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Navi nel deserto di Luigi Weber: un esercizio di lettura

Navi nel deserto, romanzo d’esordio di Luigi Weber, sembrerebbe appartenere a un genere di narrativa (distopica, postapocalittica, guerresca, fantasy, e chi più ne sa più ne aggiunga) per il quale non nutro simpatia e che frequento molto di rado; non avrei dunque alcuna competenza per parlarne se non fosse che quell’appartenenza è più che altro di facciata: Weber usa i topoi del genere per collocare la sua storia in una condizione estrema – alla fine o all’origine della civiltà – in modo da renderne subito riconoscibile l’oltranzismo e giocare con esso una partita che non sta sul piano dell’avventura ma su quello della cultura e dell’etica.

La modalità scelta dall’autore per condurre la partita è l’ambiguità, perfino il bluff; per quanto mi riguarda e al contrario dell’autore, giocherò invece a carte scoperte. Dichiaro quindi in apertura che, superato il preconcetto nei riguardi del genere di presunta appartenenza, il romanzo mi è molto piaciuto. 

Prima di tutto ne ammiro la struttura, che trovo di solito carente o deludente nella narrativa contemporanea e che qui, al contrario, è salda sebbene complessa e difficile da gestire: bisogna infatti destreggiarsi tra continui andirivieni temporali e differenti dislocazioni spaziali; gli avvenimenti avvengono spesso in luoghi diversi ma in contemporanea e vengono raccontati quasi in parallelo, con una tecnica simile a quella cinematografica; i personaggi sono numerosi e fra loro si verificano frequenti sovrapposizioni e intenzionali scambi di identità; gli argomenti affrontati sono complessi e variano dall’idea di male al concetto di onore/disonore, dalle riflessioni sull’amicizia e l’amore all’inquietante tema del sosia, dai sogni utopici alla polemica politica, con frequenti allusioni (o che tali sembrano a me) a contingenze attuali, presumibilmente note a tutti i lettori. 

La lingua del romanzo è raffinata, variegata; con sicurezza professionale e a volte con intenzioni ludiche (penso al racconto, di sapore boccaccesco, sull’iniziazione sessuale di una ragazzina cinica) alterna realismo (la dettagliata descrizione delle navi e di alcune abitazioni delle Oasi e delle Rocche) e prosa lirica (il desolato paesaggio che insabbia città dove – forse – un tempo la civiltà esisteva), intreccia mimesi del parlato con lingue letterarie e artificiose, avvicenda la narrazione in prima e in terza persona, accosta dialoghi serrati e flusso di coscienza. 

Con un tipo di scrittura tanto complesso e polimorfico il rischio della sgangheratezza sta sempre in agguato, ma Weber riesce a controllare saldamente la struttura e il linguaggio, i temi e le psicologie dei personaggi; e sono pochi i cedimenti. Il principale a mio avviso sta nella rappresentazione delle figure femminili, che sono in prevalenza stereotipi e non riescono a trasformare le peculiarità simboliche in densità psichica e complessità di sfaccettature, come invece avviene per i personaggi maschili. Le donne, qui, sono oggetti sessuali ridotti a cose, violentemente abusate fino all’assassinio; oppure sfocate emanazioni della mentalità mercantile, come le cittadine che abitano le Rocche; oppure indecifrabili portatrici di chimere, come le ragazze delle Oasi. Fra queste ultime si trova la protagonista femminile, Freya, che sembra agìta da un forsennato autolesionismo del quale non viene fornita alcuna spiegazione restando quindi una specie di maschera, indossata per motivi che restano indefiniti.

Potente, al contrario, la personificazione del Male nel personaggio di Schomberg. E qui bisogna introdurre un elemento importante per decifrare tutto il romanzo e comprenderne e apprezzarne la sostanza: parlo della ricca tessitura di rimandi letterari sulla cui base e con i cui elementi la narrazione è realizzata. Non si tratta di riferimenti formali, come fossero citazioni incastonate per arricchire la prosa, per farne un uso estetizzante e superficiale o un’esibizione erudita; la tradizione letteraria nella quale Weber colloca il suo romanzo è il risultato di un intenso dialogo con i temi e le forme dei romanzieri che gli sono cari, è una specie di corpo a corpo che restituisce vitalità anche fisica al patrimonio culturale di cui la sua scrittura si nutre. Protagonista di questa specie d’incarnazione è Joseph Conrad; è dunque pressoché inevitabile che il vero protagonista e motore delle azioni, in Navi nel deserto, sia Schomberg, il diabolico capo dei crudelissimi Pirati. Schomberg che escogita feroci torture e dà la caccia al suo nemico con l’unica prospettiva di infliggergli le più spaventose; Schomberg che è capace di adottare modi eleganti e parole forbite per stornare i sospetti e crearsi alleanze, con la segreta intenzione di tradirle appena avrà ottenuto i suoi scopi; Schomberg che desidera solo dispensare morte e distruzione, Schomberg è il Male assoluto, l’equivalente di Kurtz in Cuore di tenebra. Ma mentre nel capolavoro di Conrad le gesta orribili del protagonista vengono accennate, mai rappresentate (e il mistero le amplifica…), le torture e le crudeltà immotivate compiute da Schomberg per puro gusto sadico vengono raccontate in dettaglio, perfino in modi esagerati, alla Tarantino; e mentre Kurtz non parla mai (ad eccezione del disperato “Orrore! Orrore!” mormorato in punto di morte), Schomberg si esprime con frasi eleganti e nella parte finale del romanzo pronuncia lunghi monologhi, dove al consueto riferimento a Conrad si mescola un confronto ravvicinato con il Dostoevskij dei Karamazov e dei Demoni e, mi pare, anche con certe parti di Melville; il risultato è di grande potenza.

Voglio sottolineare un altro importante punto di merito del romanzo: in controtendenza con le soluzioni che, se non mi sbaglio, prevalgono nella narrativa contemporanea italiana, e cioè una certa sottovalutazione delle conclusioni, spesso tirate via come a testimoniare caduta d’interesse o smarrimento dell’autore, ho trovato geniale la conclusione di Navi nel deserto: lo svelamento del personaggio che parla in prima persona e sa fare il male perché l’ha imparato da Schomberg e l’ha lungamente praticato, l’ultima frase che chiude il romanzo (“Io sono Kurtz!”) è deflagrante – ovviamente se il lettore riconosce l’identità di Kurtz; e allora sarà in grado di sapere che la narrazione non si chiude, anzi si riapre, e mirabilmente, su questo nome. Conrad come l’alfa e l’omega. 

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