Inchiesta sul lavoro di editor/11: Giovanni Carletti (Laterza)
A cura di Morena Marsilio e Emanuele Zinato
Con l’intervista di oggi continua l’inchiesta sulla professione dell’editor. Nel corso del Novecento questo “mestiere” è stato svolto da scrittori come Calvino, Vittorini, Sereni che fungevano da mediatori tra società letteraria, case editrici e pubblico; oggi il mondo dell’editoria è stato investito da grandi trasformazioni che sembrano aver dissolto la figura dell’intellettuale-editore e modificato in profondità il lavoro editoriale. Questa indagine mira a sondare come sia mutata, tra dissolvenze e persistenze, la funzione dell’editor all’interno della filiera del libro, coinvolgendo sia case editrici indipendenti sia l’editoria maggiore. Sono state già pubblicate le interviste a Fabio Stassi, Laura Bosio, Gerardo Masuccio, Riccardo Trani, Andrea Gentile, Eugenio Lio, Oliviero Toscani, Vanni Santoni, Dario De Cristofaro e Serena Daniele.
1. Editing e condizioni materiali del lavoro intellettuale. Qual è il suo rapporto lavorativo e quanti libri è chiamato a editare in un anno?
Sono editor in Laterza ormai da quasi 13 anni, il mio rapporto di lavoro è sempre stato a tempo indeterminato anche perché venivo da un’altra casa editrice romana dove avevo svolto questa funzione per parecchio tempo. A differenza della narrativa, per la saggistica non solo l’editor interviene sul testo consegnato dall’autore, ma lavora fin da subito sia alla definizione del progetto che alla sua struttura. Infatti molto spesso i libri che pubblichiamo sono direttamente “commissionati” da noi e nascono da un dialogo continuo con l’autore. In questo senso, mediamente, escono circa 30 libri all’anno che mi hanno visto coinvolto come editor.
2. Su che basi si imposta il dialogo tra l’editor e lo scrittore. Come viene “associato” un autore a un editor (per affinità tematiche, di generi letterari…); quanto del lavoro di editor può rientrare in queste categorie: semplice revisione (ruolo tecnico), interpretazione (ruolo di critico); riscrittura (ruolo creativo). Quanto e come queste tre funzioni si traducono in un dialogo con l’autore?
Come dicevo prima, il dialogo con l’autore è ovviamente la parte centrale del nostro lavoro. Per questo, a mio avviso, è necessario che esista un rapporto di fiducia reciproca molto forte tra un autore e il suo editor. Intervenire su un testo è una operazione molto delicata e molto “intima” e presuppone che esista un terreno comune e condiviso. Da noi, ogni editor è responsabile di un progetto dal suo concepimento fino alla pubblicazione e oltre. Quindi non si viene “associati” ad un autore ma al contrario è il libro che nasce dal rapporto che ciascun editor ha con i “suoi” autori. Revisione, interpretazione e riscrittura, dunque, sono tutti tasti della tastiera che un editor deve sapere utilizzare per rendere migliore un progetto e quindi un libro. Da parte mia, io cerco sempre di lavorare molto alla definizione del progetto anche ad un livello di dettaglio piuttosto approfondito. In questo modo, gli eventuali interventi sul testo successivi, diventano parte di un processo condiviso fin dall’inizio e non appaiono capricci dettati da manie di protagonismo dell’editor o da umorali e soggettive impressioni.
3. La sua specifica formazione da editor.
Non so se esista una specifica formazione da editor. Io ho avuto una formazione da storico, con un lungo percorso universitario post-laurea, ma in quegli anni ho sempre conservato una grande curiosità e interesse per la letteratura e la lettura in genere. Negli anni ’90, ho poi seguito con molta attenzione quanto stava avvenendo fuori dall’Italia, grazie anche a riviste come Granta dove era abbastanza evidente il lavoro di editing che veniva svolto, penso ad esempio a molti numeri dedicati al reportage e al travel writing, proprio quando il grande giornalismo entrava in crisi. Inoltre, questi sono gli anni in cui a livello internazionale si capisce quanto il campo della non-fiction si andava espandendo ed ibridando con quello letterario. Quando poi ho cominciato a lavorare in editoria, ho cominciato occupandomi della manualistica universitaria e questo è stato fondamentale per comprendere come ogni libro debba essere pensato anche in funzione dei lettori che deve raggiungere, perché, banalmente, pubblicare significa esattamente questo: rendere pubblico, diffondere, che è cosa ben diversa dal pensare ad un libro solo per le sue potenzialità commerciali e di vendita.
4. Tradizionalmente si considera l’editor un agente dell’editoria che tende a formattare il prodotto letterario per favorirne la vendita. Quanto questa immagine oggi corrisponde al lavoro reale di editor?
E’ difficile rispondere sensatamente a questa domanda. Esiste, certo, una editoria commerciale che tende a formattare i propri libri per generi, per categorie di lettori, per destinazione merceologica, come accade per ogni produzione industriale. D’altro canto, contro ogni aspettativa in particolare dopo la fusione Mondadori-Rizzoli e il monopolio distributivo Gems-Feltrinelli, negli ultimi anni ha consolidato le proprie posizioni anche un editoria di ricerca che ha lavorato molto sulle “nicchie” di mercato che ultimamente si sono moltiplicate: pensate a cosa accade ad esempio al “giallo” o alla letteratura in traduzione da aree una volta considerate marginali come i paesi nordici, o, ancora, ai numerosi fenomeni derivanti da ripescaggi di titoli di catalogo. Quindi non so se esista un “lavoro reale” dell’editor o se ne esistano tanti a seconda dei diversi contesti in cui ci si trova ad operare. Quello che so per certo è che nella saggistica negli ultimi 20 anni il lavoro è cambiato moltissimo. Mentre una volta si aveva a che fare con un bacino di autori in qualche modo “certificati” come intellettuali dalla loro appartenenza accademica e dalla loro presenza sulla scena pubblica tramite i giornali, oggi il panorama è molto più complesso e all’editor è assegnato un lavoro per certi aspetti più impegnativo. Ovvero si tratta di svolgere un ruolo di supplenza che prima era assegnato ad altre “agenzie” e di valutare la qualità (scientifica, letteraria) e la capacità di “bucare” la scena mediatica e pubblica. Questo comporta una presa di responsabilità da parte dell’editor, una volontà di assegnare la parola o di “puntare” su autori sconosciuti e magari dai curricola meno affidabili, che due decenni era difficilmente pensabile. E’ una grande libertà ma anche un grande rischio.
5. Come lavora allo scouting? Quali modalità di “reclutamento” e selezione predilige? Quali canali utilizza?
L’enorme vantaggio di avere un percorso piuttosto lungo in questo campo è quello di poter contare su una rete relazione piuttosto ampia con la quale mantenere costantemente un confronto su idee, progetti, ipotesi a lungo termine. E, ovviamente, anche nomi di persone che si sono segnalate per il loro lavoro e le loro ricerche. Personalmente trovo molto stimolante seguire diverse pagine web, riviste, blog e altro, che ancora mantengono un certo sguardo critico sull’esistente. Infine, i social network sono senz’altro utili perché permettono di comprendere le tendenze, magari effimere e poco durature, del dibattito pubblico. Insomma la rete è un luogo molto complicato ma imprescindibile per chi si occupa di saggistica anche perché si riescono a trovare materiali che fino a pochi anni fa sarebbero stati impossibili da recuperare (dai paper di seminari alle innumerevoli analisi statistiche) e che offrono però sempre nuovi stimoli e nuove piste di ricerca su cui mettersi in moto.
6. Quale rapporto ideale (dissolvenza, rimozione, assunzione di eredità) gli editor odierni intrattengono con le figure editoriali ‘leggendarie’ del novecento (da Vittorini a Sereni)?
Sinceramente ho qualche difficoltà a vedere un rapporto ideale tra gli editor attuali le figure leggendarie del novecento. Non solo perché il campo di gioco è profondamente diverso e nell’editoria industriale ora i manager e i direttori commerciali hanno un potere inimmaginabile 50 o 60 anni fa. Vittorini e Sereni, come molti altri, operavano dopo 25 anni di dittatura fascista e di guerra mondiale che avevano isolato l’Italia dal resto del mondo. Interi cataloghi dovevano essere ricostruiti e rifondati ex-novo e decine e decine di opere tradotte nella nostra lingua. Un lavoro gigantesco che ha reso queste figure, appunto, leggendarie. Negli anni, a me è capitato di conoscere figure analoghe per la Spagna o il Portogallo dove un problema simile si è posto dopo il 1975-’76. Per quanto riguarda la saggistica, poi, allora esisteva un rapporto immediato e direttissimo con la politica e i partiti, cosa che ho visto sparire in presa diretta alla fine degli anni ’90, per cui la distanza non potrebbe essere maggiore. Detto questo, una lezione, o meglio una fonte di ispirazione, che queste figure ci lasciano, almeno personalmente, è la radicalità nello sguardo e nella proposta. Faccio un esempio concreto: quando Vito Laterza si trovò a prendere la guida della nostra casa editrice negli anni ’50, dopo la morte di Benedetto Croce, non ragionò nei termini di identità della casa editrice e della sua tradizione. Tra le sue prime iniziative troviamo una collana come I libri del tempo che rappresentò una vera e propria innovazione per l’editoria del tempo, libri di scrittori (Sciascia, Ortese, Bianciardi-Cassola) che affrontavano grandi temi e questioni con un taglio che oggi troviamo assolutamente contemporaneo. Una rottura rispetto all’imperativo crociano che imponeva di pubblicare solo “roba grave” (filosofia, storia, ecc.) e al tempo stesso una dimostrazione di vitalità notevole dell’approccio etico-politico. Ecco, questo è una esperienza che, pur con tutte le diversità di contesto esistenti, ancora ha una sua vitalità perché mostra quali siano le potenzialità dell’editoria di progetto.
7. Casi di studio: può fare uno o più esempi di testi esemplari con si è confrontato?
Un caso che forse varrebbe la pena approfondire è quello della serie “Storie di questo mondo”. Questo contenitore è nato perché abbiamo appunto cominciato a riflettere sul fatto che alcuni dei volumi più interessanti degli ultimi anni trovano un loro comun denominatore in un racconto/analisi di aspetti della nostra realtà attraverso un approccio anche letterario. Anatomia di un istante di Cercas, Limonov di Carrere, Laetitia di Jablonka sono alcuni dei testi che ci avevano particolarmente colpito e che crediamo saranno anche in futuro considerati come gli “oggetti narrativi” più significativi del nostro tempo e ci sembrava importante per un editore come Laterza aggiungere questa sfumatura di colore e di sensibilità alla palette del nostro catalogo più tradizionale.
Se, come dicevo sopra, negli anni ’50-’60 avevamo pubblicato Il mare non bagna Napoli, Le parrocchie di Regalpetra e I minatori della Maremma, non poteva essere possibile oggi accettare una sfida analoga?
Ed è stato a partire da queste considerazioni che abbiamo provato ad immaginare un contenitore specifico per questo progetto. Via via abbiamo scoperto che le difficoltà non sono poche: ad esempio le librerie hanno problemi a collocare volumi dalla natura ibrida, merceologicamente sono narrativa o saggistica? In quali scaffali vanno collocati? E se narrativa, di che tipo? Sembrano aspetti marginali, ma per un editore come Laterza, dall’identità ancorata da oltre un secolo strettamente nella saggistica, apre un grosso conflitto anche perché il lettore di narrativa non ci “riconosce” e siamo, in qualche modo, nella condizione dell’editore esordiente. Allo stesso modo i giornali sono in difficoltà quando devono recensire testi di questo genere: a chi affidare l’articolo? In quale pagina collocarlo? Pensate a Piccola città di Vanessa Roghi: è una storia sociale dell’eroina in Italia, un memoir o un saggio? Quello che a noi appare come un punto di forza di questo volume, ovvero il suo carattere ibrido e difficilmente catalogabile, è per il mercato librario una debolezza, un ostacolo alla sua “vendibilità” immediata. Questa contraddizione, dunque, è l’acqua in cui nuotiamo. L’importante è ricordare che ogni tanto nuotare controcorrente è indispensabile per poter trovare acque nuove e con più ossigeno.
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