«Segno di grandezza e nobiltà». Giacomo Leopardi oltre gli automatismi didattici
Un autore che funziona
Al di là delle difficoltà quotidiane per chi continua a credere nell’insegnamento della letteratura italiana nella scuola secondaria, è sentire comune come alcuni autori siano ancora capaci della tenuta in classe, di un interesse diffuso, dell’agio di muoversi fra testi che per quanto alti siano ancora capaci di attivare quella comunità ermeneutica che dovrebbe essere obbiettivo di ogni proposta didattica. Se Dante è l’esempio più immediato (è plausibile affermare che pure nella peggiore classe, una qualche terzina, un personaggio o una storia dantesca possano avere fatto breccia), senz’altro anche Giacomo Leopardi può essere annoverato tra gli autori che continuerebbero a «funzionare» a scuola. Non è difficile indicare alcuni dei motivi di tale fortuna che dura nel tempo: a fronte di una tradizione che da Petrarca in poi aveva confinato le grandi domande a uso di un pubblico scelto, Leopardi è il primo a restituire democraticamente a tutte e tutti tali interrogativi, riportando un io storico al centro del testo, alle prese con spazi, tempi, persone impastate di realtà ma proprio per questo mutuabili per ognuno nel rispecchiamento personale delle questioni più universali. Se tale evidenza è valida per il lettore comune, lo è a maggior ragione per lo studente, o meglio, per l’adolescente che da sempre avverte nell’autore dei Canti una comunanza, una solidarietà che, per quanto possa essere decostruita o sottoposta alla critica più serrata, resta reale, operante, attuale. Eppure, proprio a ragione di tale spendibilità, Leopardi, come Dante del resto, presta il fianco a letture e declinazioni didattiche spesso poco sorvegliate, a partigianerie, attualizzazioni che peccano della mancanza di una storicizzazione adeguata e onesta.
Automatismi didattici
La più nota delle teorie di André Martinet è quel principio di economia secondo il quale l’essere umano minimizza il sistema del linguaggio, al fine di ottenere un miglior risultato funzionale a fronte del minore sforzo possibile. Va da sé che anche la trasmissione del sapere, ogni sua declinazione didattica, ma in senso più generale ogni approccio al processo conoscitivo faccia leva su tale principio: si pensi alle periodizzazioni, agli indici, alle definizioni, insomma a tutti gli strumenti che ci permettono di declinare l’universale nel particolare al fine di poterlo maneggiare. Ciò è evidente nel campo della didattica della letteratura attraverso quelle formule, spesso di antica origine, che sedimentano continuamente e che se da una parte facilitano il processo di apprendimento, dall’altra rischiano di mutarsi in barriere sempre più alte tra il soggetto e l’oggetto dell’apprendere. Chi non ha detto di Verga e dei suoi vinti facendo riferimento all’ “ideale dell’ostrica” o di Machiavelli citando in modo più o meno consapevole “il fine che giustifica i mezzi”, chi non ha indugiato sulla “società piramidale medievale” o sulla sua “tripartizione” di Adalberone di Laon, chi non ha ridotto l’intera teoria dell’umorismo pirandelliano al suo “sentimento e avvertimento”, chi in definitiva non ha raccontato la letteratura attraverso formule di certo funzionali per tornare a Martinet, ma che destoricizzandosi hanno corso il rischio, se non causato direttamente l’allontanamento dalla vera comprensione, a fronte di definizioni stereotipate, assunte acriticamente, dichiarate come orazioni definitorie. Cliché interpretativi che nel contesto d’aula mutano in veri e propri automatismi didattici, i quali, se non scardinati, o per lo meno gestiti a livello di consapevolezza, possono determinare lo svuotamento di senso degli autori, delle loro opere, così che Verga sarà semplicemente “quello delle ostriche”, Pirandello “quello delle maschere” e Leopardi, per l’appunto, “quello matto e disperatissimo, pessimista, prima storico e poi cosmico”.
Biografie matte e disperatissime
La prima batteria di automatismi didattici, nella declinazione scolastica della figura di Giacomo Leopardi, è banalmente ma incontrovertibilmente quella che insiste sulla sua biografia. È nei fatti superfluo, tanto è stata pervasiva la vulgata anche extrascolastica, ricordare il destino del poeta maledetto dalle proprie disgrazie fisiche, le famigerate due gobbe, la noia di Recanati e tutto l’armamentario del distorto immaginario leopardiano che per quanto anche il docente meno consapevole oggi sappia riconoscere, vanta una tradizione inossidabile agli anni e checché se ne dica tutt’ora verificabile nel sentire degli studenti e delle studentesse. Di certo, i testi ricorrenti nella manualistica che insistono sul racconto biografico (si pensi alla celebre lettera a Giordani del 30 aprile 1817, quello del «tutto il resto è noia», o al passo dello Zibaldone del 1820 in cui Leopardi fornisce la terribile descrizione della madre, così come quella splendida Lettera al padre ante diem che è la lettera a Monaldo del luglio 1819, per culminare ovviamente nella lettera a Pietro Giordani del 2 marzo 1818, quella appunto dello «studio matto e disperatissimo») per quanto mediati dal docente e pur nella loro aderenza a una condizione reale, si sono prestati e si prestano all’interiorizzazione da parte dello studente di un giovane Leopardi a una dimensione, quella appunto della sofferenza. Per scardinare questo, che a tutti gli effetti rischia di essere un automatismo didattico, basterebbe in prima battuta un utilizzo a più largo respiro più dei testi biografici. Si pensi alla bella e comunque nota lettera a Paolina da Pisa, nella quale emerge uno sguardo sereno sul presente, attaccamento alla famiglia, senso di rinascita che como noto determinerà la nuova stagione poetica con la composizione di tre nuovi canti (Lo Scherzo, Il risorgimento e A Silvia), a fronte di un silenzio poetico che durava da un paio d’anni:
Nel resto poi, Pisa è un misto di città grande e di città piccola, di cittadino e di villereccio, un misto così romantico, che non ho mai veduto altrettanto. A tutte le altre bellezze, si aggiunge la bella lingua. E poi vi si aggiunge che io, grazie a Dio, sto bene; che mangio con appetito; che ho una camera a ponente, che guarda sopra un grand’orto, con una grande apertura, tanto che si arriva a veder l’orizzonte, cosa di cui bisogna dimenticarsi in Firenze. La gente di casa è buona, i prezzi non grandi, cosa ottima per la mia borsa, la quale non è stata troppo contenta de’ Fiorentini: e non vorrei che credeste ch’io fossi venuto qua in posta, come vi ho detto, per fare lo splendido: ci sono venuto con una di queste piccole diligenze toscane, che fanno pagar meno che le vetture. Salutami tutti; dammi le nuove di tutti: bacia le mani per me a Babbo e a Mamma: e scrivimi, ma scrivimi presto, e dammi tutte le nuove che sai, prima di casa, poi di Recanati, poi della Marca. Dì a Carlo, se mi vuol sempre bene.
Ma si pensi anche a un documento meno noto e di certo non canonico come la lettera al fratello Carlo da Roma del 6 dicembre 1822, che nella sua schiettezza mostra un Leopardi che ha sempre avuto poca cittadinanza nella vulgata scolastica ma che avrebbe se non altro il merito di disincrostare certi ritratti a una dimensione:
Trattando, è così difficile il fermare una donna in Roma come in Recanati, anzi molto di più, a cagione dell’eccessiva frivolezza e dissipatezza di queste bestie femminine, che oltre di ciò non ispirano un interesse al mondo, sono piene d’ipocrisia, non amano altro che il girare e divertirsi non si sa come, non la danno (credetemi) se non con quelle infinite difficoltà che si provano negli altri paesi. Il tutto si riduce alle donne pubbliche, le quali trovo ora che sono molto più circospette d’una volta, e in ogni modo sono così pericolose come sapete.
Ma oltre al vitale e necessario rinnovamento del racconto della biografia attraverso una ricognizione permanente della grande mole di testi, a un utilizzo più oculato dell’epistolario e dello Zibaldone (accessibili oggi anche sugli originali, grazie al capitale lavoro di digitalizzaizone delle “Carte Leopardi” portato a termine dalla Biblioteca Nazionale di Napoli, che apre a una miriade di nuove possibilità nella gestione della lezione in classe), un modo per rinnovare tale didàssi potrebbe essere quello di spostare il peso anche su aspetti nella tradizione scolastica più marginali ma che in una declinazione didattica contemporanea si rivestono di potenzialità nuove. Il riferimento è al racconto della partecipazione alle polemiche della fine degli anni Dieci, che se didatticamente sono state sempre declinate nelle asfittiche e automatiche categorie del classicismo/anticlassicismo, della posizione particolare del giovane Leopardi, oggi potrebbero essere approcciate nel racconto scolastico ponendo maggiore attenzione sulla vitalità di quel giovane, sulla veemenza con la quale si inseriva in uno dei dibattiti culturali più significativi del tempo (si pensi a passaggi come quella «scintilla celeste, e impulso sovraumano vuolsi a fare un sommo poeta, non studio di autori, e disaminamento di gusti stranieri» con la quale rivendicava la propria posizione nella lettera in risposta a Madame de Staël), insomma tutt’altro che un recluso dei libri, appiattito dal tedium vitae dell’esclusione, una sorta di hikikomori ottocentesco, quanto un giovane che pur nella penuria della rete comunicativa era riuscito a fare risuonare la propria voce tanto in alto da non potere essere ignorata.
Tassonomie e materialismi
Ma è ovviamente nella questione del pessimismo, quella inaugurata inconsapevolmente per il peso che avrebbe avuto da Bonaventura Zumbini ben oltre un secolo fa con la celebre bipartizione in “pessimismo storico” e poi “cosmico”, quella che avrebbe generato uno dei refrain più ripetuti nella scuola italiana dagli studenti di ogni latitudine dello stivale («nel pessimismo storico la natura è benigna, nel pessimismo cosmico è maligna»), è proprio in questa che è una delle etichette più inattaccabili della vulgata leopardiana che si annida forse il più ingombrante automatismo didattico che andrebbe finalmente aggredito e superato. Se è indubbia la necessità di marcare un’evoluzione del pensiero di Leopardi, di scandirne in modo funzionale la progressione (e non del pessimismo, termine del tutto assente nei testi leopardiani) e che evidentemente riguarda le questioni poste a tema anche da Zumbini, appare oramai imprescindibile, anche a livello didattico un approccio più complesso e meno dicotomico al rapporto tra ragione e natura, tra felicità e illusioni che sono poi i veri temi di questa annosa e abusata questione. Per quanto riguarda la demistificazione di tali assoluti, sarebbe sufficiente una rapida verifica all’interno di quel cantiere a cielo aperto che è lo Zibaldone, nel quale potremmo mostrare in classe come passaggi pre 1824, ovvero la data periodizzante del presunto passaggio dalla storia al cosmo, contengano già elementi antagonisti alla Natura. Si veda ad esempio Zibaldone 1611-1612, ovvero un brano del 1821, ovvero in presunto regime di «pessimismo storico» ovvero in presunta condizione di «natura benigna», nel quale quando Leopardi così lamenta:
Or dico io: perché la perfezione, cioè il vero modo di essere del solo genere umano fu abbandonato dalla natura al caso? È questo un privilegio, o un immenso svantaggio? [1612] Egli è certo che le facoltà del piú privilegiato individuo umano non bastano di gran lunga a condurlo a quella che si chiama perfezione. Dunque la natura non ha provveduto alla perfezione, cioè al ben essere dell’uomo.
o di contro, Zibaldone 4096, ovvero un brano del 1824, ovvero già in presunto regime di «pessimismo cosmico» ovvero in presunta condizione di «natura maligna», nel quale quando Leopardi così tesse la benevolenza della stessa per certe popolazioni di altre latitudini:
Notisi ora che in verità questi erano i climi destinati dalla natura alla specie umana, come si dimostra quanto all’oriente, dalle antiche tradizioni che provano l’origine del genere umano essere stata in quei paesi, secondo il detto da me altrove in piú luoghi, e quanto ai climi assai caldi in generale, dall’essere essi i soli in cui l’uomo possa viver nudo, come la natura lo ha posto, e senza altri soccorsi contro gli elementi, di cui la natura l’ha lasciato sfornitissimo, e che in altri paesi gli sono di prima necessità e non pochi né facili a procacciare, né insegnati dalla natura, ma bisognosi di molte esperienze, casi ec.
Ma la strada più diretta per rendere giustizia didatticamente al pensiero leopardiano e alla sua evoluzione, sarebbe forse quella di prendere realmente in carico la questione del materialismo leopardiano, della sua genealogia e, in merito a questo contributo, avanzare una possibile interlocuzione con una fonte rinnovata di cui ora diremo. Portare in classe un discorso serio e motivato sul materialismo leopardiano, accostare senza infingimenti un gruppo di adolescenti, con tutte le fragilità emotive del caso (perché anche di questo di tratta), al senso profondo degli abissi di lucidità e di prossimità all’«arido vero», all’«a me la vita è male» di cui la poesia di Leopardi è viatico, non è onere da poco. Ma se esiste un modo per giustificare il percorso di tale spiaggia ultima della consapevolezza poetica, quello è forse il ricostruire, anche in classe, il filo rosso che lega Leopardi ai maestri che l’hanno preceduto in tal senso (da Tasso a Machiavelli, da Galileo a Foscolo), e nel nostro caso, a quello che può essere a diritto considerato il capostipite di questa genìa, ovvero Lucrezio.
Tornare alla natura delle cose: Leopardi e Milo De Angelis
In questo senso potrebbe essere una grande e recente opportunità la splendida e recente traduzione di Milo de Angelis del De Rerum Natura (Mondadori, 2022), la quale, nella sua fedele perimetrazione poetica del verso lucreziano, può fornire al docente i calchi di alcuni dei passi più importanti della lirica leopardiana, giustificarli, inquadrali in un orizzonte più ampio. Si vedano ad esempio come celebri e canonici versi del Canto notturno come questi, noti a chiunque:
Nasce l’uomo a fatica,
Ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
Per prima cosa; e in sul principio stesso
La madre e il genitore
Il prende a consolar dell’esser nato.
dialoghino profondamente con questi versi, splendidamente tradotti da De Angelis, del Libro V (222-227) del De Rerum Natura:
E il bambino? È come un naufrago gettato su una spiaggia
dalla furia delle onde. Resta lì per terra, nudo, senza una parola,
non sa fare nulla da solo, ha bisogno di tutto. Appena la natura
lo strappa tra mille sofferenze dal grembo materno e lo getta
sulle spiagge di luce, riempie l’aria con le sue urla disperate,
come è giusto che sia per uno destinato a sventure di ogni genere.
oppure come un pensiero altrettanto noto, e spesso abusato didatticamente, come il LXVIII:
Il non poter essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così, della terra intera; considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio; e sempre accusare le cose d’insufficienza e di nullità, e patire mancamento e vòto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana.
recuperi tutta la propria secolare tradizione, se accostato a quest’altro passo del Libro III (1053-1059) dell’opera di Lucrezio:
D’ altra parte gli uomini sentono di avere nel profondo
del loro cuore un peso che li schiaccia, un peso estenuante,
ma non riescono a capire il motivo di questo tormento,
di questo macigno maledetto che continua a opprimerli.
Se gli uomini lo capissero, non vivrebbero in questo modo,
ignorando per lo più quello che vogliono, continuando
a cambiare luogo, come se così potessero disfarsi del loro peso.
Infine, come proprio la già citata celebre sentenza del Canto notturno:
Questo io conosco e sento,
Che degli eterni giri,
Che dell’esser mio frale,
Qualche bene o contento
Avrà fors’altri; a me la vita è male.
riacquisisca spessore, possibilità di essere restituita alla propria sede filosofica naturale, se accostata a questo altro memorabile passo del Libro III del De Rerum Natura:
Così ciascuno tenta di fuggire da se stesso. Ma non può farlo,
e a questo “se stesso” resta attaccato suo malgrado e lo odia:
è un malato che non conosce il motivo del suo male.
Se lo vedesse con chiarezza lascerebbe tutto il resto
e si impegnerebbe innanzitutto a conoscere la natura delle cose:
c’è di mezzo l’eternità, non il breve spazio di un’ora,
quell’eternità nella quale i mortali dovranno trascorrere
tutto il tempo che resta da vivere dopo la loro morte.
Capire per comprendere, commentare per interpretare
L’esigenza di un rapporto onesto con il dato storico del testo, il rispetto della genealogia dell’opera, lo sforzo del commento fondato, anche a scuola, anche per un autore capitale per tutti come Giacomo Leopardi, nasce dunque dall’intento di salvaguardarne il valore irrinunciabile, quella capacità ancora oggi viva di mettere chiunque in tensione con un orizzonte di senso. Al di là delle sterili attualizzazioni, restiamo convinti che non ci sia possibilità dell’opzione democratica dell’interpretazione senza un commento che tenga conto dell’identità storica di un testo, che non sia possibile la comprensione, ovvero il prendere con sé quel patrimonio, senza conoscenza, senza lo sforzo necessario ed entusiasmante di provare a fondare nel passato per poi fare rifrangere nell’oggi, a mezzo di tutti gli strumenti critici di cui disponiamo e che l’insegnante condivide e mette a sistema insieme alla classe, quegli stessi strumenti che sono il pane quotidiano della scuola che vogliamo e difendiamo.
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Caporedattore
Roberto Contu
Editore
G.B. Palumbo Editore
Interrogarsi sul significato e sulle conseguenze intellettuali, morali e civili della ricezione di Leopardi da parte dei lettori italiani (e, in particolare, dei più giovani) è senz’altro opportuno. Sennonché, fatto salvo il valore oggettivo di Leopardi, fissato per altro con lapidaria concisione dal Giordani, suo grande amico, nella icastica definizione del Recanatese come “grande filologo, grande filosofo, grande poeta” (valore che è cosa ben diversa da un certo leopardismo d’accatto, vacuamente solipsista e miseramente autoreferenziale), ritengo che il nostro paese sarebbe migliore se il grande poeta nazionale, il poeta che tutti amano dopo e nonostante la scuola, fosse (anche) Manzoni e non (soltanto) Leopardi. Basta, infatti, guardarsi attorno per capire, da come i nostri connazionali si vestono, si divertono, comunicano fra di loro, che il mondo umano e sociale in mezzo a cui viviamo è affetto da una crescente immaturità (in cui forse si riflette ciò che Galli Della Loggia da tempo viene tematizzando come il rapporto difficile, problematico e irrisolto fra gli Italiani e la modernità). Sembra così che, a mano a mano che l’età media della popolazione sale, correlativamente scenda la media dell’età psicologica e affettiva. È, dunque, difficile non mettere in rapporto certi fenomeni di sociologia letteraria, come il culto di Leopardi, con il detto prolungamento della condizione adolescenziale all’interno della nostra società. Amare ‘don Lisander’ (e amarlo come e più di Leopardi) significa, allora, cogliere nella sua prosa, nei suoi versi, nella sua stessa biografia, il nucleo di una “cultura della realtà” che, come ha mostrato, ad esempio, Luigi Russo nel suo splendido commento ai “Promessi Sposi”, va ben oltre le finalità apologetiche e il carattere conservatore della ideologia politico-religiosa del Manzoni e parla profondamente alla ragione e alla sensibilità di ogni lettore. Significa, in altri termini, anteporre il valore conoscitivo della poesia, l’intelligenza degli altri e della Storia all’autocommiserazione, al piangersi addosso, alla pietà per se stessi; significa anteporre al sentimentalismo e all’intimismo quel sano realismo lombardo che ancor oggi può costituire un prezioso contributo, di origine soprattutto illuminista, alla ricostruzione di una corretta identità nazionale.
Ottimo articolo. Purtroppo anche il film di cui si riporta immagine è del tutto subalterno a quell’immagine che l’articolo giustamente vuole seppellire.
Gentile Eros Barone, sono d’accordo con lei nella difesa dell’ importanza di Manzoni nella scuola dell’oggi. Difendo il valore del romanzo, ma anche dell’importanza della lettura degli scritti teorici. Nella mia prassi d’aula e di lavoro collegiale ho ottenuto e sperimentato l’opportunità di anticipare al primo anno almeno la lettura dei primi otto capitoli del romanzo, in modo da potere, nel secondo anno, spingermi realisticamente fino alla conclusione. Sul come farlo occorrerebbe un altro articolo che a questo punto, grazie anche al suo commento, sono invogliato a scrivere. Un caro saluto!
Gentile Andrea Masala, senza girarci attorno: ha ragione lei. Ho scelto io la foto, perché concentrato sullo sguardo del frame che mi pareva un buon corrispettivo (lo sguardo un po’ perplesso) del tono dell’articolo. Ma a pensarci adesso, dopo il suo commento, anche io concordo che pur nella bonta specie della prima parte del film, la resa del personaggio, specie nella parte fiorentina, sfiori spesso la stereotipia. Quindi ha ragione lei, punto. Sarei tentato di fare cambiare la foto, ma mi pare invece che continuare a mostrare il mio errore confermi come anche a discutere di automatismi didattici, si possa scivolare per altrettanti automatismi. Grazie e un caro saluto!
Penso che sia un errore leggere i Promessi sposi nei primi due anni delle superiori. Nella mia ‘ ormai conclusa- lunga esperienza didattica, nel liceo sperimentale Buonarroti di Pisa, avevamo di comune accordo spostato la lettura dei Promessi sposi al quarto anno. In questo modo potevamo nella lettura mettere meglio a fuoco i bellissimi capitoli storici, evidenziare il pensiero illuministico e il riferimento alla Rivoluzione francese, attuare confronti decisivi con il Candido di Voltaire, con Ivanhoe di W. Scott etc. Questa scelta mi è sempre sembrata efficace e ha permesso agli studenti di affrontare questa lettura impegnativa con strumenti e presupposti culturali più adeguati.