
Figli e padri. Su “Anatomia della battaglia” di Giacomo Sartori
“Per tutta la vita aveva provato sentimenti, come tutti, ma non gli aveva mai dato peso. Per lui quello che importava sopra ogni cosa era comportarsi come un vero fascista, o comunque – quando il fascismo non esisteva più da anni – come la sua nostalgia del fascismo gli faceva credere che bisognasse comportarsi. […] La sua era una costante lotta contro le impennate che la propria acutissima sensibilità avrebbe voluto imporgli” [Giacomo Sartori, Anatomia della battaglia,Terrarossa, 2025, p. 161]
A venire descritto in maniera così icastica è il padre del protagonista e narratore, reduce di guerra ed ex repubblichino: ma questa definizione che è anche un giudizio giunge solo a tre quarti del romanzo, in un capitolo che rappresenta per certi aspetti la resa dei conti, quando moglie figli e congiunti si trovano riuniti intorno al letto del capofamiglia moribondo. Prima di arrivare a quel tono fermo e lucido il lettore ha visto costruire, in sezioni di testo lunghe ognuna una mezza pagina o poco meno e a loro volta raggruppate in macrosezioni, una storia che accumulando ricordi apparentemente divaganti riesce a trasformare una massa vaporosa di parole in un paesaggio consistente e leggibile; quale sia però il momento esatto nel quale queste nebbie si sono solidificate e la svagatezza si è mutata in discorso tragico (“tenui vapori con l’incisività però di un marchio di fuoco nella carne”, p. 121) è uno dei segreti che Giacomo Sartori dissimula meglio e che più caratterizzano la sua arte narrativa.
Sotto i nostri occhi appare così, un dettaglio alla volta e liberamente procedendo nel tempo, la vicenda di una famiglia che sembra tenuta assieme anzitutto da una perenne atmosfera di incomprensione, lungo uno spazio ed un tempo che non si possono dire indefiniti ma che si sfuocano ad ogni tentativo di fissarli: siamo in una cittadina del nord Italia ai piedi delle montagne, il romanzo inizia subito dopo la gran botta di Chernobyl, cioè nel 1986 e il narratore, laureato in agronomia e specializzato in bonifica del deserto, si sposta dal Nordafrica a Parigi prima di rientrare al natio borgo: ma su date e luoghi c’è metodica reticenza così come sui nomi di persona (quasi tutti i personaggi restano anonimi). Il risultato è che la principale fatica del narratore, riuscire cioè a definire se stesso distinguendosi dal magma della propria storia famigliare, viene in qualche modo rivissuta dal lettore che dovrà tallonarlo a lungo prima di imparare a identificare le figure di questa vicenda ed il percorso compiuto. Nel frattempo avrà fatto la conoscenza di due genitori litigiosi ed immaturi (“dopo la schiumosa euforia del fascismo la vita è cascata loro addosso come una valanga di neve gelata”, p. 89), la cui incapacità affettiva spinge i tre figli a una crescita precoce (“io non sono stato adolescente, perché in casa mia c’erano gli adulti e c’erano i bambini, senza vie di mezzo. […] Mia sorella a tredici anni smise di ridere e si trovò un fidanzato, un vero e proprio futuro marito”, p. 13). Inoltre si sarà aggirato per una casa paradossale quanto i suoi abitatori, antica enorme e sontuosa ma senza i servizi indispensabili, ed avrà intravisto entrambi i nonni del narratore, mai incontrati da lui personalmente ma capaci di proiettare un’ombra cupa sulla sua esistenza; si sarà familiarizzato con le fissazioni del padre, che avendo ereditato dal fascismo soprattutto una serie di atteggiamenti autorepressivi ha sviluppato il culto dello sforzo fisico, della fatica fine a se stessa e della spericolatezza; e avrà subìto gli assilli della madre, afflitta da una cronica mancanza di quattrini ed incapace di ammettere la perdita di grado sociale cui il matrimonio ed le trasformazioni dell’Italia post-bellica l’hanno condannata. Per separarsi e distinguersi da questo ambiente il protagonista sceglierà il modo più facile ovvero la contrapposizione diretta, prima entrando a far parte dell’estrema sinistra e poi abbracciando la lotta armata; mossa fallimentare visto che il senso di inadeguatezza o la presenza paterna castrante (e letteralmente tale: il narratore racconta di essere nato senza un testicolo) non spariscono certo per magia quando si sceglie di schierarsi sul fronte opposto. Gli ci vorrà la consapevolezza ormai lampante della propria mancanza di personalità per condurlo su un’altra strada, impegnativa ma fruttuosa: imparare a scrivere di sé e del proprio ambiente, prima divenendo un lettore ossessivo dei grandi classici, poi trovando le parole per esporci tutto quello che ha affrontato o da cui è fuggito e il cui risultato, si intuisce, è il racconto che stiamo per terminare.
Chiudendo il quale però dovremmo sentire la necessità di riaprirlo subito e percorrerlo da capo perché, anche se il flusso narrativo ci ha condotto con dissimulata energia fino all’ultima pagina, qualcosa ancora non torna. Che razza di libro è questo? Non l’ennesima saga di famiglia: il passato oscuro ed inquietante del nonno, che avrebbe costituito il pezzo forte di tanta narrativa di consumo, resta sepolto nell’oblio per scelta del protagonista. Non una storia di conflitto generazionale: il padre, disposto ad accettare qualunque scelta del figlio purché coerente e disinteressata, non entra mai in urto con lui, semmai lo ignora; ed il figlio non vuole lo scontro ma un riconoscimento (che non arriva mai). Nemmeno un romanzo sugli anni di piombo: la componente ideologica viene anzi messa totalmente sotto traccia come se non avesse alcun reale peso, le due figure di brigatisti che compaiono nei ricordi (“Lenin” e Beppe) sono stereotipate e il giudizio conclusivo del narratore (“i rivoluzionari restano bambini”, p. 227) è stucchevole. E tutto sommato nemmeno un Bildungsroman, almeno nel senso usuale del termine: il narratore continua a presentarsi come incerto di sé e delle sue scelte, manco il matrimonio riesce a fare di lui una persona stabilizzata e l’ultimo capitolo si chiude su un ennesimo rinvio, magari l’ultimo prima di mettere mano alla storia che stiamo terminando di leggere. Sarà forse la premessa ad una nuova fase della sua esistenza, che però necessariamente può esistere solo fuori dal perimetro delle pagine che l’hanno resa possibile. Dunque, con che cosa abbiamo a che fare?
Tra gli eventi in cui è più evidente l’investimento di energie e risorse da parte dell’autore spicca senz’altro la storia della malattia e morte del padre che procede libera da tutti i possibili ed improponibili riferimenti della tradizione letteraria per adottare un tono fermo e pacato la cui efficacia lascia davvero il segno. Assistiamo così punto per punto al probabile inizio del male, al suo sviluppo e degenerazione, descritti con esattezza mai morbosa nel corpo che va gradatamente fuori controllo, e ad una fine estenuante dove raggiungere la morte costa al padre gli stessi sforzi penosi con cui, da rocciatore fanatico qual era, raggiungeva la cima delle montagne. Ma di corpo in sofferenza si era parlato non poco anche nelle pagine precedenti, e sempre con molta proprietà stilistica: quello delle miserabili prostitute africane che il protagonista frequenta durante la sua missione all’estero, quello della vittima dell’unica azione armata da lui condotta come brigatista, quello dei suoi colleghi trucidati da una pattuglia di fanatici, ed il suo corpo medesimo, portato ai limiti del collasso per una malattia tropicale da cui si riprenderà a stento. Tutte situazioni di evidente (e, si direbbe, crescente) fisicità, tutti momenti che appartengono all’esperienza diretta del narratore e che sembrano contrapporsi alla nebulosità di quel passato cui poco per volta è riuscito a dare forma e lineamenti. E allora potremo forse rispondere che Anatomia della battaglia è anche la storia di una costruzione di sé che però sceglie di attenersi a ciò che abbiamo di più immediato e di più sfuggente, il nostro corpo appunto. Parlarne permette di fare entrare nel discorso molte altre cose che è diventato difficile nominare senza forzature né retorica: la vita e la sua conclusione, la fatica e il fallimento, il coraggio e l’incoscienza, cioè tutto ciò che in passato il genere letterario del romanzo non esitava a mettere in campo e che qui riguadagna almeno in parte il suo posto.
Anatomia della battaglia,uscito una prima volta nel 2005 da Sironi per interessamento del rabdomantico Giulio Mozzi, viene ripubblicato adesso nella collana “I fondanti” che ripropone opere particolarmente significative del passato recente. A vent’anni di distanza questo libro sembra avere tenuto bene, ma forse il suo esempio non ha ancora fruttato quanto potrebbe.
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