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diretto da Romano Luperini

cul-de-sac

Leggere a scuola poeti del presente, del passato prossimo e del passato remoto

Ho letto con grande interesse il «Breve annuario di poesia» di Maria Borio. L’ultima parte dell’intervento, dove l’autrice parla di «bilanciamento tra il tradizionale e l’innovativo» e invita a rispettare e assecondare il «dinamismo» della poesia contemporanea, mi ha trovato concorde e, da insegnante, interessato alla proposta. Vorrei aggiungere alle sue alcune mie considerazioni di ordine didattico, forse sparse, non del tutto sistematizzate. Prima però vorrei fare una premessa.

    «It’s the end of the world as we know it (and I feel fine)»

    Appartengo a una generazione, peraltro la stessa di Borio, cresciuta avendo nel sangue o avendo assorbito col latte materno la familiarità con una communis opinio strana, che oggi mi pare aberrante, storta, un colossale accecamento collettivo: l’idea che la letteratura fosse morta e che essa fosse o un magnifico monumento non più perfettibile, verso il quale era possibile solo l’ammirazione postuma di pochi, o, in alternativa – ed è poi il verso del primo atteggiamento –, una inutile rovina offerta allo sguardo distratto o al disprezzo di molti altri. (Le definizioni generazionali sono dozzinali e generiche, lo so: me lo si perdoni, a beneficio dell’economia del discorso. D’altra parte Borio potrà smentirmi).

    Provo a spiegarmi meglio con un aneddoto. Qualche tempo fa, su Radio Tre, un compositore contemporaneo riferiva di aver avuto il seguente scambio di battute con un vicino di scompartimento, incuriosito dal fatto che l’altro stesse appuntando delle note su uno spartito: «Che mestiere fa?»; «Faccio il compositore»; «Il compositore? Ma la musica classica non è stata ormai già scritta tutta?». Insomma: noi veniamo dopo, la storia è finita.

    Vale la pena sottolineare che questa percezione, comunissima e pervasiva, di una cesura direi ontologica col passato può non avere assolutamente nulla di drammatico o angosciante. Non si scrivono più grandi libri, non si compone più musica colta? Pazienza, non è mica la fine del mondo. È finita solo la storia e non è grave. Forse postmodernità, a livello di massa (e tutti viviamo immersi nella cultura di massa), significa solo questa quieta coscienza di vivere in un presente ovvio e un po’ scipito, un eterno tempo della cronaca, ma senza che questo provochi nessun trauma particolare. Ci si abitua così a pensare che la grande letteratura sia passata («La letteratura italiana è finita con Fenoglio», mi spifferò una collega, però di una generazione avanti alla mia) e si finisce per ignorare troppo di quella presente, o di riservarle solo gli spazi deputati al privato diletto, all’hobby senza conseguenze sociali. Per la poesia in particolare, ho sempre la sensazione che viga ancora l’assunto che essa sia defunta ben prima della prosa e mai più risorta: si scrive ancora, sì, ma i grandi poeti… Ma vengo alla didattica.

    Poeti del presente, del passato prossimo, del passato remoto: contro la «fine della storia».

    La difficoltà di insegnare la poesia, credo, viene soprattutto dal fatto che anche noi docenti non ne leggiamo molta, se non in casi rari, e spesso ignoriamo quella contemporanea. Come dice giustamente Borio, portiamo in classe Ammaniti o Saviano, ma non facciamo lo stesso con i poeti loro coetanei. Con la poesia – meno con racconti, romanzi, saggi – noi insegnanti ci troviamo più facilmente a disagio e abbiamo bisogno di una guida: ciò significa, in sostanza, che la affrontiamo solo a patto che essa sia storicizzata, canonizzata, sedimentata nei manuali. Credo che siamo solo poco abituati a leggerla, o meglio, quello strano accecamento collettivo della fine della storia ci ha disabituato a farlo. (O forse ci fa troppa paura? Troppo alta, ermetica, quasi sacrale? Ma ciò non è in contraddizione con la sua proclamata scarsa rilevanza? Chiudo qui la parentesi).

    Penso però che se oggi vogliamo diffonderla fra i nostri studenti, dobbiamo riprenderla in mano, tornare a leggerla e a parlarne, dando un’occhiata ai pochi scaffali che le sono dedicati nelle librerie, alla ricerca di qualche novità, o, se su quegli scaffali le presenze sono sparute, frequentando la rete su siti selezionati. Tornare a leggere la poesia. E aggiungerei: farlo con una freschezza nuova, con maggior libertà, vorrei dire anche spregiudicatezza.

    A scuola dovremmo riflettere su come “intrecciare” didatticamente la lettura di autori da sempre canonici, di autori che nel canone sono appena entrati, di autori per noi affatto nuovi (cosa che non sempre equivale a dire «giovani autori»). Credo che sarebbe bene perciò muoversi su tutti questi tre piani:

    1. continuare ad affrontare i poeti che già affrontiamo, anche se temo che tra la vita che fugge, il tempo scolastico che non s’arresta un’ora e le nuove necessità didattiche (come quelle che qui si avanzano: se le si accoglie, ovviamente) dovremo cominciare a discutere di alcune dolorose scelte: se non di rimozioni, almeno di ridimensionamenti;

    2. aprire ad autori novecenteschi ormai classici, rifornedosi agli inquadramenti critici che già esistono. A me piacerebbe che gli studenti, grazie alla scuola, conoscessero bene (insomma: non una poesia a fine anno e via) almeno un paio di autori a scelta tra Luzi, Giudici, Pozzi, Zanzotto, Sanguineti, Sereni, … se poi sono tre, brindisi!;

    3. leggere poeti viventi e sui quali i quadri interpretativi sono invece molto labili, sparsi, non sistematizzati.

    Specificamente sull’ultimo punto: lo so, è un rischio, perché ci si muove su un terreno molto scivoloso e ignoto. Ma sarebbe bello che la generazione successiva alla mia tornasse a considerare la poesia come qualcosa che ancora accade e i poeti come esseri che ancora respirano, sentono, pensano, amano, scrivono, quando non sono addirittura persone della stessa età del loro giovane insegnante, come Maria Borio (mi rendo conto che quella anagrafica è una notazione frivola e la letteratura è una cosa seria: però anche questo prepara il terreno, anche questo apre le orecchie). In passato la scuola ha letto i poeti del suo tempo ed è soprattutto a scuola che un canone letterario, o almeno letture diffuse, si radicano nella coscienza comune. 

      Tra il tradizionale e l’innovativo

      Nessuna rivoluzione: teniamoci stretti al passato. Ma andiamo anche avanti. In effetti anche io vengo preso spesso dai dubbi: abbiamo tempo a sufficienza? non si rischia di sperimentare troppo senza sapere che cosa si caverà dall’alambicco? finendo troppo a ridosso dei nostri giorni, leggendo autori su cui mancano mediazione critiche, non rischiamo di enfatizzare, anche per la poesia, soltanto la fuga nel privato, nella degustazione soggettiva e destoricizzata? Se non è a scuola che si parla approfonditamente di Ariosto ai futuri adulti (e ciò esclude che si abbia tempo a sufficienza per Sereni), chi, fuori da quel luogo, lo farà? Sono anche le mie domande.

      Ricordo però che siamo l’unico paese occidentale che, per complesse ragioni storiche, a scuola studia così tanta letteratura, soprattutto del passato: questo è bello, se sappiamo preservare la letteratura nelle forme giuste, che significa non monumentali (ma, anche con ciò, dovremmo imparare a relativizzare un po’ la nostra posizione). Provo a dirla così, e forse è un modo rozzo: dovremmo cercare di essere più furbi dei molti novatori che ci circondano e non stare fermi. Perché, lo confesso, a volte sono preso dal timore che presto tecnocrati, politici, pedagogisti e psicologi ci cancelleranno, noi insegnanti di letteratura, con un tratto di penna. Ma magari esagero.

      Poi forse bisognerebbe dire anche questo: d’accordo, su Ariosto lo studente si fa le ossa, acquista strumenti di lettura che poi applicherà ai poeti che preferirà. Ho solo una domanda: quanti nostri studenti leggeranno un poeta contemporaneo di cui ignorano persino il nome, disperso com’è nel mare dell’irrilevanza? Forse lo studente penserà solo che i poeti son tutti morti da almeno cento anni e che la poesia è morta con loro. Ciò non è un bene né per lo studente che, pago del proprio tempo, al passato non guarda affatto, né per lo studente che di quel passato si è innamorato, perché esso potrebbe apparirgli così irripetibile da gettare una triste luce di volgarità sul presente.

      Per una «lettura anarchica»? No, ma…

      L’intersezione dei tre “piani” che ho sopra elencato potrebbe risultare proficua, se ci è chiaro in che modo muoversi su ciascuno di essi. Detto molto semplicisticamente e per diagramma: con Petrarca indagheremo l’archetipo letterario del libro-canzoniere, il sorgere di una coscienza preumanistica, il recupero di Agostino e dell’interiorità, ecc… insomma, ne faremo il campione di un’epoca e di una tradizione e leggeremo il suo tempo in lui, come capita ogni volta che si storicizza un autore (ma non dovremmo esagerare, perché ai ragazzi resta memoria soprattutto di una fisionomia personale, di una voce individuale che parla loro, o non parla loro); con Giudici (e Luzi, Pozzi, ecc…) leggeremo una poesia vicina alla nostra lingua e alla nostra sensibilità, in cui si coagulano, tipizzati ed emblematizzati, alcuni rovelli della coscienza novecentesca, che in fondo è in larga parte ancora la nostra; con Cavalli, Magrelli, Valduga, Mussapi faremo esercizi di lettura, tentativi di interpretazione, approssimazioni alla poesia.

      Preciso che l’ultimo ovviamente non è un elenco con la pretesa di fornire indicazioni di lettura a nessuno, perché sono solo quei pochi che io stesso ho letto privatamente: poeti di cui magari sono andato alla ricerca per la banale ragione che li avevo sentiti parlare o recitare proprie composizioni alla radio o a una serata di letture poetiche, e mi avevano colpito; poeti meravigliosi o soltanto interessanti come sicuramente molti altri di cui ho letto appena una o due poesie in antologia o in rete, o che non ho letto affatto, o che addirittura ignoro; poeti su cui non ho altro orientamento critico che quello povero e impressionistico che posso darmi da solo. Poeti, però, che ho incontrato nella mia epoca, vivendo e leggendo.

      E se ciascun insegnante portasse i “suoi” poeti in classe? se provasse a offrire agli studenti una loro poesia – solitaria sul bianco della pagina, non una nota e un cappello d’introduzione –, una poesia che nessuno ha mai spiegato prima a nessun altro, neanche un critico all’insegnante? Le scoperte, anche imperfette, gli errori, gli avvicinamenti di sbieco, non sono utili a soggetti in formazione? E noi insegnanti possiamo continuare a far credere, per dovere istituzionale, che in un mondo complesso come quello attuale il nostro fascetto di conoscenze e certezze basta a rispondere a tutte le domande? Non dobbiamo provare a ipotizzare altre risposte, non avendo paura di rappresentarci nell’atto e nella condizione di chi è in cerca come tutti, per quanto ciò sia faticoso e per quanto, ogni tanto o spesso, sbatteremo il muso contro il muro?

      La precisazione finale è d’obbligo. Come con Petrarca, anche in questo caso non bisogna esagerare: un poeta non è una monade, è soggetto alle regole della sua epoca, della sua lingua, di una condizione sociale, di un mercato letterario, a quelle di generi e tradizioni… perciò bisognerà fare anche lo sforzo di superare le impressioni personali e gli stentati abbozzi critici, tentando di connetterli agli inquadramenti più meditati di chi è esperto, inquadramenti come quelli offerti dalla ricognizione di Borio, cui spero seguiranno, qui su LN, altri utili strumenti di orientamento.

      P. S. Ma, per fare tutto questo, occorre rispettare un rigoroso ordine cronologico? Dubito che sia possibile: partendo da «Sao ko kelle terre», a leggere Cavalli o Magrelli arriveremmo forse a maturità ormai conclusa, predicatori solitari sotto il solleone agostano. Potremmo provare invece a innestare la lettura di un poeta contemporaneo dentro le “tradizionali” lezioni, a fargli fare scintille nel cozzo col poeta antico (non a caso, ovvio: per una sua affinità o contrasto o diversa modulazione tematici, stilistici, linguistici, … rispetto al poeta canonico in esame). Forse è più difficile da immaginare e da costruire, perché mancano modelli e buone pratiche, forse non è nemmeno auspicabile, ma magari potremmo anche fare il contrario, collocando sapientemente dentro una lezione su autori contemporanei un Dante, un Petrarca, un Leopardi, un D’Annunzio («vedi: qui, con lui, è nato ciò di cui parliamo oggi»).

      __________________

      NOTA

      Per un confronto sui curricoli e i metodi di insegnamento della letteratura in Italia, Germania, Inghilterra, Francia, Spagna, cfr. D. MEDICI, L’insegnamento delle letterature nazionali nelle scuole europee, in ID. (a cura di), Che cosa fare della letteratura? La trasmissione del sapere letterario nella scuola, Milano, Franco Angeli, 2001.

      Alla fine degli anni Settanta, sulle pagine dei quotidiani e delle riviste (alcune di diffusione non solo specialitica: ahimé i tempi sono cambiati. Forse il passato era davvero migliore?), si svolse un dibattito acceso, per alcuni versi datato per altri credo ancora piuttosto istruttivo, tra fautori di una «lettura anarchica» della poesia e difensori di un approccio al testo rigoroso e analitico, in gran parte fondato sugli strumenti della allora recente critica semiotica. Esso può essere ricostruito, per chi lo volesse, sui seguenti interventi: H. M. ENZENSBERGER, Una modesta proposta per difendere la gioventù dalle opere di poesia, in «Quaderni piacentini», nn. 67-68 (1978); A. BERARDINELLI, Chirurgia estetica, in «Quaderni piacentini», nn. 67-68 (1978); C. CASES, Il poeta, il logotecnocrate e la figlia del macellaio, in C. Acutis (a cura di), Insegnare la letteratura, Parma, 1991 (1a ed. 1979), già in «Quaderni piacentini», 69, con il titolo Il poeta e la figlia del macellaio; G. GIUDICI, Questi versi li leggo come voglio, in «L’Unità», 10 settembre 1978, poi in ID., La dama non cercata, Milano, 1985, con il titolo I misteri della poesia; C. SEGRE, Cases, la figlia del macellaio e la logotecnocrazia, in «Alfabeta», 1979, 1; W. SITI, Come insegnare la letteratura, «Il Manifesto», 20 maggio 1979; P. M. BERTINETTO – C. OSSOLA, Tristi tropi: «la figlia del macellaio». Ipotesi a confronto per la didattica della letteratura, in ID. Insegnare stanca. Esercizi e proposte per l’insegnamento dell’italiano, Bologna, 1982.

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