Perché leggere le “Novelle rusticane” di Giovanni Verga
Premessa necessaria
L’Università di Catania, insieme alla Fondazione Verga e alle associazioni disciplinari ADI-SD, ASLI Scuola, MOD Scuola, ha recentemente promosso e realizzato il corso di formazione per docenti della secondaria Le “parole” e le “cose”. Rileggere Verga oggi. Il corso prevedeva quattro relazioni in plenaria (tra le altre, quella di Romano Luperini) e altrettanti momenti laboratoriali, a scelta dei partecipanti, dedicati al cosiddetto “Verga maggiore” (Vita dei campi, I Malavoglia, Novelle rusticane, Mastro don Gesualdo). Le iscrizioni al corso hanno superato il centinaio; ma coloro che hanno scelto di partecipare al laboratorio sulle Rusticane sono stati soltanto quindici, e fra loro una dottoranda e una laureanda. Gli altri partecipanti hanno affollato, quasi in egual numero, i restanti tre laboratori. La cosa fa riflettere.
La seconda raccolta di novelle verghiane (1883) è un corpus imponente e contiene opere preziose[1] che anche in aula si presterebbero a percorsi di ogni tipo – tematici, linguistici, strutturali, antropologici e oltre; ma dalle aule è tenuta lontana. Se, tra le novelle di Vita dei campi (1880), onnipresenti sui manuali scolastici sono Rosso Malpelo, Fantasticheria, La lupa, non mancano tuttavia Nedda, Jeli il pastore, L’amante di Gramigna e Cavalleria rusticana. Insomma, quasi un en plein, a fronte della ben più modesta rappresentanza delle Rusticane, che, di fatto, si limita quasi esclusivamente a due novelle: Libertà e La roba, e per di più quasi sempre con qualche strumentalizzazione – la prima troppo profondamente “compromessa” con un segmento della storia nazionale (l’impresa garibaldina e la realizzazione dell’Unità) ineludibile nel tracciato scolastico, la seconda ancora adesso ritenuta un’anticipazione del Mastro.
Non è questa la sede per “fare giustizia”; la raccolta verghiana, peraltro, è talmente importante da non aver bisogno di interventi apologetici, tanto più in presenza di studi di spessore (di alcuni di essi si è ripetutamente parlato tra le pagine di questo blog, per esempio qui, qui e qui). Si tenterà semplicemente di indicare tre ragioni per invitare i e le docenti a integrare autonomamente, se necessario, il repertorio delle Rusticane presente sui manuali, per non negare alle proprie classi una esperienza ermeneutica densa e, per certi versi, sorprendente.
Perché educano lo sguardo a riconoscere e indagare il male
Comunemente si dice che Verga (ma lo si dice anche di tanti scrittori e scrittrici che hanno dedicato alla narrativa breve energie consistenti, in testa a tutti lo si dice di Pirandello) scrivesse novelle per fare fronte ai problemi economici; e soprattutto lo si dice proprio delle Rusticane (più che delle novelle di Vita dei campi) che seguono l’apparizione di un romanzo spiazzante e geniale, I Malavoglia (1881), che non aveva avuto grande successo di pubblico e aveva pertanto venduto pochissimo. E sia: i carteggi confermano che Verga non fosse estraneo alle seduzioni e alle necessità del denaro; e le novelle si vendevano bene, soprattutto si vendevano più facilmente. Tuttavia quello di Verga non è un prodotto a buon mercato: nemmeno stretto dalle esigenze economiche lo scrittore rinuncia a lavorare sulla qualità (di fatto, a parte una o due novelle più deboli, le rimanenti sono solidissime e taglienti) e rifiuta quindi di ripetere la ricetta vincente e larmoyant della Capinera o di Nedda come di riproporre quelle atmosfere borghesi che andava indagando con Il marito di Elena.
Il titolo della raccolta è – quello, sì – piuttosto commerciale: la Sicilia contadina e arretrata suscitava orrore e commozione e garantiva, a lettura terminata, la facile catarsi liberatoria dei benpensanti, gratificati, come anime belle, anche semplicemente dall’aver provato orrore o commozione. In realtà quel titolo è poco più di uno specchietto per le allodole, giacché Verga osserva il contesto rurale con uno sguardo né pietoso né sprezzante né tanto meno documentario. Quel contesto rappresenta piuttosto una sorta di grado zero delle relazioni umane, sociali ed economiche (e quindi politiche), non così diverse né distanti da quelle che l’artista osservava negli ambienti della media e alta borghesia. Sono peraltro le stesse su cui si esercitava l’attenzione (anche linguistica) del romanziere, ma a cui il formato vincolante della narrazione breve imprime evidenza macroscopica e ritmo inarrestabile, fino alla irreversibilità. Quel che nei romanzi si dilata – per l’ampiezza del racconto, del sistema dei personaggi, dello spazio geografico, fisico, temporale –, nella novella (si direbbe quasi per statuto) si concentra e acquista turgore. Ma rispetto alle novelle di Vita dei campi, qui lo sguardo del narratore si fa al contempo più mobile e più duro: si allarga a indagare i contesti, più che gli individui, e dei contesti coglie, ovunque si posi, la «ferinità», di cui bene ha scritto Manganaro[2]. Questo sguardo orienta fortemente le novelle della raccolta e le sottrae al giudizio frettoloso di essere state messe insieme esclusivamente per una operazione commerciale. Basterebbe guardare l’organizzazione complessiva del libro, così come Castellana la ricava seguendo una intuizione critica di Paola Bernardi:
(senza pretendere di liquidare con ciò il discorso sulla struttura di un libro complesso come Novelle rusticane), sembra sensato congetturare che il blocco iniziale raffiguri i rappresentanti del potere religioso, politico e giuridico colti nell’esercizio delle loro funzioni; che il blocco centrale e più cospicuo (Malaria, Gli orfani, La roba, Storia dell’asino di San Giuseppe, Pane nero) si concentri invece senza mediazioni sul tema economico, con la novella La roba a fare non casualmente da perno centrale all’intero volume; e che il dittico conclusivo I galantuomini-Libertà da un lato prosegua il tema economico e dall’altro, circolarmente, si ricolleghi tanto a Cos’è il re (potere politico), quanto a Don Licciu-Papa (potere giudiziario). Chiude il volume la novella postfativa Di là dal mare, che riprende metadiegeticamente luoghi e personaggi del libro, ma distanziandoli attraverso il filtro della memoria.[3]
Al di là della «ipotesi genetica»[4] avanzata da Castellana, che fa discendere tanto Fantasticheria (com’è noto, novella prefativa di Vita dei campi) quanto Di là dal mare da modelli zoliani (ma la parentela con Zola costituisce un ulteriore suggerimento per percorsi in aula), quel che didatticamente ci interessa è proprio il filtro di quello sguardo. C’è un narratore (questa volte extradiegetico, a differenza di quello di Fantasticheria), che, nel momento della separazione di due amanti, rievoca i racconti terribili e affascinanti che lui ha fatto a lei, menzionando, come fossero i personaggi di un mito, i protagonisti delle novelle che il lettore ha appena ultimato. Ed è solo così, prendendo le distanze (con la finzione del racconto nel racconto) dal mondo appena narrato, è soltanto così, travestendo i personaggi da fantasmi, da larve sinistre, che quelle vicende possono apparire leggende. Ma per chi le guardi senza il filtro lirico e romantico della memoria, cioè con lo sguardo imperscrutabile e spregiudicato del narratore impersonale, quelle vicende sono e restano semplicemente terribili. Educare le classi a osservare la realtà con quello sguardo non significa insegnargli il male, ma la postura critica di chi quel male riconosce e indaga.
Perché segnano l’eclissi dei personaggi-eroi
Delle otto novelle di Vita dei campi [5], tre portano il nome (più o meno ingiurioso) dei loro protagonisti (La lupa, Rosso Malpelo, Jeli il pastore), una ha un titolo significativamente diviso per due (L’amante di Gramigna) e una quinta (Cavalleria rusticana), soprattutto dopo la sua trasposizione in dramma, evoca immediatamente anche al lettore meno esperto i nomi di compare Alfio e compare Turiddu, e spesso anche di Lola e Mara. È il segno piuttosto vistoso di un’attenzione, da parte di Verga, tesa ancora a indagare (romanticamente) l’azione del singolo in seno – più spesso contro – la comunità che dovrebbe proteggerlo e garantirne la dignità e che invece lo umilia, lo giudica, ne inibisce desideri e movimenti quando essi negano i codici comportamentali condivisi, anche se ingiusti o viziati da interessi economici e sociali. Ma nelle Rusticane la prospettiva cambia sensibilmente. Al centro dell’attenzione è proprio la comunità, il contesto economico e istituzionale, le sue dinamiche sociali. Il narratore sostituisce all’exemplum della vicenda-simbolo di un personaggio-mattatore, vittima o carnefice poco importa, la chiamata in correo dell’intera comunità. Lo si osserva certamente con particolare evidenza in novelle dichiaratamente “plurali” come I galantuomini, o ancora in Pane nero, che racconta l’inesorabile sfaldarsi di un nucleo familiare, dilaniato dalla fame di denaro, o, ancora meglio, in Libertà, che nel popolo insorto ha un protagonista uno e molteplice e nel richiamo all’evento storico l’amplificatore di una crisi impossibile da confinare entro il perimetro della Sicilia. Tuttavia non è meno lampante nelle novelle che sembrano riportare l’attenzione su una figura centrale: non è da ritenersi casuale che, già nel titolo, Mazzarò lasci il passo alla vera protagonista della novella, cioè la roba; e neppure che l’unico personaggio che, insieme a Don Licciu Papa, di novella se ne intesti una, venga chiamato sempre e soltanto con l’onorevole appellativo di Reverendo: della sua ascesa vertiginosa, della sua sfrenata avidità (così come del malinteso senso ed esercizio della Giustizia che pervade la novella di Licciu Papa) la comunità è responsabile quanto lui:
Questa era storia che tutti la sapevano; e siccome sapevano che a furia di intrighi e d’abilità era arrivato ad essere l’amico intrinseco del re, del giudice e del capitan d’armi, che aveva la polizia come l’Intendente, e i suoi rapporti arrivavano a Napoli senza passar per le mani del Luogotenente, nessuno osava litigare con lui, e allorché gettava gli occhi su di un podere da vendere, o su di un lotto di terre comunali che si affittavano all’asta, gli stessi pezzi grossi del paese, se s’arrischiavano a disputarglielo, lo facevano coi salamelecchi, e offrendogli una presa di tabacco.
Tutti colpevoli, dunque; e la chiamata in correo di una comunità vale anche per la comunità dei lettori. E anche questo in aula va tenuto presente.
Perché trasformano la sintassi e il linguaggio
Allo spostamento del focus corrisponde un sensibile cambiamento della sintassi e del linguaggio. Si direbbe che, in misura inversamente proporzionale al dilatarsi dello sguardo, il lessico e il periodo si asciughino, complice una punteggiatura serrata fino alla provocazione. Ogni parola diventa una pietra, rifiuta le tinte tenui, guadagna in precisione, colpisce come una freccia. Le frasi diventano rapide, la paratassi incalza, la ipotassi predilige le oggettive, le temporali e le causali e restituisce, come un giudice istruttore, la sequenza e le motivazioni delle azioni di una umanità che ha il denaro come unico scopo e nessuna attenuante al proprio agire – sicché finali e concessive quasi si mettono fuori gioco da sé. Basta leggere, per convincersene, la chiusa folgorante di Don Licciu Papa, che così sintetizza una farraginosa quanto ignobile vicenda di abusi e prevaricazioni economiche e sociali:
Dopo che l’ebbero legato ben bene, accorse don Licciu Papa, gridando: — Largo alla Giustizia! largo alla Giustizia!
Davanti alla Giustizia gli diedero anche un avvocato, per difendersi. — Almeno stavolta la Giustizia non mi costa nulla; — diceva compare Arcangelo. E fu meglio per lui. L’avvocato riuscì a provare come quattro e quattro fanno otto, che curatolo Arcangelo non l’aveva fatto apposta, di cercare d’ammazzare il signorino, con un randello di pero selvatico, ch’era del suo mestiere, e se ne serviva per darlo sulle corna ai montoni quando non volevano intender ragione.
Così fu condannato soltanto a 5 anni, la Nina rimase col signorino, il barone allargò la sua dispensa, e il Reverendo fabbricò una bella casa nuova su quella vecchia di curatolo Arcangelo, con un balcone e due finestre verdi.
O si provi un confronto tra le novelle già menzionate, la prefativa Fantasticheria e la postfativa Di là dal mare. Della prima ognuno ricorda il flusso, la morbidezza, non scevra da accenti mondani, che sembra voler riprodurre l’accavallarsi dei ricordi nella mente di chi narra:
Oltre i lieti ricordi che mi avete lasciati, ne ho cento altri, vaghi, confusi, disparati, raccolti qua e là, non so più dove; forse alcuni son ricordi di sogni fatti ad occhi aperti; e nel guazzabuglio che facevano nella mia mente, mentre io passava per quella viuzza dove son passate tante cose liete e dolorose, la mantellina di quella donnicciola freddolosa, accoccolata, poneva un non so che di triste e mi faceva pensare a voi, sazia di tutto, perfino dell’adulazione che getta ai vostri piedi il giornale di moda, citandovi spesso in capo alla cronaca elegante ― sazia così da inventare il capriccio di vedere il vostro nome sulle pagine di un libro.
Ma la seconda, che pure sembra cedere ai toni sfumati e mitizzanti della memoria, registra un andamento tutto nuovo e modernissimo, scandito da frasi brevi, semplici, a volte sprovviste di verbo:
Degli insetti ronzavano sul ciglione del sentiero. Dalla terra screpolata si levava una nebbia grave e mesta. Non una voce umana, non un abbaiare di cani. Lontano ammiccava nelle tenebre un lume solitario. Finalmente arrivò il treno sbuffante e impennacchiato. Partirono insieme; andarono lontano, lontano, in mezzo a quelle montagne misteriose di cui egli le aveva parlato, che a lei sembrava di conoscere.
Una lezione importante, osservare un artista che si emenda, raddrizza il tiro, cerca nuove forme per esprimere quello che sente mutare dentro di sé. Una lezione che sempre dovremmo porgere alle nostre classi.
[1] Il Reverendo, Cos’è il re, Don Licciu Papa, Il Mistero, Malaria, Gli orfani, La roba, Storia dell’asino di San Giuseppe, Pane nero, I galantuomini, Libertà, Di là dal mare
[2] A. Manganaro, La ferinità umana, la guerra, lo spatriare. Riletture verghiane, Fondazione Verga/Euno edizioni, Catania 2021. Si vedano in particolare le pp.29-33, dedicate ad alcune delle Rusticane: Storia dell’asino di San Giuseppe, Gli orfani, Libertà, La roba.
[3] R. Castellana, Lo spazio dei vinti. Una lettura antropologica di Verga, Carocci, Roma 2022, p.114
[4] Ivi, pp.109-112
[5] Ci si riferisce alla prima edizione, del 1880, che non includeva Il come, il quando ed il perché né Nedda
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