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diretto da Romano Luperini

“ La vita davanti a sé”. Rilettura con figlia di un romanzo molto amato.

Per prima cosa vi posso dire che abitavamo al sesto piano senza ascensore e che per Madame Rosa, con tutti quei chili che si portava addosso e con due gambe sole, questa era una vera e propria ragione di vita quotidiana, con tutte le preoccupazioni e gli affanni. Ce lo ricordava ogni volta che non si lamentava per qualcos’altro, perché era anche ebrea. Neanche la sua salute era un granché e vi posso dire fin d’ora che una donna come lei avrebbe meritato un ascensore.

Dovevo avere tre anni quando ho visto Madame Rosa per la prima volta. Prima non si ha memoria e si vive nell’ignoranza. La mia ignoranza è finita verso i tre o i quattro anni e certe volte ne sento la mancanza.

C’erano molti altri ebrei, arabi e neri a Belleville, ma Madame Rosa era l’unica che si doveva arrampicare fino al sesto piano. Diceva che un giorno o l’altro ci sarebbe morta per quella scala, e tutti i marmocchi si mettevano a piangere, perché si fa sempre così quando muore qualcuno. Eravamo sei o sette là dentro, e quella volta anche di più.

All’inizio non sapevo che Madame Rosa si occupava di me soltanto per riscuotere il vaglia alla fine del mese. Quando sono venuto a saperlo avevo già sei o sette anni e per me è stato un colpo sapere che ero a pagamento. Credevo che Madame Rosa mi volesse bene gratis e che ci fosse qualcosa tra noi due. Ci ho pianto per una notte intera ed è stato il mio primo grande dolore.

Romain Gary, La vita davanti a sé, [Francia 1975¹], Neri Pozza 2022 [2005¹], traduzione di G. Bogliolo, pp.7-8

Prologo (non accessorio)

Qualcuno, per Natale, ha regalato a mia figlia La vita davanti a sé, un romanzo che possiedo da tempo, che ho letto e amato, che non ho mai dimenticato. Lo comunico a mia figlia: che ce l’ho, che l’ho letto, amato, mai dimenticato; e subito lei replica che, allora, andrà in libreria a cambiarlo, ne prenderà un altro. Aspetta – penso. E poi: Aspetta – le dico – Tienilo, tieni la tua copia.

Non è che non voglia darle la mia; è che desidero che lei si faccia la sua biblioteca – come parte delle fondamenta su cui costruire (e un giorno ricostruire), come ognuno di noi, la propria vita. Ma soprattutto ho l’impressione che la fortuna mi stia porgendo una occasione virtuosa: rileggere questo romanzo con lei. L’ho fatto. Quello che segue è il distillato di questa rilettura.

Vent’anni fa

La mia edizione è del 2005; quella di mia mia figlia è del 2022. Con lei lo leggo nel 2024. Dalla mia prima volta sono trascorsi quasi vent’anni. Mia figlia era poco più che una neonata. Allora lessi La vita davanti a sé con l’avidità rapinosa di chi, assorbita dalle cure parentali, cerca nei libri cura e linfa per sé. Allora, forse ancora prima della storia, mi colpì il suo autore, nativo di Vilnius, naturalizzato francese, «eroe di guerra, diplomatico, viaggiatore, cineasta, tombeur de femmes, vincitore di un Goncourt,considerato (…) un romanziere a fine corsa» (così sul risvolto di copertina) e invece vincitore di un secondo Goncourt sotto le mentite spoglie di Émile Ajar; e infine suicida. Allora – ancora vicina al centro sociale nel cuore della mia città – anche la banlieu di Belleville mi sembrò vicina, noti i suoi problemi, familiari i suoi abitanti e la lettura del romanzo fu, per me discalculica, strumento di facile equazione. Allora – da poco madre – mi sentii quasi in dovere (come la borghese Nadine) di farmi madre anche del ragazzino Momò, protagonista e narratore della vicenda, orfano di una prostituta e da una prostituta (Madame Rosa) allevato con reciproco stranamore, insieme ad altri bambini (Banania, Moïse…). Ma soprattutto allora pensavo di avere ancora molta vita davanti a me e temevo di dimenticare i Momò, i Banania, i Moïse che avevo conosciuto al centro sociale e anche l’infanzia di mia figlia, il suo odore di bambina, le nostre parole la sera, prima di andare a dormire; un po’ come racconta di sé il signor Hamil, già venditore ambulante di tappeti, lettore indefesso de I miserabili di Victor Hugo e maestro per Momò di lingua araba e Corano:

Sessant’anni fa, quando ero giovane, ho incontrato una ragazza che mi ha amato e che ho amato anch’io. È andata avanti per otto mesi, poi lei ha cambiato casa, e io me ne ricordo ancora sessant’anni dopo. Le dicevo: Non ti dimenticherò. Passavano gli anni e io non la dimenticavo. Certe volte avevo paura perché avevo ancora molta vita davanti a me, e che promessa potevo mai fare a me stesso, io, povero uomo, se è Dio che tiene in mano la gomma da cancellare? Adesso però sono tranquillo. Non dimenticherò Djamila. Mi resta poco tempo, morirò prima. (p.8)

Ma nel racconto di Momò, il signor Hamil «era già molto vecchio quando l’ho conosciuto e dopo ha sempre continuato a invecchiare» (p.8); invece io comincio adesso.

Adesso

Adesso il romanzo l’ho riletto piano, accordandomi tutto il tempo che mi è piaciuto di prendermi.

Adesso ho misurato con struggimento e sgomento le distanze: la mia distanza dalla banlieu della mia città e la distanza di questi vent’anni, che, sarà che il tempo è un gran medico, ma per la banlieu della mia città (e non solo) non sono stati terapeutici un granché; anzi.

Adesso nei confronti dei Momò, dei Banania, dei Moïse, nei confronti di mia figlia ho provato un senso di profonda impotenza e sconfitta, per tutto quello che, da madre vera di una e presunta degli altri, non sono riuscita a fare, in vent’anni, per loro. Eppure insegno. Eppure Momò forse mi aveva mostrato la via.

Il mondo salvato da Momò

Momò in realtà si chiama Mohammed; o almeno: con questo nome sua madre, una prostituta uccisa dal suo stesso prosseneta (il vocabolo desueto dall’etimo lontano ricorre spesso sulle labbra del ragazzino; e non credo sia vezzo di traduttore), lo ha consegnato ancora molto piccolo a Madame Rosa, una ebrea di origine polacca, sopravvissuta ad Auschwitz e alla vita sui marciapiedi maghrebini e parigini. Questa donna – corpo sformato e vanesio, mente malferma e lucida, animo cinico e sentimentale – ha messo su una sorta di pensione per i figli delle prostitute (diversamente destinati al brefotrofio) in un appartamento scalcagnato di Belleville (allora periferia estrema di Parigi, prima della consacrazione letteraria di Pennac), al sesto piano di un palazzo fatiscente, abitato o comunque frequentato da una umanità varia e multietnica: l’algerino Hamil, di cui s’è già detto, Madame Lola, trans senegalese, «veramente una persona umana» (p.163), il signor Waloumba, mangiatore di fuoco camerunense, con «i suoi fratelli di tribù» (p.137), il signor N’Da Amédée, prosseneta nigeriano con tanto di guardia del corpo, il signor Charmette, «francese d’origine garantita» (p.156), il dottor Katz, «ben noto agli ebrei e agli arabi nei paraggi di rue Bisson per la sua carità cristiana», che «curava tutti quanti dalla mattina alla sera e anche più tardi» (p.23); e altri ancora, mai comparse anche quando scompaiono presto, anche quando compaiono una volta soltanto, perché tutti salvati dalla memoria e dal racconto prodigioso di Momò. Prodigio doppio: perché, salvando il suo mondo, il racconto salva lo stesso Momò:

…quello che vorrei è essere un ragazzo come Victor Hugo. Il signor Hamil dice che si può fare tutto con le parole ma senza ammazzare la gente e quando avrò tempo vedrò. Il signor Hamil dice che è la cosa più forte che c’è. Se volete sapere la mia opinione, se i ragazzi a mano armata sono così è perché non li avevano scoperti quando erano bambini e sono rimasti né visti né sconosciuti. (…) Madame Rosa dice che la vita può essere molto bella ma che non è stata ancora veramente scoperta e che intanto bisogna pur vivere (p.98).

Tutto proteso in questa «scoperta» della vita, Momò non è cieco né ingenuo di fronte alla sua bruttezza: sa perfettamente che «i figli di puttana per la gente per bene sono tutta una cosa con i prossineti, i ruffiani, la criminalità e la delinquenza infantile» (p.97), che sono i «bambini che non avevano potuto farsi abortire in tempo e che non erano necessari» (p.13); vede perfettamente che Madame Rosa è orrenda, che N’Da Amédée è un malavitoso, che Charmette è «solo come un cane, malgrado la sua previdenza sociale» (p.116), che lui e Nadine, la bella, elegante, progressista Nadine, che pure lo avvicina senza remore (e che infine in qualche modo lo tirerà fuori da Belleville), e il suo compagno, e i suoi bambini «biondi e vestiti che sembrava di sognare» (p.172) «non eravamo proprio dello stesso ambiente, accidenti» (p.173). Non solo:

Nel mio caso conosco dei tipi che si imbottiscono con certe dosi di polvere, ma io alla vita non voglio mica leccargli il culo per essere felice. Io alla vita non voglio mica dargli il belletto, io ci caco sopra. Noi due non abbiamo niente da spartire. (p.81)

Non è dunque di edulcoranti che Momò vada in cerca; semplicemente, perennemente in via – su e giù per le scale del palazzo come per i quartieri di Parigi, da Belville agli Champs-Élysées al Bois-de-Boulogne –, Momò fa di se stesso spola, divenendo interprete e narratore di un universo nel quale si muove con la naturalezza disinibita di chi, ascoltando, ha imparato a parlare lingue diverse. Le persone, le cose, le case vengono così sottratte e salvate dai giudizi sommari formulati nel linguaggio ugualmente fazioso e conformista del moralismo come del politicamente corretto, immuni dalla condanna come dalla retorica, restituite alla loro realtà – fenomeno e noumeno.

Abitanti del terzo spazio

Romano Luperini ha scritto di alcuni personaggi verghiani (in testa a tutti il giovane ‘Ntoni) parole che adesso, rileggendo dopo circa vent’anni La vita davanti a sé, mi tornano ancora una volta in mente, ma con un’evidenza speciale:

Tutti questi personaggi si muovono (…) in uno spazio diverso rispetto a quello consueto sancito dall’appartenenza a una classe o a un gruppo sociale, e al linguaggio e alla ideologia che li caratterizza. Sono degli sradicati in cerca di realizzazione, sanno parlare varie lingue. (…) Ambirebbero a un destino diverso. Sono o diventano dei reietti. Per questo sono pericolosi. (…) Ci parlano di tutti gli esclusi e gli esuli che dalle periferie del mondo giungono nel nostro o che dal nostro si spingono altrove (e sono già, questi ultimi, nostri figli). Alludono a nuova cultura da costruire e a un rapporto sociale da reinventare a partire dall’azzeramento di ogni valore e dalle macerie della moderna civiltà occidentale e di quella arcaico-rurale del mondo contadino e patriarcale (…). Fra l’ottica dei colonizzatori e dominatori e quella dei colonizzati e dominati rivendicano l’urgenza di un terzo spazio (…) in cui (…) gli esuli e i marginali dell’Occidente e quelli dell’Est e del Sud del mondo possano incontrarsi e dialogare, senza identità precostituite da difendere, e incrociare linguaggi, costruire, nuove comunità su nuovi valori. Un’utopia, si dirà. Ma forse qui sta l’attualità più vera, e nascosta, di Verga: nel prendere atto duramente di una distruzione e nel far intuire la possibilità di un nuovo fragile spazio fra le macerie in cui i vinti e gli esclusi potranno trovare una voce ed esprimere i loro orizzonti di senso. Non c’è sventura, sosteneva Benjamin, che non abbia implicita una chance.i

Sradicato, reietto, escluso, Momò tuttavia ha già svoltato: abita già questo nuovo fragile spazio, una comunità nuova costruita su nuovi valori, che nuovi in realtà non sono, perché sono quelli antichi e mitici della solidarietà e del rispetto della dignità della persona. Pur essendo cresciuto in uno spazio degradato, Mohammed è singolarmente beneducato; e non solo perché chiama rispettosamente “Signore” e “Madame” ogni persona adulta con cui abbia a che fare, non solo perché, per volontà di un’ebrea, conosce il Corano (ma anche le preghiere della Thōrā), ma perché sembra pervaso da una sorta di pietas istintiva, ancestrale: homo sum: humani nihil a me alienum puto. Scolpita dall’episodio culmine della veglia a Madame Rosa moribonda nel suo «cantuccio ebraico», essa si manifesta comunque sempre nello sguardo penetrante ma lieve con cui questo piccolo uomo osserva il mondo e si ingegna di trovare una voce (correlativo insopprimibile di quello sguardo) per esprimere i suoi orizzonti di senso. Proprio la voce di Momò è l’elemento più straordinario del romanzo. E per spiegarla non servono le molte righe che potrei scrivere o che già sono state scritte: si deve ascoltarla:

Ho acceso le candele mi sono seduto per terra vicino a lei e le ho tenuto la mano. Questo le ha fatto un po’ bene, ha aperto gli occhi, si è guardata intorno e ha detto:

«Lo sapevo che ne avrei avuto bisogno, un giorno, Momò. Adesso posso morire tranquilla».

Ha perfino sorriso.

«Non batterò il record mondiale dei vegetali».

«Insh’Allah».

«Sì, Insh’Allah, Momò. Sei un bravo ragazzo. Siamo stati sempre bene insieme».

«È vero, Madame Rosa, e poi è sempre meglio che niente».

«Adesso fammi dire la preghiera, Momò. Potrebbe essere l’ultima volta che lo faccio».

«Shemà Ysrael Adonay…»

Ha ripetuto tutto quanto con me fino a leolam waed e mi è sembrata contenta. Ha passato ancora un’ora bene, ma poi si è di nuovo deteriorata. (…)

Però c’è una cosa che vi voglio dire: non dovrebbero mica esistere queste cose. La dico come la penso. Io non capirò mai perché l’aborto è autorizzato solo per i giovani e non per i vecchi. Io trovo che quel tale che in America ha battuto il record mondiale come vegetale è ancora peggio di Gesù, perché sulla croce c’è rimasto diciassette anni e rotti. Io trovo che non c’è niente di più schifoso che infilare a forza la vita nella gola della gente che non si può difendere e che non vuol più essere utile.

C’erano molte candele e ne ho acceso un mucchio per avere meno buio. Lei ha mormorato ancora Blumentag, Blumentag due volte e io cominciavo a rompermi l’anima, l’avrei voluto vedere quel suo Blumentag darsi da fare per lei come facevo io. Poi mi sono ricordato che blumentag in ebreo vuol dire giorno dei fiori e che quella doveva essere un’altra fantasticheria femminile. La femminilità è più forte di tutto. Forse sarà andata in campagna, quando era giovane, magari con un tizio che amava, e le è rimasto impresso.

«Blumentag, Madame Rosa». (pp.206-207)

Vent’anni fa – ora me ne avvedo – sono stata Nadine; una “montatrice” (è questo il suo mestiere), che ha creduto di poter rimontare le scene della vita come si fa in un film. Ho aiutato molti Momò a fare i compiti, li ho portati al mare, gli ho comprato il gelato. Ma, come Nadine, ho continuato a parlare la mia lingua. Mia figlia no. Lei è un poco come Momò, sa parlare lingue diverse, posa lieve il suo sguardo sulle cose e come lui abita lo spazio ancora fragile ma coraggioso della vita davanti a lei.

i R. Luperini, Verga e noi. Il “terzo spazio” dei vinti in Giovanni Verga. Saggi (1976-2018), p.261. Su questo blog se n’è parlato qui.

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