
Nel labirinto: Italo Calvino filosofo
È appena uscito presso La Scuola di Pitagora editrice, il saggio del filosofo Roberto Fineschi, Nel labirinto. Italo Calvino filosofo, per la collana “Diotìma, Questioni di filosofia e politica”. Il testo indaga il retroterra filosofico e teorico della produzione calviniana, con specifico riferimento alla sua formazione comunista e marxista. Ne pubblichiamo oggi un estratto. Ringraziamo l’autore e l’editore per la gentile concessione.
Premessa
L’idea di questo libro è nata dalla rilettura di alcuni testi di Italo Calvino in occasione del centenario della nascita; la curiosità per alcuni aspetti meno citati della sua produzione letteraria e saggistica, soprattutto relativi alla sua formazione non solo comunista ma esplicitamente marxista, mi hanno spinto a un approfondimento da cui si è via via sviluppata una più ampia riflessione.
Va qui premesso che non sono un critico letterario e che questa mia attenzione non si è applicata al contenuto artistico, stilistico, ecc. della sua opera. Ho cercato piuttosto di individuare le premesse teoriche e più propriamente filosofiche che hanno costituito il retroterra della sua attività di scrittore e che come tali non sempre emergono in maniera esplicita nei suoi romanzi e racconti. In questo tentativo, pur di fronte a una letteratura secondaria sterminata, ho trovato pochi precedenti, che in genere affrontano il tema del Calvino “saggista”. Essi sono di grande interesse e mi hanno spinto a tentare di delineare un quadro più ampio, che desse soprattutto ragione degli scarti e dei cambiamenti “filosofici”; essi mai implicano una cancellazione completa dell’approccio precedente, credo anzi che trovino una spiegazione solo tenendo presenti allo stesso tempo le linee di continuità e di discontinuità del suo ragionamento.
Un aspetto che mi è parso bisognoso di maggiore approfondimento è il passaggio decisivo degli anni Sessanta; con difficoltà infatti si è finora riusciti a spiegare quello che a prima vista parrebbe un cambiamento di orientamento repentino. Esso viene in genere ricondotto alla delusione politica per i fatti ungheresi, all’uscita dal PCI, tutti eventi fondamentali che però sono più effetti che cause (o al limite concause) di un percorso che viene da lontano. Le ragioni di questa difficoltà sembrano a me legate a un non sufficiente approfondimento dei presupposti teorici di questo primo periodo. A ciò ha sicuramente contribuito il carattere elusivo e per certi aspetti autocensorio dello stesso Calvino post ‘64 sul retroterra esplicitamente marxista di quel periodo. Chi si è occupato della questione, da lettere, interviste, saggi, non ha potuto alla fine che prendere atto dell’esplicito e rivendicato marxismo, ma ha cercato di minimizzarne il peso. Si tratta in realtà di quasi 20 anni (1945-1964) di partecipati dibattiti, scritture, azione politica che è difficile classificare come incidente di percorso o inconscia copertura di altri pensieri. Questo libro tenta di prendere sul serio il marxismo di Calvino di quegli anni e mostrare come esso venga ripensato, abbandonato, ma in una certa misura anche digerito nella riflessione successiva.
Il taglio della mia ricerca è dunque primariamente filosofico. In Calvino non si rintraccia ovviamente una filosofia “sistematica”, non solo perché si tratta di un letterato, ma per la sua avversione esplicita a concezioni totalizzanti e definitive. Ciò tuttavia non toglie che gli aspetti teorici della sua attività tanto intellettuale quanto politica siano sempre stati fondamentali e che essi, purché non assolutizzati, abbiano costituito un elemento chiave della sua produzione. I suoi principi sono del resto dichiarati apertamente in saggi, lettere e interviste; il tentativo non di formalizzarli, ma di ricostruirne un ordine e una dinamica di mutamento è ciò cui spero di contribuire. È bene precisare che questo studio non ha alcuna pretesa di sostituirsi alla critica letteraria; vorrebbe invece partecipare al dibattito da una prospettiva diversa che possa magari gettar luce su alcuni aspetti meno immediati per chi proviene da una formazione non strettamente filosofica. L’autore è insomma lo stesso, diversa l’angolatura prospettica.
[…]
Per una “filosofia” di Calvino
La scrittura di Calvino è “cerebrale”, le sue storie sono molto pensate ma nel risultato, soprattutto nelle prime due fasi, sembra scomparire la complessità della costruzione sottesa; talvolta persino il lettore colto a fatica riesce a ripercorrerne le premesse filosofiche o ideologiche. Accanto alle opere, in cui esse sono spesso celate, esiste tuttavia un’attività di teorico e pubblicista, nonché molte interviste e lettere a intellettuali e collaboratori, anche attraverso le quali si può andare in cerca di un percorso dai contorni più precisi.
In particolare, mentre per la terza e quarta fase le dichiarazioni abbondano, sulle prime due Calvino è spesso reticente e parziale; a dispetto di un certo numero di interviste, dichiarazioni, testimonianze, poco dirà delle letture di natura più propriamente filosofica che lo hanno formato in gioventù. Ciò è da notare non tanto per adombrare psicanalitici problemi di rimozione (forse non del tutto assenti), quanto piuttosto per prendere atto che la prima decisiva fase viene sbrigativamente ridotta a un solo articolo di Una pietra sopra, quando invece comprende ben dieci anni di produzione intellettuale e letteraria. Che Calvino si comporti così rispetto al proprio passato ha ovviamente il suo peso, ma l’analisi critica deve andare oltre la sua autocomprensione e darne conto, inquadrando quel periodo al di là del suo giudizio prospettico. Sarà perciò necessario capire il senso della presa di distanza da alcuni presupposti; si rischia altrimenti di ridurre un complesso sviluppo intellettuale al mero dato biografico per cui Calvino è uscito dal Partito Comunista Italiano, la qual cosa è ovviamente rilevante, ma, come si diceva, è più un effetto che una causa. D’altro lato, certi assunti continueranno ad agire anche nelle fasi successive che solo alla luce di tali premesse assumono un senso più definito e, alla fine, coerente con uno sviluppo in fondo organico della sua riflessione.
Se le tracce di un intendimento filosofico di Calvino sono molto blande nei testi letterari, ricercando tra le sue dichiarazioni extra-letterarie si delinea un quadro con delle coordinate credo non generiche. Prendiamo le mosse da sue precise indicazioni. Egli stesso dichiara che i suoi maestri di filosofia — il che non significa che egli abbracciasse le loro idee tout court — si possono in origine ricondurre a tre ceppi, tutti facenti capo alla casa editrice Einaudi in cui notoriamente lavorò e si formò come intellettuale: 1) Felice Balbo, 2) gli “illuministi” einaudiani, 3) i francofortesi (Solmi, Cases e Fortini per contrasto). Ne parla retrospettivamente nell’introduzione all’edizione degli Amori difficili del 1970 presentando il libro in terza persona. Al termine del complesso periodo degli anni Sessanta, egli getta uno sguardo al passato e illustra le prospettive per il futuro. Oltre a menzionare quei nomi, Calvino li collega a una periodizzazione e distingue tra una formazione sul campo legata all’esperienza partigiana e una intellettuale svoltasi principalmente presso la casa editrice Einaudi. Relativamente al tema resistenziale e immediatamente post-resistenziale, egli rivendica spesso la matrice “pratica” della sua formazione con la quale la scrittura si pone in una dialettica di continuità/ discontinuità, seguita fino al 1950 da una formazione non accademica presso Einaudi:
[…]
La grande amicizia e la profonda influenza del crociano, comunista cattolico Felice Balbo (“Cicino”) sarà ricordata a più riprese nel corso della vita di Calvino. Da lui bisognerà partire per comprendere l’orizzonte filosofico calviniano, senza tuttavia perdere di vista l’origine e lo scopo pratico del suo lavoro.
Il secondo e il terzo riferimento ai filosofi sopra ricordati riguardano la temperie immediatamente successiva, legata alla crisi dello stalinismo e delle prospettive politiche sia del PCI che individuali. Negli anni tra il 1953 e il 1959 matura un allargamento e un primo ripensamento di orizzonti. Qui il riferimento è all’Illuminismo e agli autori filo-francofortesi sopra menzionati:
[…]
Ciò detto, va preso atto della premessa più generale, del grande orizzonte che tutto ciò abbracciava e che invece spesso resta taciuto: un esplicito e praticato marxismo. Senza tener conto di questo presupposto, per quanto critico e accidentato, si rischia di perdere il filo del discorso.
Si diceva che, oltre a guardare indietro, Calvino guarda anche in avanti e delinea gli orizzonti che costituiranno la sostanza della sua scrittura futura (legata anche ai soggiorni all’estero che aprono nuove prospettive sullo sviluppo della società occidentale).
[…]
Questa fase (la terza nella divisione da me proposta) costituisce evidentemente un tentativo di superamento delle prime due, ma a partire da esse; pur nella discontinuità ne conserva infatti alcuni importanti presupposti. Ciò ovviamente non significa che i cambiamenti non siano significativi, ma senza cogliere la dialettica di continuità/ discontinuità non credo si possa comprendere fino in fondo il percorso di Calvino. L’ultimo periodo (la quarta fase nella mia divisione) non nega le complesse premesse della terza, denota semmai un maggiore pessimismo e una sospensione di giudizio definitiva.
Anche a causa delle forti reticenze calviniane, in parte del dibattito critico a mio modo di vedere non è stata presa nella dovuta considerazione la premessa del suo operato politico e culturale nelle prime due fasi che invece pare indiscussa: se consideriamo la sua carriera intellettuale dal 1945 al 1964, Calvino è stato dichiaratamente marxista. Non genericamente comunista, come talvolta si concede, ma marxista; in una prima fase addirittura marxista-leninista-stalinista, come egli stesso, passati molti anni, avrà il coraggio di ricordare e, in una certa misura, rivendicare. Tentiamo una periodizzazione: fino al 1951 Calvino è stalinista senza grandi tentennamenti; sempre più lontano dallo stalinismo, è marxista in maniera critica, ma ancora organica al partito fino al 1957; resta esplicitamente marxista (non più stalinista) anche se non più organico al partito fino al 1964. Nel corso di questi venti anni sono apparse alcune delle sue opere più celebri delle quali non si riesce a capire il senso senza venire in chiaro su questi processi. Anche la fase successiva, apparentemente lontana dal marxismo, di esso conserva alcuni tratti importanti, anzi aspetti che per certi versi sono inconsapevolmente più marxiani di quanto non lo fosse il marxismo-leninismo praticato in gioventù; non c’è tuttavia dubbio sul fatto che i suoi orizzonti si allarghino ad esperienze altre.
[…]
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