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diretto da Romano Luperini

La libertà non negoziabile della scrittura: quattro domande ad Andrea Bajani

Andrea Bajani ha recentemente pubblicato il suo ultimo romanzo, L’anniversario (Feltrinelli). Il titolo dell’opera allude al compimento del decimo anno dalla radicale separazione dell’io narrante dalla sua famiglia di origine: è stato un gesto fatto, scrive, “con quella ponderatezza definitiva che solo l’istinto consente, perché la ragione, impaurita, altrimenti arretrerebbe” (p.115). Gli abbiamo chiesto di rispondere a qualche domanda su questo romanzo e, in generale, sulla sua scrittura.

A partire dall’insistenza con cui la parola romanzo torna nell’Anniversario, credo sia opportuna una riflessione sul congegno narrativo alla base del tuo libro. In un primo momento, infatti, il lettore può essere indotto a contrarre un patto narrativo di tipo non finzionale, basato sul genere autobiografico del memoir. Viceversa, nelle tue pagine ricorrono spesso parole come “immagino”, “so immaginare”, “finzione”; si inanellano domande per le quali tu stesso non hai risposte e implicano dei “forse”; parli del tuo romanzo come di un “dispositivo pensante” presumendo che solo la scrittura abbia la possibilità di dischiudere la porta sul passato, di sbozzarne le immagini confuse da mettere in rilievo. Che cosa intendi, dunque, con il termine “romanzo” e come è cambiato il tuo modo di narrare oltre vent’anni di scrittura?

Il romanzo è un genere inquieto, non codificato, e soprattutto non codificabile. E questa sua natura così metamorfica e al contempo irrequieta, anarchica, mi ha portato a sé fin dall’adolescenza. Per poi conquistarmi del tutto a diciotto anni, quando un’amica mi regalò La vita è altrove di Milan Kundera. Dopo anni passati a leggere romanzi realisti, e dalla struttura per così dire tradizionale, e quindi a costrurmi un’idea di romanzo calcificata, Kundera spalancava tutte le finestre della casa del romanzo e diceva: aria! Lo faceva tirando dentro Cervantes, Broch, il sesso, gli angeli, la politica, in dispositivi frammentari, liberi, eppure così infinitamente appassionanti, per il ragazzo che ero. Poi arrivai all’università e il corso che mi segnò per sempre aveva al centro Virginia Woolf – che lo è ancora in qualche misura – Auden, Conrad, i dublinesi di Joyce. Insomma, per non farla troppo lunga, ho imparato presto che il romanzo negozia la propria natura a ogni riga scritta, che non può darsi codice acquisito una volta per tutte. E dunque che non può darsi un patto implicito. Ecco, oggi mi pare che il patto implicito non solo ci sia, ma che l’epoca che viviamo porta a dare per scontato che ogni “io” sia autobiografico, memoiristico, autofinzionale. Non solo, che la temperatura – e per certi versi il valore – di un testo sia da cercarsi nella prossimità con l’autore. Questo mi pare un atto di rinuncia nel romanzo, che  nella sua storia, per l’appunto, ha tenuto insieme versi, teatro, fotografie, realtà, immaginazione. Ho messo il sottotitolo “un romanzo” a L’anniversario per questa ragione: come atto di insubordinazione nei confronti dei patti impliciti e al tempo stesso di fiducia nel genere, che si scrolla di dosso ogni aspettativa, che mescola ciò che è reale, ciò che non lo è, ciò che è autobiografico, ciò che non lo è, nella più assoluta, innegoziabile, libertà.

 Un bene al mondo (2016), Il libro delle case (2021) e L’anniversario (2025) concorrono a tematizzare un congedo, al contempo lancinante e compassionevole, dal passato. Il primo lo fa in forma di fiaba; il secondo prende l’aspetto di una mappatura – esplosa –  di case; il più recente assume i tratti di un resoconto dolorosamente veritiero. Per quanto ciascuno di questi tre libri sia  di per sé autosufficiente e indipendente, consideri questa triade come un percorso a tappe nello sviluppo della tua scrittura?

Considero tutti i libri un percorso a tappe. O meglio ancora un percorso evolutivo. Non concepisco nuove scritture senza un profondo processo di evoluzione: personale, letterario, politico. Se l’idea che ho del romanzo, della vita, è rimasta la stessa, non c’è ragione per cui io mi debba mettere a scrivere. Non mi sento uno scrittore professionista, non sento di dover scrivere per forza. Se a furia di vivere, scrivere e leggere domande nuove si sono poste nel frattempo, se una nuova forma sta cercando la strada dentro di me al punto poi da cercarla anche sul foglio, allora mi rimetto a scrivere. O almeno ci provo. Se è così continuo, se non sono evoluto abbastanza interrompo: ho una decina di romanzi abbandonati. Non erano buoni? Ma sì, forse lo erano pure. Ma non è quello che mi interessava, non c’era domanda urgente. Per venire alla tua domanda, certo è successo qualcosa con Un bene al mondo, quando l’ho scritto, tra il 2014 e il 2016. Lì, ogni impalcatura letteraria, che per sicurezza avevo tenuto nei romanzi precedenti, è saltata in aria. È uscito un romanzo che certo ha nella fiaba uno dei parenti più prossimi, ma, ancora una volta, non si esaurisce lì. È un oggetto anomalo, non riconducibile a nulla, una specie di ufo. Il libro delle case ugualmente (forse lì ho cercato di saldare il debito con Kundera di cui sopra). E ora L’anniversario. Tre libri legati prima di tutto da un gesto spontaneo, non negoziabile. Quello di una forma – una voce, una lingua, una struttura, un’etica – che irrompeva, e che non poteva che essere radicalmente differente da prima, perché le domande che poneva il testo erano radicalmente diverse da prima.

L’anniversario a livello stilisticosembra inaugurare un nuovo modo di narrare: si sono rarefatte le immagini metaforiche e un certo lirismo che caratterizzava i libri precedenti si è attenuato (si pensi per esempio a Se consideri le colpe (2007): fatta salva la raffinatezza della lingua, “le omissioni, le sottrazioni, gli svuotamenti” che Andrea Cortellessa nella Terra della prosa (p. 647) individuava come tratti precipui della tua scrittura sembrano ribaltarsi in una sorta di pienezza del dire. La “forma cava” del personaggio materno viene scandagliata nel romanzo proprio per farne una figura convessa, complessa ma finalmente leggibile. È lo stile che è cambiato – e che ci consegna un narratore diverso-  o è la materia narrativa che ha implicato un mutamento formale?

Le cose stanno insieme. Quante cellule ho io in comune con l’autore che scrisse i romanzi che tu citi? Non lo so, non tantissime, ma alcune sostanziali. Quanto ha in comune la realtà sociale, economica, geopolitica, antropologica, esistenziale con quella in cui ero immerso prima? Non tantissime, anche se ovviamente alcune sostanziali. Mi pare che la questione stia tutto in questa metamorfosi. Per questo Franz Kafka è lo scrittore chiave per chiunque abbia a cuore la letteratura, ed è inarrivabile. Va da sé che senza Kafka non ci sarebbe Kundera, e probabilmente senza Ovidio nessuno dei due. Kafka ci ha detto una volta per tutte che nella scrittura confluisce il potere, il sogno, l’autobiografia, l’incompiutezza, la fragilità, il dolore, il desiderio di costruzione, l’abisso. Leggere Kafka regolarmente per me equivale a sentire la nota senza cui nulla si muove. E leggere Kafka significa, anche, spogliarsi di ogni istinto retorico che giocoforza ci portiamo dietro. La stella polare della scrittura di L’anniversario era: via ogni retorica, via ogni compiacimento stilistico, ogni anche involontaria ricerca di un applauso alla fine di ogni riga. L’ho scritto di getto in venti giorni, e poi ne ho fatte 22 versioni nei tre anni successivi. Cercando appunto di spogliare, dare rigore, etica formale, a quello che c’era scritto nel foglio. E dunque a lavorare su quel mutamento formale di cui tu parli, e a farlo in maniera instancabile. Dove mi porterà successivamente non lo so. Porterà a nuove tappe di sicuro. In questa direzione? Non ne ho la più pallida idea, ma da qua dovevo passare.

Recentemente sono stati pubblicati una serie di opere in cui autori e autrici sentono il bisogno di fare i conti con (almeno) una delle figure genitoriali: si pensi a Il fuoco che ti porti dentro (2024) di Antonio Franchini, La casa del mago (2023) di Emanuele Trevi, a Splendi come vita (2021) e Dove non mi hai portata (2022) di Maria Grazia Calandrone, Leggenda privata (2017) di Michele Mari ma l’elenco potrebbe continuare all’indietro almeno fino a Vita e morte di un ingegnere (2012) di Edoardo Albinati. Quali sono le ragioni, a tuo avviso, del fiorire di tante opere del genere?

Credo che sia piuttosto che vi si presta più attenzione ora, che si creano filoni o mode. Poi il tempo rimetterà le cose nella loro complessità. Mi pare che il tema delle figure genitoriali sia davvero centrale nella storia della letteratura. Che ogni volta che si tocca il tema del sangue, l’arcaico della discendeza, scatti qualcosa nelle autrice e negli autori che fa produrre opere uniche. Senza andare a scomodare Medea, l’Odissea. O per l’appunto Kafka che è il capostipite contemporaneo delle rese dei conti letterarie coi genitori. Se penso solo al Novecento inoltrato, mi vengono in mente La cognizione del dolore di Gadda, Le parole tra noi leggere di Lalla Romano, il mai abbastanza ricordato Lettera a mia madre di Simenon, la sublime Supplica a mia madre di Pasolini, Lessico familiare di Natalia Ginzburg, o persino Memoriale di Paolo Volponi. Ma anche Lo straniero di Camus, ovviamente. Si potrebbe andare avanti all’infinito. Senza dire naturalmente di un libro come Il posto di Annie Ernaux, che tendiamo a considerare un libro degli ultimi anni, perché è degli ultimi anni la sua riscoperta, ma è del 1983. Per poi arrivare ai libri, tutti notevolissimi, fortissimi, che tu citi. Il punto, come dicevo poco sopra, è che il sangue connette all’arcaico, è una porta spalancata che mette in collegamento in un istante Sofocle e l’autrice e all’autore che ancora devono nascere. È un buon modo, per chi scrive, per sentire quelle forze arcane, potentissime, da cui ogni arte dovrebbe scaturire.

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