitazioni di una attualità non sempre edificante, facendo della tribuna stampa degli stadi una specie di trincea postmoderna».[iii]

Quando Pastorin lo intervistò subito dopo l’uscita nel 1977, paragonando il libro ad «alcuni romanzi di Jack Kerouac, non tanto Sulla strada, ma Il dottor Sax Tristessa, in cui realtà, delirio, fantasia e allucinazione formano la trama, e i personaggi sono burattini senza fili», Arpino rispose che si considerava «uno scrittore non italiano, che usa la propria lingua sempre meno. Azzurro tenebra è un libro intraducibile»; intraducibile a causa del continuo ricorrere a neologismi spinti e toni fortemente ironici che rasentano i limiti della comprensibilità, in una prosa frammentata da una sintassi per lo più paratattica.

Arpino inventa una lingua nuova e originale che sembra precorrere – anticipando ogni tendenza attuale- la propensione al plurilinguismo, quando mescola espressioni in diverse lingue, a seconda del contesto: tedesco innanzitutto perché il romanzo è ambientato in Germania, spagnolo per via della partita con l’Argentina, latino talora maccheronico, ma anche in citazioni più colte, alcune espressioni in dialetto, persino del francese rimasticato. L’inserimento dei termini stranieri a volte ovvi, ma sicuramente di facile accesso, vivacizzano la lingua scritta avvicinandola a un livello colloquiale che riporta il lettore al presente di fatti realmente accaduti, trasposti in forma letteraria.

Il romanzo

Il libro riporta la sfortunata avventura degli azzurri, attraverso la duplice prospettiva del giornalista Arp (suo alter ego) e del collega Grangiuàn, alias Giovanni Brera, ricorrendo al procedimento retorico della simulazione del reportage in tempo reale.

Pur parlando di calcio, il gioco è di fatto solo un co-protagonista, insieme a «quel mondo di inviati, fotografi, cronisti che del calcio vivono, sulla vita che conducono, fra estenuanti trasferimenti in pullman, dialoghi densi di battute da commedia brillante, interviste ripetitive, pasti consumati alla bell’e meglio, articoli scritti scomodamente, incalzati dalla fretta».[iv]

Lo scrittore si sofferma più volte sull’identità del giornalista e del suo mestiere, mettendosi in causa con il cognome abbreviato in Arp.

Eccone un’efficace, quanto tenera, descrizione

Li vide partire, vecchi e giovani infagottati che si urtavano insolentemente sui gradini del pullmino. Gli piacevano. Tutti erano qualcuno, con una goccia di fosforo disperato che gli bruciava dentro, con egoismi e generosità e astuzie e inganni, con cinico sguardo e improvvisa fede. Da anni battevano insieme i cantoni dell‘universo inseguendo le parabole di un pallone, da anni assalivano i centralini degli alberghi facendo strame di direttori, impiegate, linee ingolfate. Dannata ghenga tesa a raccontare il minuto esatto in cui era esplosa e caduta quella traiettoria ormai invisibile. Litigiosi e ubriaconi, avidi e pazzi e geniali, formavano una tribù senza l‘uguale sotto la volta celeste, scaraventata a discutere di geometrie aeree, di coraggio altrui, di onore plebeo, di vili ossa, di obliosi traguardi, di trionfi subito cancellati. Arp sentiva i lacci che lo stringevano a loro: anche lui era una fibra unta e consunta nel gran piatto di quella trippa d‘esistenza. E non potevi separarla, lei fibra sola, frugando con la forchetta del buonsenso in quel viscido nido. (Azzurro tenebra, pp. 60-61)

Lo scrittore, e critico letterario, Franchi suggerisce una lettura di Arpino nel ruolo, suo malgrado, di chiaroveggente rispetto ad alcune realtà del giornalismo sportivo attuale: «Arpino ha ben spiegato […] tutta l’alienazione e l’assurdo protagonismo dei cronisti sportivi. Si sentono importanti quanto i calciatori, a quanto pare. O almeno, hanno voglia che si parli di loro almeno quanto dei veri eroi, vale a dire quelli che vanno in campo, e perdono o vincono e alè. […] Sembra un libro sul giornalismo sportivo, e sulle stravaganti simbiosi tra giornalisti e calciatori – o ex giocatori diventati allenatori»:[v]

«Che roba» crollò sull’erba Arp: «La gente neanche immagina cosa sia questo mestiere. Parole, fumo, chilometri di domande che si ripetono da cento anni, chilometri di risposte raccolte tra virgolette. L’ultimo ruttino dell’ultima scarpaccia in azzurro: tutti a registrarlo quasi fosse il gemito del papa morente.» (Azzurro tenebra, p. 154)

In questo contesto l’articolo da spedire al giornale diventa

«Il solito paraponzi da prima pagina. Tre battute ironiche per gli intenditori, due capoversi per il tifoso baluba, l’eterno dubbio tecnico cotto nel rosmarino del centrocampo. Servire bollente e gratinato in una colonna e mezza di piombo» mugugnò Arp. (35)

(parlando al cane) «Sapessi i cani di cui dovrò scrivere oggi. Minimo due colonne. E poi telefonarle. Un cazzicatùmburu con fiocchetti e nastrini. Non sai cos‘è un cazzicatùmburu? Mi stupisci, herr professor. Trattasi di predica naturalmente inutile, con tutte le virgolette e le ipotesi a posto, con gli aggettivi conditi in olio purissimo e grani di pepe nero. Una robina chic. Siamo mica in tanti a saperlo fare». (p. 63)

Insieme ad Arp e Bibì, alias Bruno Bernardi, storico giornalista de La Stampa e interlocutore privilegiato, le incursioni sempre significative del Grangiuán nella narrazione forniscono la misura del ruolo quanto meno singolare, se non addirittura unico del grande maestro nel panorama del giornalismo sportivo italiano, e contemporaneamente ne sono testimonianza, se non omaggio affettuoso:

«Non è cattivo il Grangiuán. O almeno non sempre. Solo che non ha dubbi. Non vuole averli. Disposto a tutto pur di non averli» cercò di riflettere Arp. (p. 41)

«Ho sempre detto Codogno. E adesso mi vergogno» fumigò la voce affaticata del Grangiuán: «Ragazzi, nella mia porca vita ho tradotto persino Molière. Cosa facciamo qui? Trombettiere, suona la ritirata» (p. 177)

La questione che preme al giornalista Brera non sembra riguardare tanto lo stile, quanto le diverse condizioni dello scrivere soprattutto in relazione ai ritmi produttivi richiesti all’uno e all’altro mestiere (giornalista vs scrittore), oltre che alla necessità dell’immediatezza: «Ragazzi, due giorni dopo un articolo è carta da patate» spiegò: «Conta solo se è fresco. Come il pesce» (p. 159).

Perché «L‘avvenimento sportivo si consuma necessariamente nella cronaca dei giornali e muore con essi. Rinnovandosi continuamente, viene fatto dimenticare dal successivo fatto che, una settimana o anche lo stesso giorno dopo, si propone come nuovo, più fresco di tempo e di notizia».[vi]

“Parlar football

Dopo tutto, la quintessenza del suo mestiere di giornalista sportivo, fuso con quello del narratore sembra rivelarsi in quell’espressione (una frase minima) coniata dallo stesso Arpino, “parlar football”, dove si rispecchia l’emblema dell’universo calcistico:

Ringrazia il cielo, Arp. Col tuo mestiere, o qui tra noi pellegrini del pallone o in qualche Vietnam. O qui a parlar football o a Roma a intervistare ministri dalla faccia d’olio di semi (Azzurro tenebra, p. 32)

E si ritorna a parlar football. Siamo proprio inguaribili (p. 91).

L’uso di football al posto dell’italiano ‘calcio’ non fa che sottolineare il fatto che la maggior parte delle parole tecniche nel calcio sono anglosassoni e venivano usate comunemente sia nelle cronache che nelle radio/telecronache, soprattutto nei primi tempi, contrariamente alla tendenza attuale di usare il corrispettivo in lingua madre.

In secondo luogo, Arpino non dice parlar ‘di’ football, ma usa il verbo seguito da un complemento oggetto, riferendosi a tutto un mondo esclusivo di lingua che solo quelli del settore possono usare e capire, quasi un gergo, un gruppo non necessariamente ristretto di persone, ma certo ‘quel’ gruppo di persone che segue il football.

In terzo luogo, ‘parlar’ e non ‘scrivere’, perché viene messo in rilievo l’aspetto interlocutorio di questo mondo: si parla, si scrive, si legge, si discute dell’unica cosa che interessa a tutti, il calcio.

Infine, l’espressione in sé così formulata, semplice ed essenziale, rimanda a un genere professionale; parlano football i giornalisti – invece di intervistare i ministri-, gli allenatori e alcuni calciatori: Capitan Giacinto (Facchetti), per esempio: «Con Arpino parlavo nell’ora d’aria, al mondiale, e lui cercava sempre di capire le persone. Nel romanzo mi descrive molto meglio di come io fossi, al limite come voleva che io fossi».[vii]

Non solo calcio

Protagonisti del romanzo non sono solo i cronisti.

Ci sono i giocatori di quella Nazionale:

…San Dino (ZOFF) ha le gote color borotalco, lo sguardo ridotto a una fessura, raggrinzisce le mani nei guanti, pare assente, chiuso nel vetro di una sfera lontana, come i suoi antichi paesani, che risalgono il greto del Tagliamento e portano pietre al nuovo muro da costruire intorno al podere: la sua solitudine di uomo di porta è totale. Spina (SPINOSI) sorride ma con gli occhi troppo grandi, un tremito lungo la gamba destra: desidera l‘avversario, lo vuole subito, ha bisogno di misurarne il fiato, il puzzo, il peso. Il volto di Capitan Giacinto (FACCHETTI) è un intrico di minutissimi angoli e sbalzi e rughe e incisioni, però tranquillo gli esce il respiro: s’è lustrato l’alone, la corazza, il filo delle labbra è arido, solo il vincere può dissetarlo. Romeo (BENETTI) scuote la grossa testa leonina masticando gomma, l’acqua della pupilla persin troppo lucida, il capomastro che è in lui pensa ai mattoni che dovrà allineare. Morgan (MORINI) lascia che il ciuffo di capelli gli ricada sulla fronte e pare che odi se stesso, ancora lì inutile, non abbrancato al nemico. Tarcisio detto Roccia (BURGNICH) si nega ad ogni espressione, lui porge il petto, offrendolo a una sassaiola biblica, a cartoline di artiglieri di montagna che sollevano il mortaio davanti al fotografo nel cortile polveroso della caserma. Ed ecco Sandrocchio il Baffo (MAZZOLA), gli zigomi gli mangiano i buchi delle guance, i ginocchi non riescono a reprimere le vibrazioni nervose di chi ha molto patito e vuole tutto, l’argento e la gloria, la potenza e l’amicizia umana. Ecco Fabio il geometra (CAPELLO), alza il mento come alla ricerca della lezione mandata a memore, si morde il labbro superiore coi denti, da precettore che sa e ritiene inconcepibile l’errore proprio e altrui. Viene poi Giorgione (CHINAGLIA), il capo che ripiega sull’omero, non ha collo, e pur fermo cerca di accentuare la sua voluta goffaggine di giovane orso: dietro il pelo, superbia e infantilismo di mosse, la smania di chi sempre diffida. Ha accanto il Golden Boy (RIVERA), che dondola le cosce ipertrofiche ma si mostra affilato nel naso, c’è un sacrificio indecifrabile nelle sue occhiaie peste, sente il destino e l’incognita del proprio sangue, e intanto le mani seguitano a strofinarsi l’una nell’altra, incapaci di requie. Infine il Bomber (RIVA), truce, la mascella che rumina, i bicipiti tesi sotto la maglia, il sinistro che rode l’erba con movimenti minimi di cieca rabbia, da purosangue che teme e desidera il vento della corsa. (Azzurro tenebra, pp. 78-9)

Compare a tratti la Germania della Bassa Baviera e del Baden-Württemberg, i boschi e le atmosfere rarefatte e nebbiose di stampo romantico, descrizioni dense scaturite dalla penna dell’Arpino narratore.

Ma ci sono soprattutto gli «italiani di cermania» che aspettano la vittoria degli Azzurri come possibile riscatto alla vita da emigrati, una sorta di risarcimento alle frustrazioni quotidiane, nei confronti di un paese per loro inospitale e nel quale si sentono tremendamente soli. Come Arp che si ritrova a parlare con un cane lupo, al quale confida i suoi pensieri.

A loro pensa il Vecio, Enzo Bearzot, all’epoca allenatore in seconda e non ancora eroe nazionale per il Mundial (1982), quando si confida con Arp. È uno che crede nel suo lavoro, crede nel suo Paese: «Siamo un pezzo d’Italia o no? Rappresentiamo l’Italia o no? Non voglio far retorica, ma questo sente la gente, e qui dobbiamo rispondere. Non dico il vincere o il perdere, dico la dignità, la coscienza, la lealtà, il pudore […]» (p. 98). La sua preoccupazione si rivela sempre più reale man mano che i tifosi annegano nella delusione  derivante dai risultati, un sentimento che non tutta la squadra sembra condividere.

La storia della compagine azzurra battuta all’estero rappresenta lo specchio fedele della società italiana della fine degli anni ’70, che Arpino riporta ad una situazione di  instabilità e, per certi versi, di incomprensibilità: «Sono un narratore di storie, me ne vanto e sono contento. Anzi: ero. Diventa difficile stringere in mano questo mondo: è liquido» (p. 235).

[i]     Massimo Novelli (cur.), Bracconieri di storie. Lettere fra Giovanni Arpino e Osvaldo Soriano, Torino, Spoon River 2007; http://storiedicalcio.altervista.org/carteggio-soriano-arpino.html.

[ii]    Massimo Raffaeli, Descrizione di una disfatta, p. 10, introduzione a Giovanni Arpino, Azzurro tenebra, Rizzoli, 2010 (1a ed. Einaudi, 1977).

[iii]    http://robertoalfattiappetiti.blogspot.de/2010/06/il-calcio-si-fa-letteratura-torna.html

[iv]    Recensione ad Azzurro tenebra: francesco.serveftp.com

[v]    http://www.gianfrancofranchi.com/azzurro-tenebra/

[vi]    Giorgio Bàrberi Squarotti, Lo sport: scrittura e invenzione, in Catolfi A., Nonni G., Comunicazione e sport, quattroventi, 2006, p. 48.

[vii]   http://storiedicalcio.altervista.org/blog/azzurro-tenebra.html

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