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cieli celesti light 1

Stupore e contemplazione in Cieli celesti di Claudio Damiani

Che cosa non troverà, il lettore, nei recenti Cieli celesti di Claudio Damiani? Innanzitutto nessuna facile cantabilità, e nessuna ricerca dell’effetto di stile, dell’oltranza linguistica, dello scarto dalla norma: la sua poesia, in perfetta continuità con la raccolta precedente (Il fico sulla fortezza, Fazi, 2012), torna a interrogarsi sull’ordine stesso delle cose con un andamento ragionativo ma piano e affabile. Il poeta per Damiani è in effetti un «investigatore», una via di mezzo tra un filosofo e uno scienziato che si pone ancora e sempre le stesse domande su tempo, natura, ruolo dell’io nel cosmo. La storia, gli eventi della cronaca o della vicenda esistenziale del poeta sono banditi dall’orizzonte poetico: lo spazio lasciato libero è occupato dallo scorrere del tempo, inteso nella sua dimensione sincronica dove le ore come i millenni sono di fatto irrilevanti rispetto dalla dimensione assolutizzante del Tempo. Come ha rilevato Silvio Perrella, Damiani è un poeta che «cerca nei tempi il Tempo»: i suoi versi sono animati da una inesausta ricerca di un ubi consistam capace di superare la barriera dei secoli, una volontà di giungere a un nocciolo essenziale delle cose, alla loro natura ultima ed eterna. Che cosa in effetti distingue il 2012 dall’816 a.C.? Il cielo che ci sovrasta e l’intimo della nostra coscienza sono immutati, o meglio: sono sempre gli stessi nonostante il continuo mutare. Il monte Soratte che ogni giorno un poco “diminuisce” perché l’aria e l’acqua ne consumano la roccia porosa è l’emblema più forte messo in scena da Damiani in una sequenza di dialoghi immaginari tra l’io e il monte, dove la perdita è sinonimo di possibilità, di dono di sè:

diminuire ogni giorno non mi dispiace,

è l’energia che consumo, è il mio stesso vivere,

preferisco diventare pianura come tutti gli altri monti

che restare uguale per sempre

come in una campana di vetro.

 

I segnali del cambiamento intorno a noi sono dunque più apparenti che reali e per Claudio Damiani è assai più interessante rintracciare le linee di continuità e di stabilità: petrarchescamente convinto che l’impermanenza sia il nostro destino, Damiani individua nello scivolamento di tutte le cose verso il loro non esser più la prima di una serie di costanti transtemporali, costanti che rendono l’uomo iper-tecnicizzato di oggi non troppo dissimile da Otzi, l’uomo di Similaun, vissuto cinquemila anni fa. Sulla scia della mummia di Tollund cantata da Seamus Heaney, e di Bocksten di Fabio Pusterla (meno vicina ci pare la lettura che di Otzi aveva dato alcuni anni fa Franco Buffoni, tesa a farne l’emblema della violenza della storia), anche Damiani utilizza l’immagine di un revenant per ricostruire un legame forte con una tradizione interrotta, un dialogo con una natura apparentemente lontana da noi. Damiani pare volerci dire in questo libro che – a dispetto delle tempo trascorso e del progresso e delle macchine e della storia umana – in fondo l’uomo d’oggi è antropologicamente del tutto analogo all’uomo di Similaun, e anzi ha qualcosa da invidiargli:

Ma quell’accetta di rame avevi Otzi però,

con manico di frassino, quell’accetta te l’invidio,

quella dava una certa sicurezza,

ma cosa tenevi in quello scatolino fissato

alla cinta, in corteccia di betulla?

L’alba primitiva che Damiani a più riprese sogna, non è del tutto perduta: è recuperabile per mezzo di uno sguardo che coniughi atteggiamento scientifico e rispetto profondo del sacro, poiché se è vero che «la biologia svela il senso del tempo», è anche vero che «lo rivela come mistero». Per riconoscerlo sarà sufficiente un atto di umiltà e di abbandono di sé nel mondo che conduca l’uomo a riconoscersi come creatura, dunque come elemento caduco tra altri elementi caduchi che «rotolano come una frana in un vortice / d’acque fragorose che rumorose scorrono» (105). Un’indicazione preziosa da questo punto di vista, su cui occorrerà tornare, è la sezione Schiavi di Dio la cui epigrafe è tratta da Simone Weil: Una creatura non può non obbedire (103).

La relativa irrilevanza dell’uomo e dei fatti umani con la loro carica di assurdità e dolore porta in primo piano la semplicità della natura: esclusa da un certo Novecento (pensiamo ai Fiori di Palazzeschi, alla invocazione finale affinché nella poesia si apra «un nascondiglio / fuori dalla natura») essa torna prepotentemente ad affacciarsi e anzi diventa l’orizzonte stesso del poetico. Damiani, anche grazie alla lezione di Beppe Salvia da cui deriva il titolo della raccolta, si lascia definitivamente alle spalle il postmoderno, sceglie un versante opposto rispetto a quello delle sperimentazioni, riparte dall’idea rinascimentale di un universo armonico e sacro, dove le vibrazioni e delle sfere connettono tutto a tutti:

Ascoltare il rumore di fondo

del big bang dell’universo

e ascoltare tutte le voci

tutti i suoni di tutti gli esseri

di tutti i tempi come uno sfrigolio

come un ronzio concitato e sommesso,

e anche tutte le immagini

di tutto quello che è stato

percepirle come sovrapposte

fino a coincidere con lo sfarfallio

debolissimo, come una vibrazione

piccolissima che vedo ora nel cielo.

Una grande catena dove «tutto è in relazione con tutto» tiene avvinti gli esseri, li rende sensibili gli uni verso gli altri e soprattutto indispensabili, trasforma ogni individuo in «organo di un organismo», elemento di un composto, atomo di una molecola complessa o anello di quella Great Chain of Beings senza la quale la catena stessa si spezzerebbe e sprofonderebbe nell’abisso. Lontanissimo dall’idea settecentesca e materialistica della natura come cieco meccanismo, Claudio Damiani si pone all’ascolto di cieli e terre vive e pensose perché anche gli atomi sono vivi, e la convinzione che la materia preceda la vita è quanto meno discutibile: così il monte Soratte di oraziana memoria, il cielo, le rondini, i gatti, non sono meri oggetti di versificazione ma interlocutori di un dialogo dalle cadenze gnomiche, non oggetti ma soggetti «contenti di essere uniti, / di essere l’uno all’altro /indispensabili». La forma dialogica torna spesso in questi versi, alternata a pagine di prosa filosofica che risentono sicuramente dell’esempio delle Operette morali, private tuttavia del tono ironico e disilluso, oltre che dello stile ardito del periodare leopardiano. Il punto di vista della natura è espresso da una voce amabile, condiscendente, famigliare che invita a conoscere il mondo attraverso la forma immediata e tattile del bacio: è il punto di vista del sole il cui sguardo si posa sulle cose che illumina e così «ti accarezza e ti bacia, / ti copre dei suoi baci e ti avvolge tutto».

E in questo scenario, l’io lirico dove si colloca? Egli è per lo più immobile e contemplante, e a tratti il suo sguardo ricorda lo sguardo attonito e meravigliato di Sbarbaro («Talor, mentre cammino solo al sole / e guardo coi miei occhi chiari il mondo / ove tutto m’appar come fraterno…»); sdraiato sul suo terrazzo, il suo «solito punto di osservazione» circondato di pini e canneti dal quale è possibile osservare «il solito pezzo di cielo», si comporta come una specie di Diogene moderno, pago di un raggio di sole a illuminarlo. Ma si tratta di una immobilità apparente, poiché anche l’io, come tutti gli esseri, anche quelli inanimati, anche le rocce del Soratte, è trascinato dalla potenza delle cose: «Resistere a questa corrente è solamente dolore. Siamo come turaccioli, foglie sull’acqua che scorre. Stiamo a galla e fidiamoci completamente» (150). Il tempo scorre dentro di lui come dentro ciascuno di noi e così lo spazio che lo circonda, apparentemente sempre identico a se stesso, si apre a dimensioni infinite, così come l’istante di tempo (il quantum) contiene in sé tutti i tempi, passati e futuri:

Non sembra che tutto si ricomponga

in un’unità meravigliosa

come abbiamo pensato?

Che niente muoia, ora che viene la notte

e tutto si accende in una luce eterna?

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