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diretto da Romano Luperini

L’insegnante è collettivo (il consiglio, il dipartimento, il collegio)

Un lavoro collettivo

L’insegnante è un lavoro collettivo, e la prima forma della sua pluralità è la relazione nella classe: su questo, fino a quando la scuola sarà tale, non ci sarebbe da aggiungere un solo iota o un solo trattino. Appena fuori dalla porta dell’aula, ci sono tre altre forme – assai in crisi – sulle quali vorrei provare a dire qualcosa: il consiglio di classe, il dipartimento, il collegio docenti. Ma non prima di una premessa, che già contiene parte dell’assunto di questo intervento. Nell’ultimo decennio, la discussione sul mondo della scuola è tra quelle della vita pubblica che più di tutte hanno messo radici e creato foreste in rete e social. Se da una parte ciò ha aperto opportunità positive di cui tutti abbiamo fatto e facciamo continuamente esperienza, dall’altra ha creato uno spazio collettivo che rischia di porsi come alternativo a quello reale delle proprie comunità lavorative. Provo a dirlo meglio. Per l’effetto modellizzante progressivo delle bolle che ognuno abita, e che a un certo punto vanno configurandosi come il parco ideale dei migliori interlocutori possibili, dei migliori gruppi di confronto possibili e anche dei migliori antagonisti possibili, da un certo punto in poi – faccio riferimento al mio caso per trasparenza – io per primo ho iniziato a percepire il rischio della mia rete digitale di rapporti non solo come un naturale arricchimento dei miei corridoi reali, della mia aula insegnanti reale, della mia scuola reale, ma come un mondo parallelo e di certo più corrispondente. Se insomma durante il pomeriggio in rete mi ritrovo nel consiglio perfetto dove i componenti sono il Daniele o la Katia di turno che mi corrispondono, oppure a discutere di magnifiche sorti nel gruppo o nel post cucitomi addosso, poi il ritorno ai Mortillaro veri del mio consiglio di classe in presenza, o alle Silvani del mio dipartimento pomeridiano, fino ai nostri collegi, il mio, il tuo, potrebbe svelare un panorama ben più deprimente della scuola della rete. Ma se ciò che accade in aula legittimamente si nutre oggi anche degli stimoli che mi hanno dato la Linda o l’Emanuela di turno nella rete, così come dello spunto colto nel gruppo social più bello, va da sé che il luogo della prassi resta il consiglio, resta il dipartimento, resta il collegio, quelli veri, quello del collega che sopporto poco e con il quale la scorsa settimana mi sono innervosito per un ritardo al cambio dell’ora: sì, quei colleghi che hai bene in mente, che al solo pensiero legittimamente potrebbero fare cessare seduta stante anche la mia scrittura e la tua lettura di questo pezzo. Eppure, e questo mi pare il primo punto, la scuola non è una bolla: la scuola non sta là dentro, la scuola è qui, in questa aula insegnanti dove ora sto scrivendo, nel consiglio di oggi che inizia tra venti minuti, il mio, il tuo, il nostro.

Oltre il morbo di Keating: il consiglio di classe

Già, il consiglio di classe. In fondo, non ha mai goduto di gran considerazione, ché è vero, la figura del maestro, dell’insegnante, gratta gratta, continuiamo a considerarla monade, a dosi massicce di iniezioni simboliche, come nel caso di chi come me ha deciso di insegnare alla fine degli anni Novanta e – volente o nolente – una passata influenzale del morbo di Keating, lieve o fatale che fosse, se l’è dovuta fare. E allora giù, tutti nell’inconscio più o meno manifesto a volere fare saltare gli studenti sui banchi, ma peggio ancora a sbertucciare quello dell’ora precedente alla nostra che l’avrebbe fatta bellamente leggere quell’introduzione che noi avremmo fatto maieuticamente strappare. Eppure, e questo stando a scuola per un po’ lo si dovrebbe capire, se non altro per l’evidenza del dato di realtà, da soli non si educa – figuriamoci salvare – proprio nessuno. Accade invece, certo che accade, che quella macchina spesso percepita come bradipesca e ammorbante ovvero il consiglio di classe, se si andasse oltre il «capitano, oh mio capitano», spesso e volentieri ci rivelerebbe come davvero per educare sia necessario non tanto il villaggio, ma almeno un gruppo di insegnanti, ovvero il consiglio di classe, che lavori insieme, in direzione comune. Che tale affermazione susciti i pensieri e i ricordi peggiori negli e nelle insegnanti mi parrebbe conferma della centralità della prassi collettiva che il consiglio incarna. Lavorare insieme è difficile, ma proprio tale complessità, se curvata con responsabilità intellettuale e umana verso un fine comune, mi pare l’unica, proprio perché collettiva e democratica, in grado di corrispondere l’altrettanto complessa realtà di ogni singolo alunno e alunna. Penso a un paio di situazioni riguardanti alunni difficili, vissute quest’anno con il mio consiglio, che hanno generato tensioni, ma che alla fine credo siano state indirizzate bene solo per il pensiero e l’apporto di tutti i componenti dello stesso, al netto del dovuto e naturale lavoro di ogni singolo e singola docente, sì, anche dei Mortillaro e della Silvani che in questo momento ti vengono in mente e mi vengono in mente, fosse anche per il loro essersi messi di traverso e comunque di avere fatto deflagrare alcune contraddizioni. Perché, e questo mi pare il secondo punto e lo ribadisco: prima del villaggio, ci vuole anzitutto un consiglio di classe per educare.

Il luogo del mandato intellettuale: il dipartimento

Se il consiglio è il luogo vitale della prima presa in carico del patto educativo, dei nomi e dei volti che ci sono dentro, il dipartimento dovrebbe essere quello del patto culturale. Da questo punto di vista credo che la scuola secondaria di primo e secondo grado (mi pare che all’infanzia e nella primaria ci siano più consapevolezza e abitudine alla progettazione comune) occorrerebbe davvero un passo diverso, ossia una visione davvero più ampia di un luogo che non può e non deve essere solo quello dei calcoli dei parziali delle griglie di valutazione o dei moduli licenziati in mezz’ora. Esistono dipartimenti nei quali si riesce ancora a discutere di come gestire il vituperato programma (sì, quello), della scelta educativa importante – sì educativa – sul come e quando fare Leopardi, su quali siano le esigenze formative interne e nel caso avviarle, come rinforzare i percorsi, curare i recuperi, insomma, che impronta culturale dare alle prassi didattiche, pur nella libertà individuale d’insegnamento, all’interno di una cornice di senso condivisa e discussa. Se troppo spesso il ritornello è parso essere «oddio, il dipartimento, ore a passare carte inutili», resto convinto che l’esigenza di custodia e risignificazione permanente del mandato culturale di noi insegnanti, al netto dei percorsi individuali di studio e formazione personali, non possa non incardinarsi anche nel dipartimento disciplinare. Penso a una recente discussione in merito a una adozione nel mio dipartimento, che ha creato tensioni e dialettica, ma che ha dato modo a tutte e tutti di interrogarci sullo statuto di approcci critici interni alla nostra scuola; penso anche a momenti formativi discussi e concordati; penso all’esperienza a mio avviso splendida e, certo ambiziosa per il grado di responsabilità che richiede, della formazione tra pari tra docenti della stessa scuola. Traslando una delle eredità di un maestro comune, se la classe è per vocazione «comunità ermeneutica», anche il dipartimento dovrebbe esserlo, a un livello intimamente comunicante con la stessa, proprio perché il luogo dove si danno coordinate di un progetto culturale che, nel rispetto delle individualità, dovrebbe navigare in direzione comune o per lo meno condivisa. Perché, e questo mi pare il terzo punto, non siamo monadi e anche il nostro statuto intellettuale di insegnanti si nutre della dimensione collettiva più vera e influente di tutte, ovvero quella con i nostri colleghi di disciplina del nostro dipartimento.

La democrazia, ovvero il Collegio docenti

Se infine esiste un luogo che nell’immaginario di tutti, docenti compresi, pare essere il monumento dello scolastico sfacelo, quello è senz’altro il collegio docenti. Peccato, non è davvero una bella notizia. A rischio della retorica che presta facilmente il fianco mi verrebbe da insistere su come il collegio sia per definizione il luogo della democrazia, e se la scuola dovrebbe essere fatta della materia di cui è fatta la democrazia, il collegio ne è sostanza prima. Oggi però mi pare che l’insofferenza, anche interna dei docenti e delle docenti, la disabitudine alla collegialità, la tentazione della delega in bianco al fine di recuperare minuti per il proprio ritiro privato, siano davvero segni di un tempo difficile. Mi ha colpito qualche giorno fa un commento del caro amico Stefano Rossetti, lo cito per intero:

Nella scuola ci sono cose che, anche senza assumere valore di verità, sono sintomi di un cambiamento profondo. Secondo me, di una grave perdita. Nei collegi docenti, ad esempio, l’abitudine di tante colleghe e colleghi di parlare alla Dirigenza e non al Collegio. In un incontro di cento persone, si parla dal proprio posto per farsi sentire da chi dirige, non dalle persone che insieme formano il gruppo che discute e decide. La schiena contro la fronte. Il sussurro contro la voce. Il singolo contro la comunità. Il privato contro il pubblico. Magari inconsapevolmente.

Certo, spesso certi collegi sono stati un’evidenza di narcisismi, dinamiche storte, percezione di perdita di tempo assoluta, fatica e inerzia totale. Eppure io dico, anche nel caso peggiore che possa venire in mente: né più né meno ciò di cui è impastata la relazione di un gruppo di lavoro importante e che per questo non dovrebbe scandalizzare più di troppo. Perché poi il punto è questo, quando ci siamo dimenticati, in nome di un efficientismo rapido se non istantaneo, che esercitare la democrazia passa anche attraverso la difficoltà di un piccolo popolo che prova a praticarla? Quando abbiamo dimenticato la storia sociale e politica che ha portato a dire che la vogliamo quella fatica, perché è l’unico viatico per una società democratica, l’unica strada che ci preserva dall’imposizione della voce di uno solo? Perché poi invece, quando quel popolo decide di discutere, di votare, sì, di votare, anche facendo le sette di sera, anche mettendo in minoranza chi detta la linea, la scuola diventa vera, le decisioni rientrano in una cornice di senso, la democrazia è di tutti. E questo mi pare davvero il quarto e fondamentale punto: sì, il collegio è per un certo mondo anacronismo puro, perché inchioda alla responsabilità del decidere insieme, che è lento, è macchinoso, ma è democratico, è libero.

L’ultimo consorzio

È vero, la dimensione della collegialità oggi è profondamente in crisi: nella scuola ciò è di una evidenza assoluta. Interrogarsi sul perché mi pare una domanda importante che riguarda, lo dico con convinzione, non solo il mondo scolastico ma il nostro tempo tutto. Il fatto è che la scuola rappresenta un’anomalia profonda: si tratta forse di uno dei pochi consorzi umani all’interno del quale la collegialità è costitutiva, al netto dei progressivi tentativi di smantellare tale identità plurale e democratica. Ciò non avviene in altri settori lavorativi dove il mercato ha progressivamente ratificato una gerarchizzazione naturale, mi pare non avvenga nell’accademia, dove le dinamiche di potere anche dal di fuori paiono essere preponderanti non fosse altro per la verticalità dei profili. Non avviene qui sulla rete, dove ognuno di noi continua a pronunciare il proprio personalissimo «io so» dalla caverna dello schermo, in attesa dell’eco digitale degli altri. A scuola, piaccia o no, una volta preso servizio, tutti i docenti dovrebbero essere, anzi, sono sullo stesso livello, tutti i docenti concorrono parimenti alla medesima funzione: tutti propongono, votano, ratificano, dall’ultimo precario, al decano alle soglie della pensione. Questo che per qualcuno, nessuno escluso, in certi momenti può apparire come il dato più frustrante («ma possibile che quello che faccio io debba valere quanto quello che fa e soprattutto non fa lui e lei?») è però il segno, per altri lo stigma, di un’istituzione, quella scolastica, che nonostante tutto è incardinata ancora su una struttura reale, se non ideale, di tipo democratico. Ecco, questo ci fa un gran bene, mi fa un gran bene. Considero ciò, nella contezza fin troppo comoda delle criticità, dei continui attacchi, delle percezioni personali (molti docenti non si sentono parte di un corpo democratico, a partire dal proprio istituto), un valore irrinunciabile, un aggregato di anticorpi necessari per un futuro degno, il senso stesso di quello che ogni mattina, ogni anno, per una vita lavorativa intera, facciamo a scuola.

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