Come lemmings, ovvero della ‘settimana corta’
Dinamica della moda
Quando lasciai la mia città di nascita, dove avevo insegnato per alcuni anni, la ‘settimana corta’ (a scuola fino al venerdì e non più fino al sabato) era già ampiamente diffusa. Otto anni fa, arrivando nella città in cui vivo ora, scoprii che qui questa ‘riforma’ non era ancora arrivata. ‘Esistono le isole felici’, avevo pensato. Sono passati gli anni e anche da queste parti quasi tutte le scuole hanno ormai capitolato. Dal prossimo anno molto probabilmente toccherà anche alla mia. In effetti è sciocco credere nell’esistenza delle isole felici. La settimana corta si diffonde con la stessa dinamica della moda: nessuno in particolare la decide, ma tutti la seguono.
A differenza della moda, però, non è innocua, perché fa male alla didattica. A meno che non si adotti la soluzione del rientro pomeridiano, la settimana corta costringe infatti ad aggiungere un’ora di lezione ogni giorno; di norma una sesta ora, anche se più raramente può trattarsi di una settima. Certo, esistono possibilità di riequilibrio interno, come introdurre un secondo intervallo o ridurre le ore a 50 minuti. Resta il fatto che le stesse lezioni, che prima erano affrontate nel più disteso tempo di sei giorni, ora vengano intruppate in cinque.
Ce lo chiede l’Europa
A difesa della settimana corta fiorisce l’arte dell’arrampicamento sugli specchi: a posteriori e a lato, si cercano giustificazioni ragionevoli e onorevoli a una scelta che evidentemente non lo è. Una delle più emblematiche, messa nera su bianco nel documento interno che nella mia scuola preparava il dibattito sul tema, ma in cui mi ero già imbattuto, è quella dell’“adeguare l’eccezione italiana all’Europa”. La forma generale, totipotente, di questo argomento dovrebbe ormai esserci nota: è in suo nome che il riformismo tecnocratico di questi anni ha operato in questo e quell’ambito. Insomma, mi è sempre parso un argomento propagandistico, ma ho voluto comunque verificare sul portale Eurydice: nelle comparazioni sull’organizzazione del tempo scolastico, non si trovano indicazioni esplicite sulla durata della settimana di scuola nei paesi europei. Chissà com’è davvero fatta questa Europa che tutti invochiamo come fato ineluttabile. Ma in fondo si tratta di un riscontro superfluo. Se si fornissero spazi adeguati per vivere la scuola anche di pomeriggio o mense decenti, se fossimo di fronte a una riorganizzazione strutturale, allora staremmo parlando di diventare europei. Invece stiamo solo facendo i conti della serva.
Fare una lavatrice in meno
Anticipare l’ingresso, posticipare il pranzo, allungare la mattinata, stiparla di scuola. Di questo, e nient’altro, stiamo parlando. All’ora del pranzo non vorrei essere nei panni di quel collega (e magari sarò io) che ha solo due ore alla settimana e si trova una classe tramortita e con la fame che morde. Non vorrei essere nei panni degli studenti, alla sesta ora. Dove, poi, come nelle secondarie superiori di provincia (la mia…), l’utenza viene anche da molto lontano, l’uscita alle due rischia davvero di trasformare il pranzo in una merenda. “Uscendo da qui alle 14.10 tutti i giorni, io tornerei a casa dopo le 15. Se non perdo il treno. Se no arrivo a Castellina in Chianti alle 16.30, con quello dopo”. Un’altra allieva mi dice che lei, già ora (uscendo alle 13.20), arriva a casa alle 15. Certo, questi sono i casi estremi, quelli di chi vive in frazioni molto scomode e distanti. Ma i pendolari nel mio istituto sono comunque il 60% degli studenti. In effetti è per consentire loro di entrare in classe senza svegliarsi coi lupi, che nelle scuole di provincia è sempre stata in vigore la prassi dell’ingresso tra le 8.20 e le 8.30. Con la settimana corta, la prima ora sarà retrocessa alle 8.10, come nelle scuole metropolitane, dove l’utenza proviene dai quartieri limitrofi. La marea della settimana corta non guarda in faccia nessuna specificità territoriale.
Gli adolescenti avrebbero bisogno di iniziare la scuola persino più tardi dell’orario attuale, perché macinano più lentamente degli adulti la fatica del risveglio. E noi, per il supremo bene del sabato libero, li buttiamo giù dal letto ancor prima.
Ma al sabato libero non è possibile dire di no. I genitori lo vogliono. Gli studenti lo vogliono. Gli insegnanti lo vogliono. Lo vogliono anche le Province, che risparmiano sul riscaldamento. Presumo che faccia comodo anche alle aziende di trasporto, che potranno organizzare corse in meno. Ma concentriamoci solo sui diretti interessati.
Qualche argomento ragionevole a favore della settimana corta c’è, non lo nego. Capisco perfettamente il sollievo dei genitori che accompagnano i figli in auto e che si risparmieranno un giorno di viaggio. Capisco anche la seduzione del fine settimana interamente libero. Ma il gioco vale la candela? Qual è il vantaggio di quel fine settimana, se, negli altri cinque giorni, la fatica della mattina aumenta oltre le naturali possibilità di concentrazione e diminuisce il tempo pomeridiano a disposizione per i compiti, la lezione di nuoto e di chitarra, la certificazione linguistica, l’uscita con gli amici? Temo che pochi aprano il pacco ben addobbato della settimana corta, per guardare che cosa ci sia dentro: una scuola identica alla precedente, ma in forma concentrata, come una lavatrice caricata a forza di troppo bucato, per evitarsi il fastidio di farne un’altra.
Seduttiva leggerezza
Studenti e famiglie finiscono per decidere la scuola superiore per sé e per i figli sulla base di un calcolo astratto. Cinque è meno di sei. E in tempi di (apparente…) flessibilità e alleggerimento dal duro peso della materialità (sociale, del lavoro, delle istituzioni) tanto basta.
“Ma fate scuola il sabato? Allora iscrivo mio figlio di là”. “Guarda, caro collega, che lo fanno tutti, e se non lo facciamo anche noi, perdiamo appeal, perdiamo iscritti, perdiamo cattedre”. Si deve. È così. Non si può non. Ma in realtà, dietro questa apparenza di inevitabilità storica, c’è, come sempre, l’ideologia. La scuola oggi le famiglie se la scelgono. La scuola oggi deve attirare studenti, fare l’open day, metter su la coda di pavone. Si smercia merce che ha da essere appetibile. Siamo insomma di fronte a quel conformismo tipico del mercato – non è vero che esso generi sempre innovazione, differenziazione del prodotto: crediamo che se ci manca qualcosa che l’altro ha, saremo meno desiderabili. In una società di mercato l’imitazione conformista non è in contraddizione con il principio della differenziazione dell’offerta (formativa…). Ci si fa infatti concorrenza per il possesso e l’esibizione dello stesso capitale simbolico (apparteniamo ormai tutti alla vebleniana classe agiata, anzi peggio: alla venturiana classe disagiata).i “Noi c’abbiam la settimana corta e voi no-o!”.
Non riesco a spiegarmi diversamente questa epidemia di settimane corte, verso le quali corriamo come tanti lemmings, in coda per precipitare dalla scarpata.
Corporativismo
Ma la cosa che più mi sgomenta è vedere il comportamento di noi insegnanti. Chi tiene a quello che fa in classe sa bene che con la sesta ora la didattica ci scapiterà e non si lascia sedurre. Ma la settimana corta risolve un annoso conflitto di interessi: quello del giorno libero. Come in un sistema feudale, in alcune (molte?) scuole il sabato libero è un miraggio per i precari, per i nuovi arrivati, per chi non è amico dell’orarista, per chi è discreto e non osa chiedere. Quello che dovrebbe essere un aspetto dell’organizzazione scolastica, diventa materia di privilegio e di esclusione. Con il sabato libero tutti felici: chi ce l’ha già, non dovrà più pregare per averlo, né difendersi dalla critica al baronato; chi non ce l’ha, finalmente ce l’avrà. Si scambia la qualità della didattica – e il bene dei nostri studenti – con un interesso personale e di categoria. Anche perché, per risolvere la vexata quaestio, basterebbe pretendere l’applicazione di una rigorosa democrazia interna: il sabato libero a turno. Ma, per ottenere questo, bisogna portare il problema allo scoperto. È più comodo risolverlo con l’escamotage della settimana corta, tacendone la vera, impronunciabile, ragione.
“Non credo che il sì passerà”, mi dice una collega, “tutti quelli con cui parlo sono contrarissimi”. “Ma”, faccio io, “il voto alla settimana corta è come il voto alla DC. Si fa ma non si dice”. Così gli insegnanti contrari, che si contano e che credono di essere maggioranza, rischiano di fare la fine dei comunisti e socialisti alle elezioni del 1948. “Ai nostri comizi le piazze erano piene, a quelli di De Gasperi no. Eravamo convinti di vincere”, confessava un deluso Pajetta, “semplicemente, ci votavano i cittadini politicamente attivi”.
Una Favola delle api senza lieto fine
Insomma, gli egoismi e gli individualismi di sempre vengono rafforzati (e legittimati) dall’etica di una società che non si perita di aver sottomesso persino lo spazio costituzionale della scuola, se non al tornaconto personale, quanto meno alla propria comodità e gusto. Siamo sempre meno un’istituzione dello Stato; siamo sempre meno una delle incarnazioni di quell’alto ideale della modernità che si chiamava spazio pubblico. Purtroppo la scuola fornisce ormai ‘servizi’, e se alle famiglie fa comodo la settimana corta, pace. Inoltre sembra ormai arcigno e antistorico sostenere che il mondo adulto abbia il diritto e il dovere di dire di no a un desiderio degli studenti, se il diniego è motivato dal loro stesso interesse. Perciò sia pace pure qui.
Assistiamo a un delitto perfetto: gli interessi particolari (e miopi) di ognuno producono un peggioramento delle condizioni di tutti. Un po’ come in una mandevilliana Favola delle api finita male: vizi privati, pubblico danno.
i Ne La teoria della classe agiata (1899), il sociologo Thorstein Veblen sostiene che l’emulazione della ricchezza altrui sia uno dei pungoli fondamentali della vita sociale. L’idea è stata ripresa e sviluppata di recente da Raffaele Alberto Ventura in Teoria della classe disagiata (2017), che sostiene però che la discrepanza tra il desiderio di possesso degli status symbol e l’impossibilità materiale di ottenerli da parte di una classe media in crisi, genera frustrazione e infelicità.
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G.B. Palumbo Editore
E’ particolarmente buffo che questo articolo venga pubblicato il giorno che in Consiglio di Istituto (non in collegio docenti) viene discussa la questione della settimana corta.
Per questo comincio con alcuni dati di legge.
Il primo: è il CdI ad avere competenza primaria in termini di “criteri”, anche per l’orario, come per altre cose (mi pare sia l’art. 7 del testo unico ma sto andando a memoria). Il collegio, poi, formula “proposte”, sulla base dei criteri (la stessa cosa, con questo ordine temporale, vale anche per l’attribuzione dei docenti alle classi e per la composizione delle classi, per esempio). E’ importante avere contezza di questo ‘cronoprogramma’, perché consente di riflettere su come fosse stato pensato nei decreti delegati il ragionare insieme su una serie di elementi.
Poi è il DS a dovere farsi il carico della decisione definitiva, esplicitando le ragioni della sua scelta; e chiaramente qualora i due organi collegiali confliggano si apre una interessante riflessione.
Il secondo: qualora la riduzione orario, necessaria per fare le ore di 50 minuti, sia di natura didattica (e ovviamente in questo caso lo è), è necessario per il lavoratore restituire ALLE CLASSI coinvolte le ore ‘tolte’ in modo da garantire il monte ore complessivo. C’è a questo proposito una circolare della Campania molto chiara. Questo significa che quel recupero NON PUO’ essere fatto semplicemente restituendo “alla scuola” una 19, 20, 21 ora genericamente “a disposizione”, ma organizzando delle forme di recupero sulle classi cui quelle ore sono sottratte.
Sulla generalità, condivido tutte le tue osservazioni, che sono pensate e costruite su una esperienza per di più esclusivamente liceale, con un numero di ore che consente di pensare al massimo alla 6^ ora o a un rientro.
Immagina che cosa può essere quando questo pericoloso virus dei lemmings colpisce in scuole tecniche e professionali, o al liceo artistico.
Infine: non sottovaluterei, affatto, la consapevolezza delle famiglie. Noi abbiamo deciso, tra l’altro su suggerimento di chi era a favore della settimana corta, di fare un sondaggio tra alunni e alunne e famiglie. I risultati: tra gli/le alunn*: 75% circa contro. Tra le famiglie: 94% contro.
Ovviamente, e guai se non fosse così perché la responsabilità didattica è di noi docenti, è consultivo. Ma quando i dati sono così a onda, beh, dice qualcosa… E non a favore della categoria professionale.
@Orsetta Innocenti. Grazie delle preziose osservazioni. Poche cose.
1) La buffa coincidenza è, se capisco, con il Consiglio d’Istituto della tua scuola. Credo che quello della mia sia il 23 maggio. 🙂
2) Da noi c’è stata una discussione in collegio dei docenti, per ragionare insieme della proposta, poi una votazione online (questo fine settimana) tra tutte le componenti, studenti insegnanti ata genitori, ovviamente a puro scopo consultivo. Il consiglio della prossima settimana darà il suo parere.
3) Io sono convinto che se genitori, studenti e insegnanti si riunissero e ne parlassero, cioè se ci si fermasse a riflettere su questa ‘moda’, se ne fermerebbe la propagazione. Perché ci sono ottime ragioni per dire di no. Così mi spiego i dati che tu fornisci. Ma il “lo fanno tutti” consente a quei pochi o tanti favorevoli di spuntarla spesso, a furia di insistere e presentando la faccenda come un vantaggio. Altrimenti non si spiegherebbe questa forza di propagazione della proposta.
Il sondaggio della mia scuola mi permetterà in ogni caso di capire componente per componente l’orientamento (dubito che potrò diffonderlo però).
4) Quando scrivevo non pensavo solo ai licei, anzi. Pensavo alla mia stessa scuola, che comprende un artistico e un musicale (7a ora per il primo, problema di conflitto con le lezioni di strumento pomeridiane per il secondo), ma pensavo anche ad altre situazioni a me note, che riguardano anche istituti tecnici, che sono colpiti assai di più da questo appesantimento.
Grazie
Ho partecipato e condotto tanti dibattiti sulla questione, sia in qualità di genitore che di insegnante. Nel I grado ho portato avanti la posizione della settimana lunga proprio per una scuola più inclusiva e per evitare la sesta ora a ragazzini con difficoltà di concentrazione (modello: 6 ore consecutive e assenza di mensa, 7.45-14.00). I genitori sono stati i primi sostenitori della settimana corta per poter fare i fine settimana e lasciare a scuola il più possibile i pargoli da lunedì a venerdì quando lavorano. Risultato: appena il gruppo di genitori irriducibili tra cui la sottoscritta (che riusciva a smontare le argomentazioni contrarie totalmente inconsistenti in base a questioni didattiche) è uscito perchè i figli sono passati al secondo grado, la settimana lunga è stata tolta.
Al II grado il genitore si disinteressa della questione, tanto il pargolo può stare a casa da solo. Come tutti i docenti sanno, i genitori non hanno più il problema del fine settimana e si moltiplicano vacanze (le assenze il sabato sono il 30% superiori a quelle degli altri giorni della settimana e la percentuale cresce con gli anni). La richiesta nel II grado, anche quest’anno, è venuta dai diretti interessati, dai ragazzi, poi se i docenti rimangono compatti e sanno argomentare di solito la proposta sfuma.
Confermo quindi la centralità del Collegio docenti. Proprio per problemi legati al trasporto, nella mia zona, in provincia, la sesta ora è problematica e quindi domina il modello della settimana lunga, invece, a quanto posso vedere, in contesti cittadini la situazione è molto differente. DI nuovo la didattica non conta nulla
Sì, era buffo perché oggi in CdI c’era il primo atto deliberativo di un percorso cominciato il 5 settembre. Percorso nel quale io mi sono impegnata dall’inizio per sostenere le mie argomentazioni contro con motivazioni valide che non fossero diciamo solo nell’ottica della competenza tecnica da dibattito collegiale ma anche diciamo nell’ottica di cornice da CdI (ho fatto per esempio l’analisi comparata delle provenienze di tutti i nostri 900 studenti con tutti i mezzi pubblici e tutti gli orari coincidenze comprese, per tutte le nostre sedi). Questo a latere di forti argomentazioni didattiche e di inclusione. Ho portato una proposta di mediazione già sperimentata in altra scuola, il cd “sabato corto”, portando i dati di diminuzione delle richieste di permessi del sabato per impegni sportivi aggregati in percentuale sulla rilevazione di un anno.
È stato molto impegnativo, e i risultati del sondaggio hanno sparigliato tutto. Dunque mi faceva sorridere che proprio oggi, giorno in cui mi sono svegliata con questo primo pensiero, ho aperto come sempre Llen mentre bevevo il caffè e la risonanza mi ha colpito.
Comunque il CdI ha votato contro i 5 gg con il voto contrario del personale ATA.
Caro collega, potrei avere scritto io stesso questo articolo. Concordo pressoché su tutto.
La settimana corta con 30 ore di scuola obbligatorie è la cosa più stupida che possa esistere.