Skip to main content
Logo - La letteratura e noi

laletteraturaenoi.it

diretto da Romano Luperini

Identità di frontiera e violenza storica. Bambino di Marco Balzano

Bambino.

Mi giro di scatto. Lascio il caffè sul bancone e cerco l’uscita. Troppo tardi; la canna della pistola preme già sulla schiena e mi spinge verso la porta.

– Guarda dritto, – minacciano quando mi volto verso il mare.

Una Millecento è accostata sul marciapiede. Chi la guida mette in moto appena c’intravede dallo specchietto. Mi legano i polsi col fil di ferro. Fuori dalla città mi bendano gli occhi.

Penso a quando sono venuto al mondo. Dal ventre placido di mia madre, fino a questa oscurità da cui non tornerò indietro.

(Marco Balzano, Bambino, Torino, Einaudi, 2024, p. 5)

Bambino, il più recente romanzo di Marco Balzano, si apre con una pagina che contiene, scritte in corsivo, soltanto queste poche righe, secche e nervose proprio come il protagonista della storia: Mattia, un ragazzo nato a Trieste nel 1900 che diventa un feroce criminale fascista. In queste poche righe, come nel prologo di una tragedia, c’è già molto del romanzo a seguire: in primo luogo veniamo a conoscere il soprannome del protagonista, Bambino, che si rivelerà essere il segno di una condanna ad una maturità desiderata ma irraggiungibile; poi c’è l’azione violenta, per una volta subìta dopo che in tante altre occasioni Mattia l’aveva esercitata; e, ancora, i bar e il mare di Trieste, città che è un’altra vera protagonista della storia; e soprattutto c’è il cerchio di una vita che si apre e si chiude nel segno del rapporto irrisolto con il materno, e di un’identità mai conquistata.

La via stretta del romanzo civile

Da qualche anno a questa parte sono moltissimi, in Italia, i romanzi ambientati nel ventennio fascista o durante gli anni della Seconda Guerra Mondiale e della Resistenza: un vero fenomeno editoriale che ha in M di Scurati e in una serie di opere come quelle di Postorino, Salvioni, Verna le più celebrate realizzazioni, e i più grandi successi di vendita. I motivi per cui l’editoria insegue questo tipo di produzione, di varia qualità letteraria, spesso ispirata a ideali sinceramente democratici e mossa anche da un afflato didattico, sono molti, e fra essi certamente il tentativo di rispondere per via narrativa al disagio di tanti per l’avanzata in Italia e nel mondo di destre autoritarie e pericolosamente ammiccanti ai totalitarismi novecenteschi; disagio che spinge lettori e scrittori   a cercare storie che possano in qualche modo tenere viva la lucerna della memoria e della razionalità democratica e progressista in un mondo che sembra – forse è – impazzito. Paradossalmente, però, non è detto che uno scenario di questo tipo sia favorevole alla produzione di buoni romanzi: vincoli ideologici e propositi pedagogici possono anzi fare molto male alla scrittura, perché non è mai facile conciliare ricerca stilistica e chiarezza didascalica, mentre un sincero scavo nelle contraddizioni umane può faticare a risolversi in un quadro ideologicamente coerente. Da tutto questo derivano, a volte se non spesso, scritture accurate ma prevedibili, consolanti ma di corto respiro.

Insomma: non è facile la via per essere una scrittrice o uno scrittore civile, perché l’aggettivo rischia, ad ogni passo, di mangiarsi il sostantivo. Marco Balzano, scrittore ormai alla sua settima prova narrativa, cerca invece di percorrere proprio questa via stretta. Da un lato è evidente la sua volontà di essere uno scrittore civile: per i temi che sceglie, per la vocazione pedagogica che forse gli viene anche dall’essere stato insegnante, per l’esigenza etica di non sottrarsi al suo ruolo di intellettuale che prende parola sui fatti del mondo. Ma è altrettanto evidente che egli cerchi di esserlo senza smettere di percorrere con onestà e profondità una ricerca che è prima di tutto letteraria, una ricerca cioè che si muove dentro e intorno alle parole, come testimoniano anche un libro come Le parole sono importanti (Einaudi, 2019), e soprattutto il suo non episodico esercizio della scrittura poetica (da ultimo: Nature umane, Einaudi, 2022).

Stare sul confine delle cose

I classici della letteratura sul fascismo e soprattutto sulla Resistenza ci hanno insegnato che questi eventi storici vanno affrontati necessariamente da punti di vista dislocati e straniati, scegliendo spazi, tempi e personaggi capaci di mettere in evidenza la complessità delle vicende, e con essa le tensioni esistenziali e morali di chi si si è trovato a viverle. Per costruire buone storie su fascismo e resistenza, insomma, servono personaggi portatori di contraddizioni e contesti in cui il Bene e il Male non siano troppo facilmente isolabili. E nella storia dell’Italia del Novecento non c’è luogo e tempo in cui l’intrico della Storia sia stato più fitto e contorto che nella Trieste dei primi decenni del secolo, città di frontiera quanto nessun’altra in Italia, e città dove le vicissitudini dell’identità personale e collettiva si sono più dolorosamente intersecate. Balzano, ed è questa la prima grande sfida del romanzo, decide di ambientare proprio qui la sua storia, in una città che da esempio di convivenza mitteleuropea è diventata in pochi anni crogiolo di violenze nazionalistiche e identitarie. Mentre la seconda sfida, forse ancora più grande, è quella di inserire in questa Trieste ferita la storia di un ragazzo che, per provare a risolvere una sua crisi di identità, diventa prima picchiatore squadrista, poi soldato fascista, e infine spia dei nazisti nella Trieste occupata degli ultimi anni della guerra. La crisi da cui si sviluppa il romanzo di formazione in negativo del protagonista di Bambino non è in prima istanza storica, ma personale. Mattia, infatti, è un ragazzo che scopre che la donna che l’ha cresciuto non è sua madre: glielo dice proprio quella donna, la Tella, poco prima di morire prematuramente. In realtà Mattia è figlio di una relazione clandestina del padre Nanni, orologiaio triestino, con una ragazza slovena, la cui identità però Nanni si rifiuterà ostinatamente di rivelare. Mattia per questo si sente un figlio di nessuno, e comincia una ricerca spasmodica di questa donna desiderata e misteriosa che custodisce il segreto della sua nascita e della sua identità, mentre nella sua vita pian piano si vengono sfilacciando i legami più profondi e autentici, quello col padre, quello con il fratello Adriano partito per l’America, e infine quello con l’amico Ernesto, figlio di una slovena, che non accetta il suo avvicinamento ai fascisti. Mattia diventa sempre più arrabbiato e solo, e questa rabbia e questa solitudine diventano emblema e specchio della sua città, Trieste, e con essa di tutti coloro a cui la Storia ad un certo punto ha detto: ‘tu non sei più chi fino ad oggi credevi di essere’.

Il male: comprensione senza redenzione

Il senso del romanzo di Balzano, in fondo, sta tutto qui, nel provare a scendere nell’abisso del cuore di un uomo irrisolto, ferito dalla vita, che è anche un fascista crudele, una spietata spia dei nazisti, ma la cui perversione e immoralità non è mai completamente perfetta, bensì mista a momenti di consapevolezza e paradossale umanità. Un personaggio di cui alla fine emerge soprattutto la fragilità, l’immaturità, il suo essere rimasto un bambino fuori tempo massimo. È una condizione di cui anche lo stesso protagonista (che racconta in prima persona la propria storia come se fosse il riepilogo di una vita rivolto a sé stesso in punto di morte) è in certi momenti lucidamente e dolorosamente consapevole, come emerge ad esempio in una notte al fronte, durante la grottesca spedizione fascista in Grecia in cui Mattia si trova coinvolto:

Era così mite quella notte che gli alpini non avevano nemmeno tirato le coperte sul naso. Non si stava troppo scomodi, lì sulla terra nuda. […] Grattavo con le unghie il suolo a caccia di vermi da tormentare ma trovavo solo sassi. D’improvviso ho sentito avvamparmi sulla faccia una vergogna mai provata: avevo vissuto proprio come un bambino, in casa con entrambi i genitori finché c’era la Tella e poi da solo con mio padre. Ci avevo persino dormito assieme. Sì, ero davvero un bambino di quarant’anni. Non abbastanza vecchio da evitare il fronte, ma non più così giovane per costruirmi una famiglia. Peccato, mi sarebbe piaciuto averne una. Mi sarebbe piaciuto proteggerla, perché la vita è aggredire o difendere, distruggere o prendersi cura. […] Quella notte, invece, il cielo sotto cui eravamo accampati era uno specchio e io per la prima volta potevo guardarmi per ciò che ero: un fascista spiantato che sognava sua madre, una donna senza storia né voce. (pp. 80-81)

È una pagina che in qualche modo ha in nuce l’intero libro. In essa, come in tutto il romanzo, l’attrazione per la violenza si intreccia alla fragilità esistenziale; in essa, come in tutto il romanzo, Mattia tortura esseri viventi, passando, apparentemente senza capacità di discernere, dal tormentare vermi all’uccidere donne e uomini. Ma emerge qui anche un altro grande tema del libro: la nostalgia di legami personali forti e stabili, che di volta in volta il protagonista sostituisce con surrogati distorti o perversi; ecco allora il desiderio di prendersi cura di una donna diventa ansia di possesso e violenza; e il gruppo (o per meglio dire il branco) sostituisce i legami di amicizia ormai diventati impossibili. 

Il fondo dell’abisso

È certo un pregio di questo libro che l’autore non abbia rinunciato, anche di fronte ad una storia estrema, niente affatto edificante, a ciò che lo ha sempre caratterizzato: una scrittura chiara e razionale, sempre leggibilissima, e uno scavo psicologico che ruota in definitiva intorno ad alcuni temi ricorrenti, vale a dire i rapporti familiari, i legami con i luoghi, la ricerca ostinata e inquieta di un proprio posto nel mondo. Sono strumenti che funzionano anche per affrontare, e in parte decifrare, l’oscurità cha sta al fondo dell’animo di Mattia, che nella pratica della violenza cerca la risposta (sbagliata) alle sue domande, la catarsi malata della sua impossibilità di crescere. In questo uomo-bambino, che non riconosce i suoi limiti e mette alla prova la sua onnipotenza prima seviziando le lucertole e poi decidendo i destini di decine di vite umane, la disumanizzazione è persino più profonda e inquietante rispetto a quella di tanti malvagi che si incontrano in storie di questo tipo, perché è pre-razionale e pre-politica.  Alla fine, l’unica istanza che resta, mentre tutto si disfa, è quella dell’egoismo, poi della convenienza, infine della sopravvivenza. Non c’è mai un’utopia, per quanto distorta o negativa, e in definitiva nemmeno un’ideologia, ma solo la volontà istintiva e ossessiva di risolvere i propri casi, di dare un senso purchessia alla propria vita. La visione di Mattia diventa così, nel corso del romanzo, sempre più piccola, involuta, ombelicale: si vive, si uccide, si tradisce, solo per continuare a sopravvivere. Finché, un giorno come un altro, qualcuno viene a prenderti in un bar, ti benda, ti lega col filo di ferro e ti porta a raggiungere le tue vittime nell’abisso. E solo lì, nell’abisso, guardando per l’ultima volta la luce in alto, può arrivare una consapevolezza più chiara del proprio fallimento esistenziale. Ma è una consapevolezza che non può più portare ad una redenzione; al massimo alla formulazione di un messaggio da lasciare alla meditazione di chi ancora non è compromesso, di chi può ancora scegliere: “Dove c’è sangue non può esserci nient’altro che sangue”, è uno degli ultimi pensieri di Mattia. Una catena, quella del sangue, che non si può spezzare se non si parte dal cercare prima di tutto dentro noi stessi le radici del male e della violenza, come ci invita a fare la storia senza riscatto di Bambino.

Articoli correlati

Comments (2)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Commenti recenti

Colophon

Direttore

Romano Luperini

Redazione

Antonella Amato, Emanuela Bandini, Alberto Bertino, Linda Cavadini, Gabriele Cingolani, Roberto Contu, Daniele Lo Vetere, Morena Marsilio, Luisa Mirone, Stefano Rossetti, Katia Trombetta, Emanuele Zinato

Caporedattore

Roberto Contu

Editore

G.B. Palumbo Editore